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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera - L'Unità - Europa - La Repubblica Rassegna Stampa
25.01.2008 Gaza diventa un problema egiziano ?
rassegna di cronache e opinioni

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - L'Unità - Europa - La Repubblica
Autore: Francesca Paci - Alessandra Coppola - Lorenzo Cremonesi - Umberto De Giovannangeli - Daniele Castellani Perelli - R. A Segre - la redazione
Titolo: «Israele, Gaza è una graba dell'Egitto - Controesodo, quelli che sono arrivati -Israele: «Ora Gaza è un affare degli arabi» - «Non voltiamo le spalle Serve un'intesa radicale» - «Il nuovo fronte di Hamas» - Una valvola di sfogo per Hamas -Non vogliamo pun»

Da La STAMPA del 25 gennaio 2008, la cronaca di Francesca Paci:

A due giorni dallo sfondamento del valico di Rafah, Israele comincia a intravedere tra le macerie del muro un'opportunità. Chi si fa portavoce d'un opinione diffusa tra i corridoi della Knesset è il vice ministro della difesa Matan Vilnai, convinto che a questo punto il suo governo possa serenamente lavarsene le mani: «Poiché Gaza è aperta dal lato egiziano, Israele perde ogni responsabilità». La conseguenza che ne deriva, sostiene Vilnai, è il distacco dalla Striscia. E non importa che al momento dipenda quasi interamente dal carburante e soprattutto dall'elettricità israeliana, soppressa ancora ieri oltre al blocco degli autocarri carichi di merci. Secondo il portavoce del ministero degli esteri, Ariel Mekel, la novità di queste ore è il passaggio delle consegne: «Ai sensi del trattato di pace con Israele, il compito di ristabilire la situazione, che piaccia o meno, tocca all'Egitto». Patti chiari e amicizia lunga, taglia corto il ministro della difesa Ehud Barak: «Gli egiziani conoscono perfettamente i loro obblighi nei confronti di Israele, ossia il totale isolamento della Striscia».
Il Cairo si muove con cautela. Mentre il presidente Mubarak ribadisce il sostegno al popolo palestinese («Non permetterò che venga affamato») ma prende le distanze da Hamas («Respingiamo ogni tentativo di coinvolgere l'Egitto nelle loro dispute»), il portavoce degli esteri Hossam Zaki respinge al mittente l'invito a farsi carico di Gaza, «un'ipotesi sbagliata».
Con queste premesse, l'incontro di domenica tra il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen, il primo dopo la visita del presidente americano George W. Bush, si annuncia problematico. Nei giorni scorsi Abu Mazen aveva condannato duramente l'embargo imposto da Israele alla Striscia, pur criticando i lanci di razzi Qassam sulla città di Sderot. Forte del sostegno del segretario generale della Lega Araba Amr Mussa che da Davos ha attaccato ieri «l'assedio di Gaza», Abu Mazen si accinge a chiedere la revoca totale del blocco. Se da una parte Israele è tentato dallo scaricare la responsabilità sull'Egitto, dall'altra teme l'anarchia. Per questo, nel frattempo, ha elevato al massimo lo stato di allerta per i turisti israeliani in vacanza nel Sinai chiedendo di rientrare in patria al più presto.

Un reportage da Rafah, sempre di Francesca Paci. A proposito del quale si deve quanto meno osservare che l'informazione che fornisce è incompleta. Dal confine tra Gaza ed Egitto non transitano solo spose, ma anche e soprattutto armi.

Ecco il testo:


Ahmed aspetta al volante della Toyota nera nell'arena sabbiosa del mercato dell'usato di Rafah, un autosalone messo su nelle ultime trentasei ore d'anarchia dove per duemila dollari puoi scegliere tra una vecchia Subaro o una Fiat 127 d'antan. Alle sue spalle, quel che resta della barriera tra la Striscia di Gaza e il Sinai, sei chilometri di cemento e lamiera slabbrata che corrono fino a perdersi nel Mediterraneo come un'installazione di Land Art su cui i ragazzini fanno cross con le bici Vip Ehab. Il padre di Ahmed, Muhammad, è andato a prendere gli ultimi zii in arrivo dal Cairo per le nozze di domenica: nelle famiglie palestinesi tradizionali il matrimonio è sempre un evento, ma questo rischia seriamente di passare alla storia degli Haddaf. Nessuno vuol mancare.
Ahmed Haddaf e la futura moglie Fatima, 25 e 20 anni, coronano il loro sogno grazie al crollo del muro di Rafah: cugini di secondo grado, si era conosciuti e innamorati nel 2005, durante l'ultima apertura del valico seguita al disimpegno israeliano da Gaza. Da allora, aggrappati ai cellulari, tentano invano di ottenere le carte per rivedersi e sposarsi. Mercoledì mattina, alla notizia dello sfondamento, Fatima si è precipitata ad attraversare il confine. E non importa se presto o tardi lo ricostruiranno e lei resterà chiusa nella prigione a cielo aperto di Gaza. «Ahmed è il mio mondo», ha risposto alle amiche egiziane che la dissuadevano dall'impresa.
Tra le centinaia di migliaia di palestinesi che in queste ore scavalcano la frontiera per comprare latte, Coca Cola, detersivo Pril o fuggire dal passato, c'è un'onda anomala, controcorrente. Sono quelli come Fatima che voltano le spalle alla libertà per ricongiungersi con la famiglia o crearne una nuova.
In Egitto vivono circa 120 mila palestinesi, una parte profughi delle guerre del '48 e del '67, l'altra separata artificialmente dal confine tirato su nell'82, dopo la pace con Israele firmata da Sadat. Allora la città di Rafah venne divisa in due, come le strade, i quartieri, gli abitanti: metà al Sinai, metà alla Striscia di Gaza. Da due giorni sorelle, fratelli, cugini, si ritrovano tutti qui, in questa specie di piazza dell'unità e del mercato, dove gli astuti cambiavaluta fai-da-te hanno convertito arbitrariamente gli junieh, le sterline egiziane, in shekel. Molti torneranno nelle rispettive case, ad Alessandria o a Gaza City. Alcuni le hanno lasciate indietro per sempre.
Mamma Butaina Saleh, 49 anni e il doppio dei chili, siede sfinita su una valigia in finta pelle grande quanto una poltrona. Accanto a lei i tre figli e la figlia con il volto coperto dal niqab nero, il velo islamico integrale, tengono d'occhio il resto dei bagagli, borsoni, buste, un trasloco. «Siamo partiti dal Cairo all'alba, otto ore in taxi, andiamo dal mio primogenito Mustafà a Jabalya» racconta, mentre il marito Karim contratta un forfait per scavalcare tutte le macerie del muro con una scala: l'uomo che la noleggia chiede uno schekel, circa venti centesimi, a passaggio. Non vedono Mustafà dal 1997: «Chissà quando ricapita un'occasione così, abbiamo venduto il negozio di frutta e ci trasferiamo a Gaza». Probabilmente non ne usciranno più per un bel pezzo ma, ammettono, c'è qualche vantaggio: Mustafà fa l'insegnante e guadagna 2000 sheckel al mese, 450 euro, otto volte lo stipendio del fratello Alì, maestro elementare in un villaggio a sud della capitale egiziana. Nel mondo alla rovescia capita perfino che la vita dietro al muro sia più agiata di fuori.
«In quarant'anni è la prima volta che mi muovo da Arish», dice Ferial Musallah mentre trascina chili d'imbottitura per cuscini e materassi, introvabile nella Striscia sotto embargo. Se non fosse per il suo ragazzo sposato con una giovane di Rafah, avrebbe continuato ad abitare nel paese dove è nata da genitori profughi, una trentina di chilometri dentro la frontiera egiziana. Invece sconfina e forse si fermerà: «Sono vedova, gli altri quattro figli sono emigrati in Germania, non ho niente da perdere, di qua o di là è lo stesso».
Ahmed torna a casa in serata con la Toyota carica di zii. Seduto nel diwan, il grande salone arabo all'ultimo piano della casa di famiglia a Khan Younis, guarda Fatima con l'entusiasmo rinnovato d'un amore nato due giorni fa. «Fatima sarebbe voluta venire passando per uno dei tunnel da cui contrabbandavano armi» confida lo sposo mentre lei, timida, fissa le scarpe d'argento con tacco e punta affilati. Ma il padre di Ahmed, ex generale fedele a Fatah, ha detto no, irremovibile: «Per una vita ho combattuto gli israeliani, non mi sottometto al controllo di Hamas». Fatima con il lucidalabbra rosa sorride a testa bassa, non c'è barriera che le resista.

La cronaca di Alessandra Coppola dal CORRIERE della SERA :

GERUSALEMME — Una buona occasione per lavarsene le mani. Il sottosegretario alla Difesa israeliano Matan Vilnai la coglie: «Quando Gaza è aperta dall'altro lato non è più nostra responsabilità, e quindi vogliamo staccarcene ». Basta elettricità e acqua: «Che le ricevano da qualcun altro». Fatti egiziani, insomma: il confine è loro e se lo gestiscano loro. Nel secondo giorno della caduta del muro di Rafah, ieri, il fiume di palestinesi a caccia di cibo, medicine, carburante è diventata una marea. Almeno 700 mila persone, calcoli Onu, tra mercoledì e ieri avrebbero passato la linea che divide la città tra Gaza e l'Egitto, alla ricerca di quello che manca nella Striscia, sotto embargo dopo la conquista di Hamas a giugno e sigillata totalmente da Israele una settimana fa in reazione ai tiri di razzi Qassam.
Una mossa studiata da tempo da Hamas, quella di abbattere la barriera. Lo hanno anticipato alcuni giornali (l'inglese
The Times, l'israeliano
Haaretz). Lo conferma al Corriere
con maggiori dettagli da Gaza una fonte della brigate Ezzedine Al Qassam. Le cariche che alle tre di notte di mercoledì hanno aperto alcuni varchi nella parte metallica della recinzione, permettendo poi alla gente di passare e di buttare giù il resto, sarebbero state piazzate settimane fa. Secondo il miliziano, all' origine ci sarebbe stata una mossa militare: il braccio armato di Hamas si apriva la possibilità di contrastare un' eventuale invasione israeliana posizionandosi sul lato egiziano. Poi, dopo la chiusura dei valichi e l'emergenza umanitaria, il gruppo islamico avrebbe deciso di innescare l'esplosivo. Uomini delle Brigate e dei Comitati palestinesi di resistenza hanno eseguito.
Un testimone racconta che subito dopo le detonazioni, i primi prodotti in arrivo sono stati razzi, mitra, pistole. Armi. Proprio quello di cui ha paura Israele, che ieri ha blindato il confine con l'Egitto e ha invitato i propri cittadini a evitare il Sinai, nel timore di agguati o rapimenti.
Fino a quando il passaggio resterà aperto? Dall'Italia la Farnesina auspica per sempre, con i dovuti controlli. Il presidente egiziano Mubarak, schiacciato tra la piazza filo- Hamas e le relazioni diplomatiche che lo avvicinano all' Anp, a Israele, agli Usa, in tv dice «facciamo del nostro meglio per alleviare la sofferenza dei palestinesi», ma al tempo stesso manda centinaia di agenti delle forze di sicurezza a presidiare l'area. Finora non intervengono, ma, racconta un giornalista palestinese sul posto, «hanno cominciato a posizionarsi davanti ad alcuni varchi, impedendo alla gente di entrare».
Nonostante quello che dice il viceministro Vilnai, Israele preme perché il valico sia chiuso. Il responsabile della Difesa Ehud Barak addirittura non esclude una vasta operazione di terra a Gaza. L'Autorità palestinese è in difficoltà e teme che «la situazione sfugga a ogni controllo» (il premier Fayyad). Se ne discuterà domenica in un vertice Abu Mazen-Olmert.
Un alto funzionario dell'Anp, Ahmad Abbas, nipote del presidente, addirittura ipotizza una strana alleanza tra Hamas e Stato ebraico, nel senso che «gli israeliani controllano ogni millimetro di Rafah attraverso i satelliti — dice al Corriere — impossibile che non avessero visto i miliziani con l'esplosivo». Perché avrebbero lasciato fare? «Israele come Hamas non è interessata veramente alla pace, e preferisce mantenere una situazione di instabilità».

Ci si chiede come, secondo il funzionario dell'Anp, Israele sarebbe dovuta intervenire arafah per fermare l'abbattimento della barriera.

Sempre dal CORRIERE, un'intervista ad Amos Oz:

Il «peccato originale» fu di Ariel Sharon nell'estate del 2005, quando si ritirò unilateralmente da Gaza. Ma oggi le responsabilità sono soprattutto di Hamas, che non blocca i tiri di missili Qassam su Israele. E la soluzione sta in un grande «piano Marshall» per Gaza, finanziato da Israele, dall'Egitto e soprattutto dalla comunità internazionale. Ecco come lo scrittore israeliano Amos Oz analizza le origini dell'attuale caos nella «striscia della disperazione» ed esamina le possibili vie per risolverlo.
Tra le fila del governo e dell'esercito israeliani crescono le voci di chi vorrebbe sbarazzarsi per sempre di Gaza. Serrare i confini e, come diceva l'ex premier Sharon, «buttare le chiavi in mare». E' possibile?
«Non c'è dubbio che la maggioranza degli israeliani sogna una scappatoia di questo genere: lasciare Gaza nelle mani degli Egiziani, come fu tra il 1948 ed il 1967, tranne la breve parentesi dopo la guerra del 1956. Ma, a guardare meglio, è una soluzione di corte vedute. In realtà non tiene conto che comunque Gaza resta un problema regionale, grave e profondo. La soluzione non sta nel gettare via le chiavi e voltare la schiena. Non sta nel bendarsi gli occhi e sperare che se ne occupino gli egiziani. C'è bisogno di intese globali, radicali, complessive».
Quali le sue indicazioni concrete?
«Occorre partire dal presupposto che la malattia non va rimossa, bensì curata. E la cura deve partire dalla comunità internazionale. Un piano Marshall che miri a dare lavoro, mezzi di sostentamento, speranze e aiuto ai circa 700.000 profughi di Gaza. Nella regione vivono quasi un milione e mezzo di persone, i profughi sono più o meno la metà. E sono loro i più bisognosi: vanno assistiti se si vuole stabilità».
Ma la storia ci insegna che non bastano gli aiuti economici. Lo stesso piano Marshall originario si fondava su solidi presupposti politici.
«Sono d'accordo. Non si tratta solo di aiuti finanziari. Israele deve proporre ad Hamas il pieno riconoscimento del suo governo in cambio della cessazione delle violenze».
E come vede il futuro dei rapporti tra Olp in Cisgiordania e Hamas a Gaza?
«Non sta a me determinare il rapporto Hamas-Olp. Mi sembra però di poter affermare con una certa sicurezza che per un lungo periodo Gaza e Cisgiordania resteranno due entità separate e distinte. Israele deve imparare a coesistere con due embrioni di Stati molto diversi».
Nel 2005 lei scrisse sul Corriere che Sharon sbagliava a non negoziare con Abu Mazen il ritiro da Gaza. Lo pensa tutt'ora?
«Assolutamente sì. Lo scrissi allora e lo ripeto oggi. Sharon avrebbe dovuto trattare con Abu Mazen. Se lo avesse fatto, facilmente le elezioni palestinesi del gennaio 2006 sarebbero state vinte dall'Olp e non da Hamas. Indirettamente Sharon contribuì dunque, con le sue rigidità, a portare voti al campo del fondamentalismo islamico, che tanti danni ha poi creato a tutti noi. E il mio non è il facile senno del poi, in realtà tre anni fa lo sostenni più volte. Ma rimasi inascoltato».
Nota qualche sviluppo in chiave moderata tra i ranghi di Hamas?
«No, direi di no. Non noto elementi nuovi in Hamas. Ciò non toglie che io non veda alternativa al mutuo cessate il fuoco e a un serio programma di riabilitazione per Gaza ».
Egiziani e palestinesi accusano Israele di continuare a sviluppare le colonie nei territori occupati e così di boicottare la trattativa e le pur tenui speranze di pace lanciate al summit di Annapolis.
«E hanno ragione. Le colonie ebraiche vanno totalmente congelate, compreso quella di Har Choma a Gerusalemme est. Vanno anche rimossi i cosiddetti avamposti illegittimi in Cisgiordania. Israele poteva fare molto di più a favore della pace. In verità non ha fatto praticamente nulla».
E Hamas può bloccare i tiri di Qassam?
«Certo che può farlo. C'è una divisione dei compiti tra di loro. C'è chi governa e chi spara. Nessuno può tirare Qassam se Hamas si oppone».

Da L'UNITA',un'intervista a Matan Vilnai, vice ministro della Difesa israeliano:

Staccarsi da Gaza. Definitivamente. Consegnare la Striscia, con il suo milione e mezzo di abitanti, all'Egitto. Fare dell'emergenza la leva per una soluzione definitiva di un problema che la presa del potere da parte di Hamas ha reso esplosivo. «Dobbiamo comprendere che quando Gaza è aperta sull'altro lato (quello egiziano, ndr.) non è più nostra responsabilità e quindi vogliamo staccarcene». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative del governo israeliano, non solo per la carica che ricopre ma per i suoi trascorsi: si tratta di Matan Vilnai, vice ministro della Difesa, eroe di guerra, figura chiave nel partito laburista.
«Dopo il ritiro unilaterale del 2005 - spiega Vilnai a l'Unità - vogliamo continuare nel disimpegno da Gaza smettendo di fornire elettricità, acqua, e medicine in modo che le ricevano da qualcun altro: siamo responsabili finché non c'è un'alternativa». Ma ora, sottintende il vice ministro israeliano, questa alternativa prende corpo: è l'Egitto.
Centinaia di migliaia di palestinesi che oltrepassano il confine con l'Egitto: è una immagine che ha fatto il giro del mondo.
«Peccato che il giro del mondo non sia stato fatto dalle immagini dei bambini di Sderot costretti a crescere sotto il tiro dei razzi Qassam sparati dalla Striscia di Gaza. Questa sofferenza non conquista l'attenzione internazionale, ma è proprio da qui che si deve partire per capire cosa sta accadendo a Gaza».
Vale a dire?
«Gaza è divenuta la base di lancio di missili che quotidianamente colpiscono le nostre città di frontiera. Non solo: Gaza è divenuta un enorme arsenale di armi accumulate dai miliziani di Hamas e della Jihad islamica. In questa situazione non c'era alternativa alla stretta imposta a una entità nemica. Siamo stati costretti a farlo, a meno che non avessimo accettato di convivere passivamente con il dolore, l'angoscia, l'insicurezza della nostra gente di Sderot, di Ashqelon, del Negev».
La novità è nel flusso di palestinesi che in questi giorni, nel momento stesso in cui avviene il nostro colloquio, vanno e vengono dall'Egitto.
«Evidentemente esiste un'alternativa per Gaza. Dobbiamo comprendere che quando Gaza è aperta sull'altro lato non è più una nostra responsabilità e quindi vogliamo staccarcene».
In concreto, cosa dovrebbe comportare questa sua considerazione?
«Dobbiamo dare continuità e soluzione definitiva a quel disimpegno che abbiamo iniziata nell'estate del 2005, con il ritiro unilaterale da Gaza e lo smantellamento di undici insediamenti nella Striscia. Portare a conclusione questo disimpegno significa smettere di fornire elettricità, acqua e medicine in modo che li ricevano (il milione e mezzo di palestinesi che vivono nella Striscia, ndr.) da qualcun altro. Lo ribadisco con forza: siamo responsabili finché non c'è un'alternativa».
Questa alternativa sarebbe l'Egitto?
«Mi pare che stia nella realtà dei fatti. Ma questa assunzione di responsabilità da parte egiziana non può essere colpevolmente parziale».
Può essere più esplicito in questo che appare come un atto di accusa nei confronti delle autorità egiziane?
«Nonostante le nostre continue sollecitazioni, l'Egitto ha rifiutato qualsiasi impegno nel contrastare il continuo contrabbando di armi che avviene attraverso la frontiera di Rafah. Gaza non è solo una base di lancio dei razzi che colpiscono le nostre città frontaliere, ma è diventata anche un enorme arsenale di armi».
Resta comunque l'emergenza umanitaria a Gaza.
«Il mondo deve intendere che c'è un gruppo terrorista (Hamas, ndr.) che controlla un territorio tenendo in ostaggio una popolazione civile, ed usa quel territorio (Gaza) per attaccare un altro Stato e i suoi cittadini. Questo è intollerabile. Israele si sta facendo carico dei problemi umanitari a Gaza, ma una cosa deve essere ben chiara a tutti: Gaza non può pretendere quella calma che viene negata alla nostra gente bersagliata dai razzi».

Da EUROPA, un'intevista all'editorialista di Haaretz Arnon Regular:

«La situazione di Gaza è terribile, è vero, ma i politici israeliani hanno il dovere di pensare anzitutto ai propri cittadini, che non tollerano più i lanci di razzi effettuati da Hamas verso Israele». Arnon Regular, opinionista del quotidiano liberal israeliano Haaretz, non si nasconde dietro giri di parole. Riconosce le sofferenze che Israele impone ai palestinesi, la «durissima punizione collettiva» inflitta alla popolazione di Gaza. Ma ci aiuta a capire perché il governo israeliano sembra oggi sordo alle dure critiche che gli piovono da tutto il mondo, e sia oggi anzi pronto ad un’operazione militare in grande scala su Gaza (lo ha rivelato ieri il ministro della difesa Ehud Barak). «Hamas – conclude Regular – sta cercando di seminare zizzania tra Israele e l’Egitto ».
Qual è la sua reazione davanti alle immagini provenienti da Gaza?
Certo, le immagini dei palestinesi che valicano il confine egiziano sono scioccanti, sono terribili, ma spesso a chi le guarda sfugge un dato politico importante, derivante dalle manovre politiche che sono alla base della triangolazione Israele-Hamas-Egitto. Quello che sta succedendo, e che quelle immagini non dicono, è che Hamas sta cercando di mettersi tra Israele ed Egitto, sta cercando di mandare all’aria quasi trent’anni di tranquilla coesistenza tra questi due paesi. Se Hamas, che controlla la striscia di Gaza, rende impossibili i rapporti con il vicino settentrionale, è inevitabile che la frustrazione dei palestinesi di Gaza si sfoghi sul fronte meridionale, quello egiziano.
Intende dire che la rottura del muro della frontiera non è stata spontanea, ma che sarebbe stata organizzata da Hamas?
È chiaro che dopo un certo numero di ore la gente è defluita spontaneamente, ma alla fonte di tutto ciò c’è una manovra politica progettata da tempo. Prima ci sono stati i lanci di missili su Sderot, cui ha fatto seguito la risposta israeliana. Poi gli uomini di Hamas hanno forzato il valico di confine con l’Egitto. Era tutto così organizzato (ben organizzato, aggiungerei), che gli stessi media ne erano al corrente, come ha mostrato la presenza delle telecamere di Al Jazeera.
Il viceministro della difesa israeliana Matan Vilnai ha affermato che Israele dovrebbe disimpegnarsi completamente da Gaza, e smettere di fornire elettricità e acqua. È questa la posizione del governo?
Mi ascolti, il governo israeliano ha raggiunto un punto in cui, politicamente parlando, non può più tollerare il lancio di missili Qassam nel sud. La sua popolazione non lo tollera più, e il governo sente in questo senso la pressione dell’opposizione. Il dovere del gabinetto Olmert è rispondere ai propri cittadini, e la sua posizione è quella di disimpegnarsi da Gaza finché non cesseranno i lanci di razzi.
Ma questo atteggiamento impietoso di Israele non rischia di rafforzare Hamas e di indebolire il presidente Abbas? E così di allontanare la pace?
La priorità di Israele, della sua opinione pubblica e del suo governo, è quella dei razzi nel sud del paese. La politica quotidiana non può occuparsi di questione astratte e che non interessano più di tanto la gente, come “l’aiutare Abbas”. Le cose concrete di cui vuole occuparsi il governo sono i razzi lanciati sulla sua popolazione.
Queste sono le minacce concrete per una classe politica che è già sotto pressione per gli attesi risultati della commissione Winograd (commissione d’inchiesta che sta indagando sugli errori nella conduzione della guerra israeliano-libanese del luglio 2006, ndr).
Come giudica il comportamento dell’Egitto?
L’Egitto ha degli obblighi da rispettare. Ha firmato con Israele un accordo che ha visto anche la supervisione europea, e che lo obbliga al controllo della frontiera.
Si tratta di un accordo che finora ha funzionato, ma che viene rimesso in discussione dai fatti dell’altro giorno. Egitto e Israele avevano raggiunto un equilibrio, e ora c’è il rischio che una provocazione di Hamas, ingigantita dai media, possa creare frizioni tra i due paesi. E sarebbe un colpo gravissimo per la stabilità dell’intera regione mediorientale.
Resta il fatto che la vita a Gaza è ormai impossibile. Non crede che Israele stia punendo un’intera popolazione per i lanci di razzi effettuati da pochi terroristi?
I razzi non vengono lanciati da un gruppuscolo qualsiasi, ma da gruppi militari di Hamas. Lo so, la situazione a Gaza è gravissima. E lo so, quella israeliana è una punizione collettiva molto dura. Ma l’opinione pubblica israeliana è stanca, e chiede ai suoi politici una risposta netta

Dal GIORNALE, l'editoriale di R. A Segre:

Israele non ha mai avuto una politica estera. Contrariamente a quella militare, ha sempre solo reagito a pressioni esterne. Quelle arabe spesso si sono dimostrate positive per lo Stato ebraico. È il caso dello sfondamento da parte di Hamas della barriera di frontiera con l'Egitto e «l'invasione» di migliaia di palestinese nel Sinai. Con questa «invasione» è stato sfatato il mito di un assedio mai esistito con cui Israele teneva prigionieri, affamandoli, milione e mezzo di palestinesi. Questi, infatti, hanno sempre potuto andare in Egitto mentre erano le autorità del Cairo a centellinare i permessi di entrata.
L'abbattimento del muro di frontiera ha persino portato la polizia egiziana a sparare contro le donne che veniva comperare cibo bombole di gas, ferendone sessanta. L'Egitto - per quanto non soggetto come Israele al bombardamento di missili palestinesi - non ha mai inviato a Gaza aiuti "umanitari". Mubarak ha dovuto cedere non per aiutare i "fratelli" palestinesi ma perché, reagendo con la forza alla "invasione" del suo territorio provocata da Hamas (emanazione fondamentalista armata del movimento dei Fratelli Musulmani egiziani), avrebbe provocato uno scoppio di rivolta in Egitto.
Israele teme che la frontiera ora aperta con l'Egitto permetta l'arrivo a Gaza di nuove armi. È possibile, ma non sarebbe che la continuazione del contrabbando di armi attraverso tunnel scavati sotto il muro di frontiera che gli egiziani non hanno mai impedito ma spesso aiutato. L'incremento di questo traffico porterebbe a reazioni militari israeliane e danneggerebbe la posizione dell'Egitto, soprattutto nei confronti di Washington che sostiene la sua economia con due miliardi di dollari all'anno.
La crisi economica di Gaza ha un risvolto economico e di sicurezza per l'Egitto. In un momento in cui il governo del Cairo ha difficoltà nel fronteggiare l'aumento del prezzo della farina e del pane sul suo territorio, non gli sarà facile rifornire i negozi lungo la frontiera di Gaza svuotati dai palestinesi. Deve inoltre pensare a come proteggere le centinaia di ville spesso vuote dei ricchi vacanzieri egiziani che nella splendida foresta della vicina El Arish hanno costruito le loro residenze.
Hamas ha compreso la necessità di controllare l'esodo dei palestinesi nel Sinai: un esodo che la stessa organizzazione integralista ha provocato per evitare che gli abitanti di Gaza si rivoltassero contro di essa. Ha proposto un controllo di frontiera comune con l'Egitto e l'odiato governo di Al Fatah in Cisgiordania. Da Ramallah è subito arrivato un netto rifiuto. Quello che Hamas teme è il confronto fra la miseria di Gaza - che non essendo occupata lancia razzi contro Israele - e il miglioramento delle condizioni di vita in Cisgiordania dove l'economia rifiorisce. A darle una spinta c'è la migliorata sicurezza e il progetto del presidente israeliano Shimon Peres, con il coinvolgimento del Canada e della Turchia, per la creazione di 100mila posti di lavoro per i palestinesi. «Valgono più di 50mila fucili», ha detto Peres annunciando la raccolta di 100 milioni di dollari per la rapida realizzazione del progetto.

Da La REPUBBLICA:

DAVOS - Il dramma di Gaza. Tra Israele e i Palestinesi «è ancora tempo di negoziare e costruire la pace», dichiara il presidente israeliano Shimon Peres. «La guerra non è un´opzione» e noi non intendiamo «punire» la popolazione che vive da quelle parti. Ma il premier dell´Anp, Salam Fayyad, lancia l´allarme: «La situazione è assolutamente tragica e potrebbe sfuggire a ogni controllo». Bisogna riaprire subito «tutti i valichi».
Dialogano, i due leader, mentre lungo la striscia di Gaza migliaia di palestinesi entrano in Egitto attraverso la grande breccia aperta nella barriera di Rafah. Si guardano, durante un seminario a porte chiuse organizzato dal Forum di Davos e moderato da Tony Blair, l´inviato di pace del cosiddetto «quartetto», cioè Usa, Ue, Russia e Onu. Le tv a circuito chiuso li riprendono seduti dietro a tavolone. Con loro anche il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, e la vice premier e ministro degli esteri Tzipi Livni, che insistono sui problemi di sicurezza legati a questo esodo. La signora, in particolare, esorta i leader del mondo arabo a continuare a «sostenere i palestinesi moderati», affinché il dialogo possa continuare. «I palestinesi devono affrontare gli estremisti tra loro», osserva. «Ogni processo di pace comporta un compromesso».
Ai microfoni, Livni si difende anche dalla critiche della comunità internazionale per la linea dura adottata contro Hamas lungo la striscia di Gaza. Dice: «C´è un grande divario» tra la politica israeliana e il modo in cui essa viene vista all´esterno. «La pace è il nostro obiettivo, il nostro sogno, la nostra aspirazione», assicura. Poi spiega che il suo paese si è «assunto dei rischi», smantellando gli insediamenti. «Ma il giorno dopo abbiamo avuto Hamas in cambio, un´organizzazione terroristica».
(e. p.)

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