Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La propaganda di Hamas ha successo anche grazie ai media che le credono
Testata:La Repubblica - La Stampa - L'Unità - Avvenire - Il Manifesto Autore: Alberto Stabile - Alix Van Buren - Mario Baudino - Umberto De Giovannangeli - la redazione - Michelangelo Cocco Titolo: «Gaza, la minaccia di Hamas Assalteremo il confine d´Israele - Con la grande fuga affonda il piano Usa - Non è Hamas il problema - Esodo da Gaza, tensione tra Egitto e Israele - Erdogan: i Qassam non uccidono nessuno Israele si infuria e bacchetta l’amba»
Nella cronaca dell'esodo palestinese da Gaza scrittada Alberto Stabile per REPUBBLICA non c'è traccia di fatti essenziali: il lancio di razzi kassam che ha determinato il blocco israeliano, la creazione ad arte e l'ingigantimento mediatico di una "crisi umanitaria" da parte di Hamas, il ruolo di Hamas nell'apertura del valico di Rafah, la determinazione dell'organizzazione terroristica a proseguire l'aggressione a Israele.
In compenso non mancano l'attribuzione ad Hamas di "saggezza e lungimiranza" e la qualificazione del terrorismo come "resistenza".
Ecco il testo:
RAFAH - Davanti agli squarci aperti sul reticolato, l´Egitto ha schierato le truppe anti-sommossa: elmi, scudi, bastoni e brutte maniere. Questi sono soldati abituati a picchiare duro sulla folla del Cairo. Qui, con ordini secchi e qualche spintone, si limitano ad orientare l´arrembaggio dei palestinesi che, per il secondo giorno consecutivo, hanno preso d´assalto la frontiera per continuare il loro shopping della sopravvivenza nella vicina El Harish, la città supermercato. A differenza di mercoledì, però, ieri un ufficiale in borghese del Mukabarat, il servizio di sicurezza, con un sorriso tanto cortese quanto irremovibile, non ci ha permesso di restare sulla piazza davanti alla moschea: «Questo - dice - è territorio egiziano. Se vuol parlare con la gente si accomodi dall´altra parte». Dall´altra parte, c´è il muro di ferro crollato come un ventaglio di stoffa e la certezza che erano migliaia a sapere che presto la frontiera sarebbe stata sfondata. Le lamiere larghe un pollice appaiono segate alla base con la fiamma ossidrica. Un lavoro che ha richiesto settimane, se non mesi, e molta gente del mestiere. «Certo che sapevamo», dice una donna di Tal el Sultan, uno dei quartieri vicini, reggendo in bilico sulla testa una scatola di cartone in cui ha ammucchiato pece, formaggio e latte. Gli unici a non sospettare nulla, a quanto pare, erano gli israeliani. I quali però, sembrano intenzionati a cogliere l´occasione per liberarsi di Gaza. «Adesso che la Striscia è aperta dall´altro lato Israele non ha più alcuna responsabilità», dice il vicemininistro della Difesa, Natan Vilnai, sorvolando sul fatto che lo Stato ebraico controlla il confine nord, il confine est, le acque territoriali e il cielo di Gaza. La risposta di Hamed Yussef, il consigliere del premier di fatto Ismail Haniyeh, è dura: «Israele deve capire che i palestinesi non si faranno strangolare dal blocco, altrimenti la prossima volta anziché andare verso Rafah marceranno verso Eretz (al confine con Israele, ndr) e non importa se molti saranno uccisi o feriti, perché siamo buoni musulmani e non abbiamo paura di morire». Lo sfondamento del confine tra Gaza e l´Egitto ha innescato una complicata schermaglia politico-diplomatica. Vengono evocati scenari, ipotesi di nuovi accordi. In realtà, nessuno dei protagonisti sa che cosa fare. La prima cosa a cui si pensa in Israele è che forse è venuto il momento per staccarsi per sempre da quella che è stata prima la culla dei mujaheddin, poi della resistenza all´occupazione, infine del Movimento islamico Hamas. Una spina nel fianco pervicace e dolorosa. Ma il trasferimento di responsabilità di cui parla Vilnai appare difficile. Il Raìs egiziano, Hosni Mubarak, non sembra per nulla intenzionato a farsi carico della bomba a tempo chiamata Gaza, dove risiedono centinaia di migliaia di rifugiati delle guerre del ‘48 e del ‘67. Mubarak ha impostato la crisi termini umanitari: «Li ho lasciati entrare perché stavano morendo di fame a causa del blocco». Ma ha criticato Hamas e la sua politica dei fatti compiuti, affermando che non si farà invischiare nella lotta intestina tra la leadership islamica di Gaza e quella laica di Ramallah. Per Hamed Yussef, come probabilmente per tutta la leadership del movimento islamico, queste sono giornate da ricordare. «Quello che sta succedendo - dice Yussef seduto alla sua scrivania davanti a due ritratti, uno di Arafat e uno di Abu Mazen - è una vittoria totale per Hamas e una vittoria morale per il popolo palestinese». Ma adesso è arrivato il momento di mostrare saggezza e lungimiranza. Prima di tutto nei confronti dell´Egitto. «Sono convinto che entro pochi giorni la crisi sarà risolta. I contatti sono già stati avviati. Spetta al Cairo dettare le linee della soluzione. Noi non vogliamo una frontiera aperta, vogliamo un confine ufficiale che permetta di tanto in tanto alla gente di Gaza di uscire. E non ci opponiamo, anzi siamo favorevoli all´idea che la gestione del passaggio di frontiera, oltre all´Egitto, coinvolga la comunità internazionale e i nostri fratelli di Ramallah». Hamas, fa capire Yusef, potrebbe avere un ruolo secondario, di polizia. Il crollo del muro di Rafah diventerebbe, dunque, l´inizio della riconciliazione nazionale tra il movimento islamico e l´Autorità Palestinese, con l´inevitabile derubricazione delle accuse mosse da Abu Mazen contro Hamas di aver preso il potere a Gaza con un golpe sanguinoso. Ma «stavolta accetteranno il dialogo - assicura Yussef - perché a Ramallah sentono che la loro strategia sta fallendo». Domenica, tuttavia, Abu Mazen inconterà Olmert per fare il punto sul negoziato.
Il successo della strategia dei terroristi di Hamas dimostra, secondo Robert Malley, consigliere della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, la necessità di coinvolgere il gruppo islamista nelle trattative. Trattative su cosa, se l'obiettivo di Hamas è la distruzione di Israele ?
«Se si volesse abbozzare un bilancio della fuga da Gaza, una delle più imponenti evasioni di massa da un carcere virtuale, la vittoria spetta in primo luogo a Hamas, che torna di prepotenza al tavolo dei negoziati; in secondo luogo a Israele, che ottiene il disimpegno dalla Striscia, consegnandone la responsabilità all´Egitto». Robert Malley, consigliere della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, direttore del programma mediorientale all´International Crisis Group, vede avverarsi le sue previsioni: «È difficile davvero comprendere la sorpresa della comunità internazionale di fronte ai fatti di Gaza. I segnali erano evidenti da tempo: con l´aggravarsi della crisi umanitaria, quel territorio sarebbe inevitabilmente esploso. Eppure tutti, Israele, Stati Uniti, Egitto, sono stati colti impreparati». Con quale risultato, Malley? «Che naufraga la politica mediorientale di Stati Uniti e Israele, fondata sull´esclusione di Hamas dal processo di pace, e sulla scommessa di un declino degli islamisti attraverso il blocco di Gaza». Hamas dunque è vincente? «La lezione di questi giorni è che il negoziato politico è una partita di scacchi a tre, fra Israele, l´Autorità palestinese di Abu Mazen e il movimento islamista. Escludere uno dei giocatori è impossibile: Hamas ha dimostrato di avere vari strumenti - economici, militari, politici - per influenzare gli eventi, e questo oltre ogni aspettativa. La sua statura s´è rafforzata, oggi è l´inevitabile interlocutore: una posizione assai scomoda per molti». Ad esempio per chi, professore? «Ad esempio per l´Egitto, costretto adesso a negoziare con il movimento per stabilizzare la frontiera. Ma anche per l´America, per Israele, l´Autorità palestinese e Al Fatah, che vedono naufragare le loro attese. Privi com´erano di una strategia di lungo periodo, s´illudevano che asfissiando Hamas ne avrebbero ottenuta la resa. E che Abu Mazen potesse negoziare con Olmert ignorando larga parte della popolazione palestinese, alle prese con una crisi umanitaria e una escalation sanguinosa. L´unico a trarre qualche vantaggio è Israele». Vale a dire? «Già nei piani di Sharon si vagheggiava il totale disimpegno da Gaza, con uno sbocco della Striscia verso l´Egitto. Certo, Israele avrebbe preferito controllare la frontiera. Però l´accelerazione della crisi gli ha regalato un risultato: il Cairo, lo voglia o no, non ha più scelta. Il confine non può più essere sigillato, e Olmert si è liberato del peso della crisi umanitaria». Resta la crisi politica, professore Malley? «La Casa Bianca dovrà riesaminare la propria strategia, includere nel negoziato un milione e mezzo di palestinesi e un´organizzazione rivelatasi potente come quella di Hamas. Fatah e gli islamisti dovranno riconciliarsi, sulla base dell´accordo della Mecca, delegando ad Abu Mazen le trattative. Infine Israele e Hamas dovranno concludere una tregua. Non v´è altra soluzione. A meno che non si voglia rischiare un conflitto. E la Striscia di Gaza, più di ogni altra area, è l´innesco più probabile della prossima guerra arabo-israeliana».
Su La STAMPA Mario Baudino intervista Leila Shahid, rappresentante dell'Autorità palestinese. Hamas non è cattiva come sembra, la demolizione del valico di Rafah è stato un atto spontaneo della popolazione, gli accordi di pace non sono stati fermati dalla violenza, ma dalla cattiva volontà... Le solite falsità e la solita propaganda che ignora i fatti più evidenti (come il fatto che è stato il continuo bombardamento di razzi kassam contro Israele a determinare la crisi in atto).
Ecco il testo:
Sarà da oggi a Percoto, vicino a Udine, per ricevere il prestigioso premio Nonino a «un maestro del nostro tempo», assegnato da una giuria che spazia da Peter Brook a Claudio Magris a Edgar Morin. Leila Shahid, però, più che un «maestro» si sente una militante. Per formazione è antropologa, ha studiato le banlieu francesi e i campi dei rifugiati in Medio Oriente. Ora è la rappresentante dell’Anp a Bruxelles, presso la Commissione europea, dopo esserlo stato in Irlanda, Olanda, all’Unesco e in Francia. Doveva sostenere l’esame per il «bac», la maturità, alla scuola francese di Beirut, il 5 giugno del ‘67, quando scoppiò la guerra dei sei giorni. «Come tutti, ero convinta che avremo vinto. Per la mia generazione, quella sconfitta umiliante ha cambiato tutto, dalla letteratura alla politica». Ora guarda a Gaza. Signora Shahid, che cosa sta succedendo? «Che la gente ha trovato la forza di aprire una breccia in una situazione intollerabile. Quella breccia significa anche, forse, l’apertura di un orizzonte». Giudica quindi in termini positivi quanto è accaduto? «Intanto era inevitabile. La popolazione ha agito da sola, riversandosi oltre il muro di confine. A pensarci sembra incredibile: stanno mostrando più iniziativa di tutti gli attori della scena politica, a partire dai loro leader per arrivare agli israeliani e alla comunità internazionale. Le persone che hanno rotto l’assedio non sono responsabili dei missili lanciati su Israele - e questo lo ha ripetuto anche il nostro presidente, Abu Mazen. È una reazione sana, che indica una soluzione possibile al resto del mondo. Non dimentichiamo che la comunità internazionale è responsabile di un grave equivoco: aver creduto che il ritiro unilaterale di Israele da Gaza fosse l’inizio della pace». Non era così? «E’ stato l’inizio di un assedio, che ha ridotto Gaza in una situazione terribile dal punto di vista sociale ed economico. Tutte le istituzioni straniere presenti erano sicure, da tempo, che la situazione sarebbe esplosa». Lei parla di assedio a Gaza. Ma Israele deve pur badare alla propria sicurezza. «È ovvio che sono contro ogni tipo di violenza. Ma attenzione: non è stata la violenza a interrompere i processi di pace. Ciò che di volta in volta li ha fermati è stata l’assenza di volontà politica da parte di tutti: ancora una volta israeliani, palestinesi, organizzazioni internazionali e mondo arabo. Non è mai successo che questi quattro protagonisti si ritrovassero insieme nelo stesso momento con lo stesso grado di convinzione. Quando uno era deciso, non lo erano gli altri. Eppure tutti sappiamo benissimo qual è la soluzione: uno Stato palestinese con Gerusalemme Est capitale. Però bisogna arrivarci». Non pensa che Hamas a Gaza sia un ostacolo insormontabile? «Guardi, io sono laica. E da laica le dico che il mondo ha troppo demonizzato Hamas. Non è un’organizzazione terroristica islamica di tipo salafista. È stata votata democraticamente. Se si fosse dialogato fin dall’inizio con la parte più moderata forse tutto questo non sarebbe successo». Ieri Abraham Yehoshua, il grande scrittore israeliano, sosteneva che è giunto il momento di accettare l’offerta di tregua fatta da Hamas. Di dialogare anche con chi non riconosce Israele e il suo diritto all’esistenza. «Sono contenta che l’abbia detto. Non si può chiedere a Hamas o a chiunque altro di sospendere gli attacchi, se Israele a sua volta non ferma i suoi. È necessario un minimo di reciprocità. Spero che lo ascoltino. Anche se il governo israeliano in questo momento pensa molto più alla politica interna che al dialogo con i palestinesi».
Sull'UNITA' Umberto De Giovannangeli riporta estesamente la presa di poszione italiana. Il nostro paese ha lodato il mancato rispetto degli accordi con Israele da parte con l'Egitto, incurante delf atto che l'apertura del valico di Rafah comporta l'ingresso di armi a Gaza e ulteriori rischi per la sicurezza di Israele:
All'iniziativa egiziana guarda con favore l'Italia. «Esprimiamo vivo apprezzamento per la sensibilità dimostrata da Mubarak che ha consentito l'accesso (in Egitto, ndr.) ai palestinesi per l'approvvigionamento di beni essenziali e auspichiamo sia possibile riaprire quanto prima il valico di Rafah» per evitare un collasso umanitario nella Striscia, afferma il portavoce della Farnesina, Pasquale Ferrara. Nel consueto briefing con i giornalisti, Ferrara insiste sulla necessità di «evitare il precipitare della situazione che colpisce la popolazione civile, che non può avere accesso ai beni primari». È un tema molto importante, spiega, affrontato direttamente dal ministro degli Esteri D'Alema in più circostanze: «È uno dei temi - aggiunge ancora Ferrara - sui quali lavoriamo anche in seno all'Ue per dare un segnale tangibile della volontà dell'Italia e dell'Unione Europea di rispondere a questa necessità fondamentale della popolazione civile a Gaza».
AVVENIRE pubblica il seguente trafiletto: Tensione tra Israele e Turchia dopo che il capo del governo di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, ha sostenuto che mai nessun israeliano è stato ucciso dai razzi Qassam lanciati dai militanti palestinesi. «I territori palestinesi sono una prigione a cielo aperto – Ha detto Erdogan in un discorso trasmesso dalla Tv turca –. La gente di Gaza sta affrontando una tragedia umanitaria: non possiamo accettare una pratica che finisce per punire quasi due milioni di persone innocenti a causa di alcuni attacchi con i razzi. Quando chiediamo ai nostri colleghi israeliani quanti cittadini israeliani sono morti a causa di questi attacchi, non abbiamo risposta». Fonti del ministero degli Esteri israeliano hanno fatto sapere che una nota di protesta è stata consegnata all’ambasciatore turco a Tel Aviv, Namik Tan, al quale è stato chiesto un chiarimento delle parole del premier. «Israele si aspetta una risposta diversa da parte di uno Stato impegnato anche lui a combattere il terrorismo», ha detto un funzionario all’ambasciatore. Secondo il quotidiano “Haaretz”, della questione parleranno in un colloquio telefonico il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni e il collega turco Ali Babacan e una telefonata di chiarimento potrebbe esserci anche tra i due primi ministri, Ehud Olmert ed Erdogan.
Sarebbe stato utile e corretto precisare che i morti a causa dei kassam, purtroppo, ci sono stati.
Interessante ammissione della natura propagandistica degli avvenimenti a Gaza e a Rafah sul MANIFESTO. Per il quotidiano comunista non fa problema: è pronto a celebrare le vittorie della "resistenza" anche nella "guerra dei media":
Prima le immagini degli scolari costretti a studiare a lume di candela, trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo e inviate agli indirizzi di posta elettronica dei gruppi di solidarietà con la Palestina. Poi il simbolo del muro-frontiera che divide Gaza dall'Egitto che va giù, abbattuto dalle cariche di dinamite dei miliziani. Nella guerra di propaganda che in ogni conflitto procede parallela a quella combattuta a raffiche di mitra, gli uomini di Hamas negli ultimi giorni hanno fatto centro due volte, mettendo in ombra la propaganda dell'avversario, le centinaia di razzi Qassam lanciati da Gaza in Israele che erano serviti a giustificare lo strangolamento economico della Striscia. L'abbattimento del muro da parte di Hamas «non è stato affatto spontaneo» ha commentato ieri Ha'aretz. Secondo il quotidiano israeliano si è trattato «di un altro passaggio di una campagna cominciata nella notte di tenebra vissuta da Gaza domenica», quando il taglio del carburante da parte del governo israeliano aveva ridotto la Striscia al buio. «Mentre Gaza era immersa in un'oscurità ampiamente rappresentata in tv - scrive il giornale -, bambini palestinesi armati di candele venivano portati all'aperto per una marcia di protesta e organizzati in manifestazioni trasmesse in prima serata». Secondo Yedioth Ahronoth «con l'assistenza dei suoi mezzi mediatici, così come con quelli del mondo arabo, Hamas ha dimostrato ancora una volta di controllare una macchina ben oliata». «Hamas - continua il quotidiano israeliano più diffuso - è stata capace di portare in strada gente con le candele, mentre le macchine scattavano fotografie, manifestazioni sono state organizzate in giro per il mondo con l'aiuto di simpatizzanti e organizzazioni locali, masse palestinesi si sono assembrate al valico di Rafah, masse hanno fatto saltare il muro, mentre l'opinione pubblica non poteva far altro che mostrare comprensione». «Con le file di profughi che da Rafah scappano verso l'Egitto, le immagini della loro povertà disperata sono qui sotto gli occhi di tutti» ha detto in un'intervista al Corriere della Sera il celebre scrittore Avraham Yehoshua. A queste abili mosse mediatiche hanno fatto seguito le condanne internazionali. Ieri il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione - presentata dai paesi arabi e islamici - che chiede a Israele di togliere l'embargo a Gaza. I paesi occidentali (Unione europea compresa) si sono astenuti in blocco, perché nel testo non si faceva menzione del lancio di razzi Qassam in Israele. Ma nei giorni scorsi il commissario agli affari esteri dell'Ue, così come il ministro degli esteri Massimo D'Alema, avevano descritto come «punizioni collettive» quelle messe in atto dal governo israeliano nei confronti di Gaza. L'esecutivo Olmert ora è in una situazione difficile, alla vigilia della pubblicazione del rapporto della Commissione Winograd sulla condotta nella guerra in Libano, che molti prevedono sarà una bocciatura per il premier. Non fare nulla per spezzare la resistenza di Gaza è politicamente impossibile: ampi settori del parlamento chiedono a Olmert la linea dura contro gli islamisti. Arrivare a una tregua - come richiesto da Hamas - darebbe per gli stessi motivi un segnale di debolezza. Un'operazione su larga scala contro i combattenti - dice l'intelligence - causerebbe un bagno di sangue anche nell'esercito, un incubo che nessuno vorrebbe vivere a un anno e mezzo dal conflitto in Libano.