Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Quelli che rilanciano la propaganda di Hamas rassegna di quotidiani
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - Europa - L'Unità - Il Manifesto Autore: Alessandra Coppola - Alberto Stabile - Roberto Barducci - Umberto de Giovannangeli - Michele Giorgio Titolo: «Emergenza a Gaza, la Striscia del fallimento - Nel deserto di Gaza, città assediata - Effetti collaterali del blocco: Hamas è più forte che mai - Gaza, la collera dei palestinesi senza luce né cibo - «Fateci uscire». Le palestinesi assaltano la frontiera»
A pagina 16 del CORRIERE della SERA Alessandra Coppola descrive la crisi economica e sociale di Gaza, senza metterla in relazione con la continua aggressione contro Israele a partire dalla Striscia.
Sderot scompare dall'informazione del CORRIERE, anche nella scelta delle fotografie, che riguardano tutte Gaza.
Ecco il testo:
GAZA — Cioccolata e sigarette a Gaza sono beni di lusso. «Questa, per esempio — Hazem estrae una barretta di KitKat dalle scorte nascoste sotto al bancone dell'emporio — ora costa 6 shekels, prima la vendevo a 2,5». Da 45 centesimi a poco più di un euro. Quanto al fumo, meglio smettere: un pacchetto di Marlboro rosse in poche settimane è passato dai 12 ai 25 shekels, 4 euro e mezzo. Merce egiziana, che né ora né in futuro supererà l'embargo israeliano perché non è considerata di prima necessità, filtra clandestina dai tunnel sotterranei al confine. E costa cara. Da quando, giovedì, il governo dello Stato ebraico ha bloccato i valichi con la Striscia, fermando l'afflusso di carburante e alimenti, tutti i prezzi a Gaza sono impazziti. Il valore delle mele è triplicato, le cipolle costano il doppio. Hazem Hassouna, il proprietario dello spaccio alimentare, calcola che domani avrà esaurito la farina, e anche di latte gliene resta al massimo per due giorni. Al panificio di Rami Shehada c'è la fila. Lunedì la produzione si era fermata per mancanza di gas e in molti erano rimasti senza pane. «Ho dovuto chiamare la polizia per allontanare la folla. Ma il problema ora è la farina. Mi basta solo per oggi ». Già molti forni hanno chiuso. Il ministro della Difesa Ehud Barak ha permesso ieri l'arrivo di combustibile e gas da cucina (oltre che di medicine) e la centrale elettrica della Striscia, che alimenta Gaza City, ha potuto riprendere a funzionare. Da oggi l'embargo torna totale. Finché, dice lo Stato ebraico, non cesseranno del tutto i tiri di razzi Qassam. Il Consiglio di sicurezza Onu ha affrontato il rischio emergenza umanitaria in una sessione straordinaria, su iniziativa dei Paesi arabi. Gli Usa sostengono il diritto di Israele all' «autodifesa» e con il segretario di Stato Condoleezza Rice rilanciano l'idea di un coinvolgimento dell'Anp di Abu Mazen nella gestione dei valichi (mentre Gaza è controllata da Hamas). Nella sede dell'associazione palestinese per i diritti umani Al Dameer — ancora niente luce e un ascensore rotto — il direttore Khalil Abu Shammala fa i conti con il gasolio arrivato: «Due milioni di litri che devono bastare per una settimana. Significa che dovremo usarne 300 mila al giorno invece dei 450 mila che ci servono...». Sul perché Israele abbia deciso ieri di allentare il blocco, Khalil racconta di aver avuto una discussione al telefono con il portavoce di Hamas, Fawzy Barhoum. «Lui sosteneva che il merito è stato delle proteste dei palestinesi e dei "fratelli" arabi». Cortei in Libano, Yemen, Sudan, Giordania; una manifestazione di donne al valico di Rafah dispersa con idranti e spari dalla polizia egiziana. «Io gli ho detto che si sbaglia — continua Khalil —, che se Israele ha allentato per un giorno il blocco è merito dei media, che hanno mostrato quello che sta succedendo ». Un'emergenza, con le acque nere che si riversano in strada per il sistema fognario in tilt, la luce razionata, le scorte alimentari in esaurimento, gli ospedali in difficoltà con i pazienti più gravi. Ma anche la sensazione che la crisi sia innescata da tempo. Che sia più profonda, strutturale. Negli ultimi anni, con la seconda intifada dal 2000, e poi soprattutto con la chiusura di Gaza dal ritiro israeliano nel 2005 e con l'embargo imposto dopo la conquista di Hamas lo scorso giugno, 35 mila tra piccole, medie e grandi imprese della Striscia sono fallite, lasciando senza lavoro almeno 60 mila persone. Il tasso di disoccupazione è ormai oltre il 50%, con 8 nuclei familiari su 10 considerati dall'Onu sotto la soglia di povertà (meno di 420 euro al mese). Una delle poche imprese in funzione è la fabbrica di biscotti Awda. Fino a ieri. «Anche se arriva il gas per i forni — spiega la direttrice Manal Hassan —, non abbiamo più materie prime né cartoni per le confezioni, esauriti i prodotti chimici che si aggiungono all'impasto e non sono assolutamente autorizzati a passare. Impossibile lavorare così». La sospensione della produzione, dice, è ormai frequente e in un mese gli operai prendono sì e no dieci giorni di stipendio. La fabbrica di mobili in vimini dei fratelli Awad Allah, invece, ha chiuso da anni. «I nostri non sono prodotti necessari — racconta Jamal —, la gente in difficoltà ne ha fatto presto a meno». Fondata dal padre negli anni Cinquanta, l'impresa ha avuto anni d'oro con 42 dipendenti ed esportazioni dallo Stato ebraico all'Egitto. «Speravamo in una ripresa dopo il ritiro». Così non è stato, e del negozio dei fratelli Awad Allah resta una moquette gialla e polverosa con le chiazze scolorite accanto ai muri che indicano che qui, una volta, era pieno di mobili.
Le didascalie e le foto scelte dal CORRIERE:
«Questa barretta di cioccolato ora costa 6 shekels, prima la vendevo a 2,5. Domani avrò esaurito la farina e di latte me ne resta per due giorni» (Hazem Hassouna, proprietario di uno spaccio alimentare)
Ieri sono rimasto chiuso per mancanza di gas, oggi ho dovuto chiamare la polizia per allontanare la folla. Ma il problema ora è la farina. Mi basta solo per oggi (Rami Shehada, panettiere) Prigione a cielo aperto Bambini di Gaza fanno rifornimento d'acqua: le condizioni igienico-sanitarie nella Striscia si sono severamente deteriorate. Al valico di Rafah con l'Egitto ci sono stati scontri con i militari egiziani
Bambini palestinesi intorno a una tavola illuminata dalle candele sulla prima pagina della REPUBBLICA. L'articolo di Stabile inizia con la descrizione della "fetida palude" che insidia "le case di Zeitun, lo stesso quartiere in cui la scorsa settimana sono stati uccisi 14 miliziani di Hamas in una sola notte": le difficoltà della popolazione civile e la morte dei terroristi sono assimilate per creare l'immagine di un "martirio" imposto dagli israeliani. Stabile interpella Mohammed Shariff, direttore della Centrale elttrica di Gaza. lui dichiara di essere indipendente sia da Fatah che da Hamas, e Stabile non discute. Nonostante l'"indipendenza" dal potere dei gruppi armati sia a Gaza evidentemente impossibile. Conclude poi l'articolo qualificando come "guerra dei nervi", al pari del lancio dei kassam, gli inviti israeliani alla popolazione civile ad allontanarsi dai bersagli militari. Il fatto che Hamas inviti invece a restare in casa per proteggere quegli stessi bersagli militari non lo induce a nessuna riflessione sulla strategia criminale di questo gruppo che si fa scudo dei civili palestinesi. E' anzi palesemente scettico sul fatto che gli obiettivi esistano davvero.
Ecco il testo:
Le acque nere delle fogne sono tracimate sulle strade della città assediata. Bambini e adulti devono farsi strada a piccoli passi in un mare di escrementi. È bastato un giorno di black-out perché si formasse una fetida palude ad insidiare le case di Zeitun, lo stesso quartiere in cui la scorsa settimana sono stati uccisi 14 miliziani di Hamas in una sola notte. Per risospingere indietro la colata, il direttore dell´acquedotto costiero, l´ingegnere Monther Shoblak, ha dovuto fare il gioco delle tre carte spostando il poco carburante rimasto da una pompa all´altra, delle 37 ancora funzionanti su un totale di 132, riuscendo così ad evitare l´inondazione e la probabile epidemia. Ma non ha potuto impedire che trentamila tonnellate di liquami non trattati venissero scaricati direttamente a mare. Situazioni come questa per i prossimi giorni dovrebbero essere scongiurate. Ai cancelli della Centrale elettrica di Nusseirat, costruita nel 2000 con la partecipazione della bancarottiera Enron e la benedizione della Casa Bianca, vediamo arrivare di buon mattino la prima autobotte di carburante con le insegne dell´Unione europea, che paga anche questa bolletta. La centrale venne bombardata nel giugno del 2006, dopo il sequestro del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas, e i suoi sei trasformatori vennero distrutti. E tuttavia resta un bell´impianto, un´isola di decoro e di efficienza, anche se, stando lì ai cancelli, ho l´impressione che l´autobotte che fa la spola con il terminale di Karni, per portare il combustibile sia sempre la stessa. La buona notizie per gli abitanti di Gaza è, infatti, che il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha autorizzato l´invio di 700 tonnellate di carburante sufficiente a far funzionare le due turbine della centrale per un paio di giorni. Domani e dopo ne dovrebbe arrivare dell´altro per un totale di duemila tonnellate e mezzo, in pratica, il fabbisogno di una settimana. Ma il manager dell´impianto, Mohammed Shariff, formatosi all´ombra di grandi compagnie petrolifere in Libia e nel Golfo, ostenta uno scetticismo che lui definisce «frutto dell´esperienza»: «Ci crederò soltanto quando lo vedrò con i miei occhi». Shariff, un sessantenne dalla barba ben coltivata, avvolto in un cappotto doppiopetto, una rarità da queste parti, sembra un uomo tranquillo. Interpreta il suo lavoro come «una missione» e parla della corrente elettrica come di un diritto naturale, «come l´acqua che beviamo e l´aria che respiriamo». Ripete che la centrale è una zona sottratta all´influenza della politica, in parole povere: né con Hamas né con Fatah. Una compagnia privata, e basta. Ma cosa risponde a commentatori israeliani che l´hanno accusato d´aver esagerato gli effetti dell´embargo, decidendo arbitrariamente di spegnere la centrale? «Dico che non avevamo più neanche una goccia di carburante, a meno di non gettare nelle turbine residui pericolosissimi e mandare tutto all´aria. Il rappresentante dell´Unione Europea è venuto a verificare di persona. Lo stesso ha fatto il rappresentante delle Nazioni Unite. Qui tutti sono benvenuti, anche gli israeliani, se volessero farci l´onore. A parte il fatto che ci sono i media e anche i satelliti». Una scialba, inanimata tregua scenderà, dunque, sul popolo degli assediati. La luce tornerà nelle case. I panifici torneranno a lavorare. I responsabili dell´Ospedale Shifa non saranno costretti a scegliere se continuare le dialisi o far funzionare le incubatrici. E questo sarà tenuto nel debito conto al Palazzo di Vetro, dove il Consiglio di sicurezza dell´Onu, su iniziativa dei paesi arabi, dovrà pronunciarsi. Ma le concessioni israeliane non riguardano né il gasolio, né la benzina. E bastava percorrere le strade di Gaza, ieri, per vedere una città ridotta alla paralisi. Le macchine saranno pure inquinanti, fastidiose e troppo dominanti sulle nostre vite. Ma cos´è una città di cinquecentomila abitanti senza ombra di traffico per le strade? Le stazioni di servizio chiuse, i meccanici seduti a gambe incrociate fuori dalle officine? La città e la Striscia, poi, sono ormai diventate quasi un unico agglomerato, una sola entità spaziale chiusa in cui si muovono come animali in gabbia un milione e quattrocentomila persone senza alcuna possibilità di uscire. Da giorni migliaia di donne premono alla frontiera di Rafah, con l´Egitto. Alcune accompagnano malati bisognosi di cure. Niente, la frontiera resta chiusa. Tensione. Incidenti con i poliziotti egiziani. Risultato: una cinquantina di feriti soprattutto a causa del calpestio. Per gli abitanti della Striscia, Gaza era un tempo non solo la capitale, ma anche la risorsa estrema dove c´è, o dovrebbe esserci, tutto quello che è essenziale per sopravvivere. Dal suk all´ospedale, dal mercato degli asini (il venerdì) a quello delle auto usate (il martedì). Oggi è soltanto il luogo della questua e del mercato nero con la farina che in pochi giorni è passata da 140 shekels a sacco (50 chili) a 170 shekels, da 40 a 45 dollari. Come in una scena da film del dopoguerra, lungo il vialone di Jabalia, nella luce livida della mattinata piovosa, ecco una macchina che avanza schiacciata da nove sacchi di farina ammonticchiati sul tettuccio. Mustafà Mugat l´uomo alla guida viene da uno degli uffici dell´Unrwa che sfamano gratuitamente oltre 800 mila persone. «Questo - dice indicando il castello di sacchi - è quanto basta a cinque famiglie per una ventina di giorni. Facciamo il fuoco con la legna per riscaldarci e per cucinare. Le donne fanno il pane per noi e per i vicini che hanno bisogno». Cinquant´anni, disoccupato, «nessuno lavora più a Gaza», dice Mustafà che fino allo scoppio della seconda Intifada, nel 2000, lavorava in Israele con piccoli subappalti. Una lontana, irripetibile età dell´oro: «Riuscivo a guadagnare cento dollari al giorno, avevo due automobili, mentre ora sono costretto a elemosinare un sacco di farina». A ricordare che tutto questo fa parte di una guerra in corso, qualche centinaio di metri più in là, un altoparlante nascosto chissà dove, ma probabilmente, quello di un minareto, manda ordini secchi alla popolazione. «I civili sono invitati a lasciare le strade e ad andare a casa. Gli aerei israeliani stanno per bombardare». Naturalmente non succede ma, mi spiega un amico che questo è un capitolo della guerra dei nervi, oltre a quella con i Qassam (ieri ne sono sparati oltre venti sul Negev) che Hamas combatte contro Israele. L´esercito israeliano spesso, prima di colpire, invita gli abitanti di un certo caseggiato ad uscire per evitare che facciano da scudi umani a certi «terroristi». La security di Hamas, al contrario, invita la gente a entrare in casa per proteggere chissà quale obiettivo.
Se si chiede a un professore dell'Università Al Azhar di Gaza cosa pensa la popolazione di Hamas che cosa risponderà ? Difficile pensare che possa essere rimasto al suo posto essendo un critico dell'organizzazione fondamentalista. Probabile dunque, che in qualche modo ne tessa le lodi. Così fa il professor Abu Saida intervistato da EUROPA del 23 gennaio 2008. «Israele sta ottenendo l’effetto contrario a quello che si era prefisso », afferma Abu Sada. «Si aspettava, a seguito del blocco imposto, di vedere delle dimostrazioni di protesta contro Hamas, ha invece visto un corteo di donne che sfilavano con dignità con una candela in mano per le strade buie di Gaza». Un giornalista inutilmente preciso nel riferire i fatti potrebbe ricordare che il corteo ha raggiunto Gaza su pullman forniti dalla stessa Hamas, dunque un certo tasso di partecipazione militante è più che probabile. Ma per fortuna del lettore annoiato Barducci mira più ad emozionarlo che a informarlo e descrive così l'avvenimento: "Ieri, alcune ersone, in preda alla disperazione, hanno cercato di varcare il valico di Rafah, alla frontiera con l’Egitto."
Lunedì Israele ha allentato il blocco a Gaza. Alcuni camion, con rifornimenti di carburante, sono entrati nella Striscia. Ma i quattro giorni di blocco totale, imposti dallo Stato ebraico come rappresaglia per gli incessanti lanci di razzi sulla cittadina israeliana di Sderot, hanno lasciato il segno. A Gaza, da giorni, i palestinesi non hanno luce, gas, cibo. Il pane nei negozi è terminato. Ieri, alcune ersone, in preda alla disperazione, hanno cercato di varcare il valico di Rafah, alla frontiera con l’Egitto. Gli agenti egiziani hanno sparato in aria per disperdere la folla. Si sono registrati degli scontri: quattro palestinesi e due poliziotti egiziani sono rimasti feriti. La popolazione della Striscia si sente sotto assedio, adesso più che mai. A Ramallah, ma anche nella capitale giordana Amman, i profughi palestinesi hanno organizzato manifestazioni “silenziose”, accendendo centinaia di candele per solidarizzare con i loro connazionali a Gaza. Lo stato d’animo dei palestinesi nella Striscia è confuso. Da quando Hamas, nel giugno scorso, ha preso il controllo totale di Gaza, Israele ha intensificato la stretta: i raid e i blocchi hanno intensificato la crisi economica, provocando un’emergenza umanitaria, come denunciato anche dalle Nazioni Unite. I black-out sono ormai un fatto quotidiano, il sistema sanitario è in tilt. Ma l’emergenza Gaza ha avuto ripercussioni anche sull’assetto politico palestinese. In Cisgiordania accusano apertamente Hamas. Questa spaccatura, secondo il quotidiano palestinese Al Hayat Al Madida, ha indebolito la causa palestinese e sdoganato lo spettro di una guerra civile. È anche vero, però, che gli attacchi aerei israeliani dei giorni scorsi, in cui è morto il figlio sedicenne di Mahmoud Zahar, leader di Hamas nella Striscia, sembrano avere dato al movimento islamico un’ulteriore legittimazione. Cosa che dà a Hamas il potere di rifiutare i negoziati: e con Fatah e con Israele. È per questo motivo che lo scambio di prigionieri – militanti palestinesi in cambio di Gilad Shalit, soldato israeliano tenuto in ostaggio dal 2006 da Hamas – viene continuamente rimandato. Zahar è il più convinto sostenitore di questa linea di “fermezza”, anche perché, al momento, non ci sono segnali che dicano che Hamas stia perdendo potere. Eppure, tra i ranghi dell’organizzazione si levano voci che chiedono di adottare politiche più flessibili. Ghazi Hamad, membro del movimento, dice che Hamas dovrebbe meglio bilanciare le sue attività politiche con le operazioni di lotta armata. «Credo che Hamas dovrebbe concentrarsi di più sulle questioni di governo che su quelle di resistenza», ha detto Ghazi, sottolienando che «su questo tema sarebbe necessario aprire un dibattito». Khimar Abu Sada, professore di Scienze politiche all’Università Al- Azhar di Gaza, dice a Europa che è anche l’opinione pubblica a mettere sotto pressione Hamas, «affinché cambi le proprie politiche ». Dall’altro lato, tuttavia, la popolazione è unanime nel condannare i raid israeliani, che la scorsa settimana hanno provocato 35 morti. «Israele sta ottenendo l’effetto contrario a quello che si era prefisso », afferma Abu Sada. «Si aspettava, a seguito del blocco imposto, di vedere delle dimostrazioni di protesta contro Hamas, ha invece visto un corteo di donne che sfilavano con dignità con una candela in mano per le strade buie di Gaza», continua il professore. La rappresaglia israeliana ha peraltro provocato reazioni di critica in tutte le cancellerie mondiali e il quotidiano israeliano Jerusalem Post si è chiesto se lo stato ebraico non abbia regalato una vittoria mediatica a Hamas. Il movimento islamico, attraverso il suo portavoce Sami Abu Zuhri, ha intanto lanciato un appello affinché Fatah interrompa i negoziati di pace con Israele, proponendo al contempo la riapertura di trattative che possano portare a una riconciliazione fra le due fazioni palestinesi. Difficile prevedere l’esito di queste ipotesi. Una cosa però è certa: i negoziati di Annapolis, promossi dal presidente americano George W. Bush, non hanno tenuto in considerazione la realtà, quella vera, sul campo.
Gli autobus di Hamas compaiono nella cronaca di Umberto De Giovannageli sull'UNITA'. La sua cronaca descrive Gaza sull'orlo di una crisi umanitaria, non accenna all'intensificazione del lancio di razzi kassam dopo la ripresa delle forniture israeliane di carburante, nè al fatto che Israele ha sempre dichiarato di non voler interrompere le forniture essenziali. La titolazione descrive una situazione al momento inesistente ("palestinesi senza luce né cibo", "le condizioni umanitarie nella Striscia sono ancora disperate") e in questo contesto segnala la mancata condanna di Israele da parte dell'Onu .
Ecco il testo:
UNA FOLLA DISPERATA preme sui cancelli di Rafah. Al quinto giorno di chiusura quasi ermetica dei valichi, la collera della popolazione di Gaza esplode al punto di transito con l’Egitto, a Rafah. Nel primo pomeriggio centinaia di dimostranti giunti a bordo di autobus messi a disposizione da Hamas affrontano le guardie egiziane di frontiera e dopo momenti di grande violenza sono anche riuscita passare brevemente la frontiera. Tante le donne, tanti i giovani rimasti feriti durante l’intifada e bisognosi di cure mediche all’estero. La tensione è altissima. Molti gridano slogan contro l’Egitto e i Paesi arabi, accusati di complicità nell’isolamento della Striscia. A un certo punto, la situazione degenera. Un nutrito gruppo di manifestanti riesce a forzare il valico e fanno irruzione nel versante egiziano del confine. Si odono nitidamente colpi di arma da fuoco. In totale una sessantina di persone sono rimaste ferite, contuse o intossicate dai gas lacrimogeni. Tra i feriti, anche 10 poliziotti egiziani, nove dei quali sono stati colpiti da pietre mentre uno di loro presenta una ferita di arma da fuoco. Hamas, da parte sua, ha avvertito che manifestazioni analoghe sono destinate a proseguire ad oltranza, fino alla fine dell'«assedio» alla Striscia. A Gaza, dove vivono quasi un milione e mezzo di palestinesi, la crisi è iniziata giovedì con la chiusura totale di tutti i valichi imposta da Israele mentre dalla Striscia partivano nutriti attacchi di razzi verso il Negev. Ieri, in seguito a forti pressioni internazionali, Israele ha allentato la chiusura introducendo nella Striscia quantità di gasolio destinate alla centrale elettrica locale (che in serata ha ripreso a funzionare, producendo 55 megawatt) e agli ospedali. A Gaza è entrato anche gas da cucina, mentre le stazioni di benzina non hanno ricevuto rifornimenti. Israele ha anche autorizzato l'ingresso di medicinali e di generi di prima necessità. Al calar delle tenebre, la città di Gaza ha così ripreso gradualmente una certa attività. I primi ristoranti hanno accolto i clienti, i panettieri erano aperti, diverse strade del centro apparivano illuminate. Ma nella Striscia non ci sono scorte di combustibile e il futuro resta quindi molto aleatorio. Il direttore dell’autorità per l’energia di Gaza, Kanan Obeid, spiega che Israele ha promesso di consegnare 2,2 milioni di litri di carburante in tre giorni, sufficienti per far funzionare la centrale elettrica di Gaza per una settimana. «L'interruzione dell'elettricità, i limiti alla circolazione delle persone e delle merci, farmaci inclusi, sconvolgono i servizi sanitari di base ed impediscono l'accesso alle cure specialistiche fuori da Gaza», afferma il Direttore generale dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità) Margaret Chansi. I black out di elettricità, aggiunge, non consentono l'adeguata refrigerazione che è indispensabile per alcuni farmaci e per i vaccini. «Israele deve rispettare i propri obblighi internazionali e consentire l'arrivo di aiuti umanitari affinchè la popolazione possa vivere una vita normale», le fa eco la portavoce del Cicr (Croce rossa internazionale), Dotothea Krimitsas. La revoca totale dell'isolamento di Gaza è stata invocata ieri a Ramallah dal presidente dell'Anp Mahmud Abbas (Abu Mazen) in un incontro con il ministro olandese degli Esteri Maxime Verhagen. Abu Mazen ha assicurato che le sue forze, se necessario, sono in grado di assumere il controllo dei valichi di Gaza. Dopo aver ribadito che i negoziati con Israele proseguono Abu Mazen, riferendosi a Hamas, ha polemizzato con «quanti non vogliono che il nostro popolo viva una vita normale» e ha denunciato i continui lanci di razzi da Gaza verso il Negev israeliano. Anche ieri miliziani palestinesi hanno attaccato a ripetizione con razzi e mortai le città e i villaggi israeliani vicini alla Striscia e in almeno una occasione hanno aperto il fuoco sugli agricoltori di un kibbutz. Non ci sono state vittime. Ma questi episodi hanno accresciuto la esasperazione della opinione pubblica israeliana che chiede al governo di Ehud Olmert di mantenere un atteggiamento di fermezza e di respingere le pressioni internazionali in senso inverso. Un messaggio di fermezza che da Gerusalemme ha raggiunto New York, dove nel tardo pomeriggio si è riunito in seduta straordinaria, su richiesta dei Paesi arabi, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il «no» degli Usa blocca una risoluzione di condanna (d’Israele), ma la segretaria di Stato americana Condoleezza Rice poco prima aveva detto ha detto oggi di aver parlato con i dirigenti israeliani e di averli esortati a evitare una crisi umanitaria nella Striscia «Nessuno vuole - sottolinea Rice - che innocenti di Gaza soffrano e così abbiamo parlato con gli israeliani circa l'importanza di non permettere che si sviluppi là una crisi umanitaria».
Nel coro della condanna a Israele non poteva mancare Michele Giorgio del MANIFESTO. Per lui, siccome i razzi kassam sono "artigianali", Israele lanciarli contro Israele non è un'aggressione.
Gaza rimane sull'orlo del baratro nonostante il «regalo» del governo israeliano che ieri ha rifornito la Striscia dei primi 700mila di due milioni di litri di gasolio destinati alla centrale elettrica (basteranno solo per 5-6 giorni) che serve il capoluogo Gaza city. La popolazione è esasperata ma anche decisa a fare quanto è in suo potere per rompere un assedio israeliano che gode di appoggi indiretti, come quello egiziano. Il Cairo si è piegato alla chiusura totale imposta da Israele del valico di Rafah, che pure dal novembre 2005 è sotto il pieno controllo palestinese. Il fatto che al potere a Gaza oggi ci sia Hamas e non più l'Anp di Abu Mazen - la motivazione dietro la quale si nascondono gli egiziani - è marginale di fronte alle sofferenze di una popolazione che ha perduto la sua unica porta sul mondo e con essa la possibilità di andare in Egitto e altrove a curarsi, a studiare e a lavorare. Non sorprendono perciò gli scontri violenti scoppiati ieri al terminal di Rafah, dove alcune migliaia di palestinesi, in gran parte donne, hanno protestato contro il blocco. I feriti gravi sono stati almeno cinque: quattro palestinesi e una guardia di frontiera, colpiti da proiettili esplosi dai militari egiziani e da militanti di Hamas. Qualcuno si è affrettato a parlare di «manifestazione pilotata da Hamas». Vero, ma non ha importanza perché i palestinesi che si sono radunati ieri a Rafah esprimevano una esigenza sentita da tutti gli abitanti di Gaza: essere liberi come dovrebbero esserlo tutti i popoli. Centinaia di donne si sono ammassate per chiedere la riapertura del valico e minacciato di forzare il blocco. Le guardie di frontiera egiziane hanno prima reagito con i cannoni ad acqua e dopo hanno sparato raffiche di mitra in aria per disperdere la donne sostenute da un altro migliaio di manifestanti. Ad un certo punto una decina di persone sono riuscite a passare il confine e a entrare in territorio egiziano ma sono state fermate e riportare indietro. Il successivo intervento della polizia di Hamas ha messo fine alla manifestazione. Quello che è accaduto ieri in ogni caso è il segnale di una rabbia che non si riesce più a contenere. Nelle stesse ore peraltro migliaia di persone manifestavano in Libano, in Sudan e nello Yemen contro il blocco imposto ai danni di Gaza che anche il «moderato» re Abdallah di Giordania ha definito «inaccettabile». Nel campo profughi di Rachidiyeh, nel sud del Libano, migliaia di dimostranti hanno scandito slogan contro Israele, Stati Uniti, la Lega Araba e «gli amanti della libertà» che non hanno preso posizione. Ad Erez, al confine nord di Gaza con Israele, invece centinaia di dimostranti palestinesi con cittadinanza israeliana, guidati dai deputati Ahmed Tibi (Hadash) e Wasil Taha (Tajammo), hanno sfidato con slogan e canti i dimostranti dell'estrema destra israeliana radunati a poca distanza e capeggiati dal parlamentare dell'Unione Nazionale, Effi Eitam. A Ramallah al contrario si sono picchiati tra palestinesi. Decine di militanti di Hamas e Fatah si sono presi a pugni durante un raduno del movimento islamico. «A Gaza, vivere è diventato assolutamente insopportabile, non bisogna permettere che questa situazione continui», ha protestato il premier del governo dell'Anp Salam Fayyad incontrando ieri a Londra il ministro degli esteri britannico David Miliband. Ma non saranno le sue frasi a convincere il governo britannico e neppure quelli degli altri paesi con diritto di veto, membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, convocato ieri pomeriggio per discutere il blocco israeliano di Gaza. La possibilità che il CdS possa fare sua la posizione dei paesi promotori di una risoluzione di condanna di Israele sono remote perché gli Stati Uniti ieri sera apparivano pronti ad intervenire per bloccare la risoluzione con il veto. Il presidente israeliano Shimon Peres da parte sua ha commentato che l'Onu dovrebbe punire Hamas e non Israele, a causa del continuo lancio da Gaza di razzi (artigianali) Qassam verso il territorio dello Stato ebraico (ieri ne sono caduti un'altra decina vicino Sderot). Washington intanto si prepara a dare pieno sostegno all'idea di Salam Fayyad che siano i servizi di sicurezza dell'Anp a riprendere il controllo del valico di Rafah, allo scopo di «facilitare la vita della popolazione palestinese». La soluzione tende evidentemente ad escludere Hamas da qualsiasi gestione del confine e quindi rischia di alimentare il conflitto tra l'Anp e il movimento islamico.