MANAMA (Bahrein) — Da Camp Arifjan, la grande base americana nel Kuwait, di fronte a 9 mila uomini, George Bush, in visita nel Golfo Persico e in Medio Oriente, ha inviato ieri un messaggio di speranza a Bagdad e uno di minaccia a Teheran. «L'Iraq risorge — ha dichiarato ai soldati dopo un incontro con il suo proconsole in terra irachena, il generale David Petraeus — e la vittoria degli Stati Uniti passerà alla storia. Ma la nostra presenza militare si protrarrà » ha aggiunto segnalando che non ci saranno altre riduzioni di truppe. Bush, che il giorno prima in tv aveva definito «molto possibile» che l'America resti in Iraq altri 10 anni, ha posto come condizione al successo finale la «cessazione dell'interferenza dell'Iran»: «L'Iran deve smettere di appoggiare le milizie che ci attaccano, sequestrano e uccidono gli iracheni». E ha criticato altresì la Siria: «Deve ridurre di più il flusso dei terroristi in Iraq». Il presidente, il vincitore di Saddam Hussein, ha usato la tappa nel Kuwait liberato nel '91 da suo padre per presentare una nuova dottrina della sicurezza. La stabilità della regione, ha sostenuto, dipenderà non solo dalla pace tra israeliani e palestinesi, «di cui sono responsabili anche gli Stati arabi», ma dal trionfo della democrazia in Iraq e dal contenimento dell'Iran. E gli Stati Uniti se ne renderanno garanti mediando in Israele e in Palestina, «formando un rapporto duraturo con Bagdad» e impedendo a Teheran di fomentare la violenza. Bush, che si è poi trasferito nel Bahrein, sede della Quinta flotta americana, illustrerà la dottrina nei dettagli in un discorso oggi negli Emirati Arabi. Che cosa il rinnovato impegno sui due fronti comporti a breve scadenza, George W. lo ha detto chiaramente. In Iraq, «così diverso da un anno fa», bisognerà compiere nel 2008 «progressi maggiori che nel 2007». L'invio di altri 30 mila soldati americani, la nascita di gruppi iracheni in appoggio, leggi come quella sul recupero dei baathisti hanno obbligato Al Qaeda alla ritirata, e il calo delle truppe da 160 mila a 130 mila entro luglio proseguirà «nei termini previsti». Ma, ha fatto capire, se Petraeus non vorrà scendere al di sotto di quel livello, o vorrà nuovamente accrescerlo, «lo autorizzerò». Un'ipoteca sulla politica irachena del successore: Bush pare certo che, chiunque sarà, non cambierà strada. E l'Iran? A Camp Arifjan Bush ha alzato la posta in gioco. «Ci sono agenti iraniani in Iraq in nostre mani e stiamo scoprendo come Teheran fornisca aiuti letali agli estremisti». Gli ha fatto eco Petraeus: «Le forniture iraniane al nemico sono diminuite, ma negli ultimi giorni gli attacchi con gli esplosivi sono aumentati». L'ammiraglio William Fallon del Comando centrale è andato oltre, rivelando che a dicembre ci fu un altro confronto, prima di quello dello stretto di Hormuz tra navi dell'Iran e la Quinta flotta americana: «L'Iran rischia di scatenare un conflitto non voluto». Non è l'unico contrasto che sta emergendo dal viaggio, che si concluderà in Arabia Saudita ed Egitto. Nel Kuwait il presidente ha trovato forte opposizione a Guantánamo, dove sono ancora rinchiusi 4 kuwaitiani. L'emiro ne ha chiesto la consegna, definendo il campo d'internamento «un insulto ai principi della giustizia americana» e affermando che altri 8 detenuti restituitigli in precedenza «si sono pienamente riabilitati». E un gruppo di donne con cui Bush ha tenuto una tavola rotonda sul voto femminile e la democrazia ha fatto appello alla sua «umanità»: «Mettete fine all'agonia delle madri dei detenuti e aiutatele. Abbiate comprensione ». Il presidente, ha riferito la Casa Bianca, ha risposto che prenderà la richiesta «in seria considerazione».
La seconda, di Alberto Flores D'Arcais, da REPUBBLICA, a pag.13, dal titolo:
Bush: "Siria e Iran aiutano i terroristi" |
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Il presidente Usa: in Iraq è tornata la speranza. Un ritiro? Dipende dai militari |
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Dalla primavera potrebbero tornare a casa 20mila soldati americani |
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ALBERTO FLORES D´ARCAIS |
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dal nostro inviato MANAMA - «In Iraq sta tornando la speranza, Al Qaeda ha subito pesanti colpi». Da Camp Arifjan, la grande base militare americana nel deserto del Kuwait, George W. Bush rivendica i successi del "surge" (aumento delle truppe), l´ultima strategia della Casa Bianca per risollevare le sorti della guerra a Bagdad e annuncia che entro l´estate gli Usa potrebbero ridurre di circa ventimila soldati la loro presenza nell´antica Mesopotamia, ma solo a condizione che i generali sul campo diano il loro ok. Una scelta anche simbolica, quella del Kuwait. Per difendere questo piccolo paese del Golfo, dove diciassette anni fa Saddam Hussein scatenò la Guardia Repubblicana in una delle invasioni meno comprensibili della storia moderna, George Bush senior riuscì a mettere in piedi la più grande coalizione militare della storia; un´alleanza di paesi occidentali e islamici (Arabia Saudita, Egitto, ma anche Siria) che per il rais iracheno segnò l´inizio di una fine che sarebbe arrivata solo dodici anni più tardi e per mano del figlio del suo vecchio nemico. In questi cinque anni di disastrosa guerra in Iraq, all´attuale presidente americano è stato spesso rimproverato di non avere avuto la lungimiranza del padre; così ieri dopo parole di autocritica («fino allo scorso anno la nostra strategia semplicemente non funzionava») ha voluto lanciare - dopo l´incontro con il generale Petraeus e davanti alle truppe Usa della base - un messaggio di ottimismo: «L´Iraq adesso è un posto diverso rispetto a un anno fa. Resta da fare un lavoro duro, ma i livelli di violenza si sono ridotti in modo significativo; la speranza sta ritornando a Bagdad e la speranza sta ritornando nelle città e nei villaggi di tutto l´Iraq». Ha parlato di Al Qaeda, che resta «pericolosa e continuerà ad attaccare gli innocenti con la violenza»; ma all´organizzazione terroristica «abbiamo inferto colpi pesanti e adesso si trova davanti a una rivolta crescente da parte degli iracheni che vogliono vivere in pace»; questi progressi «permetteranno a una parte delle forze americane di tornare a casa». Contro il terrorismo non bisogna però abbassare la guardia, «per non perdere i successi conquistati sul campo nell´ultimo anno». Un plauso e una critica per il governo iracheno: «non si può passare all´istante dalla tirannia alla democrazia e il governo di Bagdad ha fatto indubbiamente progressi; ma non siamo interamente soddisfatti perché è necessario che si faccia ancora di più». Secondo il piano previsto nel settembre scorso la Casa Bianca potrebbe annunciare entro luglio la riduzione delle brigate Usa in Iraq da 20 a 15, con il ritiro di circa 20mila soldati americani. Ma resta un´incognita, ha chiarito Bush: «Qualsiasi ulteriore riduzione sarà basata sulle raccomandazioni del generale Petraeus e quelle raccomandazioni saranno fondate interamente sulle condizioni del terreno in Iraq». E il comandante della forza multinazionale a Bagdad non sembra essere così convinto che questo parziale ritiro sia fattibile. La tappa in Kuwait è servita a Bush anche per lanciare nuovi attacchi ai due paesi che sono oggi i veri nemici degli Usa, Iran e Siria e che devono smettere di «fomentare le violenze settarie nel paese». Al governo di Damasco il presidente americano ha chiesto di «ridurre ulteriormente l´afflusso di terroristi», soprattutto i kamikaze che entrano in Iraq attraverso il confine siriano; per gli ayatollah di Teheran un monito che è insieme una minaccia: «devono smettere di appoggiare le milizie irachene nei loro attacchi contro le truppe Usa e le forze governative locali». Nell´incontro che ha avuto con l´emiro del Kuwait Amir al Sabah si è parlato anche di Guantanamo. L´emiro ha chiesto al presidente americano che vengano liberati quattro kuwaitiani che sono rinchiusi da anni nella prigione Usa a Cuba. La questione dei prigionieri di Guantanamo è forse il principale motivo di attrito tra gli Stati Uniti e il suo alleato nel Golfo. Otto cittadini del Kuwait, detenuti per lungo tempo a Guantanamo, sono stati in passato riconsegnati all´emirato; e criticando la giustizia Usa Sabah ha ricordato a Bush come siano risultati poi «innocenti» e come oggi «lavorino duramente per insegnare ai giovani a combattere le ideologie estremiste».
Sempre da REPUBBLICA, l'intervista di marco Contini a Daniel Fried, Sottosegretario di Stato Usa per l'Europa.
Daniel Fried, sottosegretario di Stato Usa responsabile per l´Europa |
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"Così il regime di Teheran minaccia la pace in Israele" |
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Teheran continua a ignorare i buoni consigli di Mosca, perciò sono necessarie le nostre pressioni |
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MARCO CONTINI |
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Ovunque Daniel Fried rivolga lo sguardo, all´orizzonte scorge i russi. Del resto, è il suo mestiere a metterlo in quella posizione: sottosegretario di Stato americano, responsabile per l´Europa, per le mani ha alcune delle partite più scottanti del momento: Kosovo, scudo missilistico e, seppure in maniera più indiretta, l´Iran. Signor Fried, la sensazione è che Putin voglia assecondare le aspirazioni nucleari dell´Iran. Gli Stati Uniti come giudicano questo tentativo? «La proposta russa di arricchire l´uranio in casa propria per poi cederlo alle centrali atomiche iraniane è molto creativa, e di grandissimo interesse. Il problema è che il regime iraniano continua a respingere i buoni consigli che gli arrivano da Mosca: ha declinato l´offerta, continua col proprio programma di arricchimento dell´uranio e prosegue la produzione di missili balistici. Per questo riteniamo sia assolutamente necessario continuare a fare pressioni economiche e diplomatiche, ma non militari, per contrastarli». Crede che il tentativo della Casa Bianca di spingere israeliani e palestinesi a un accordo rischi di risentirne? «Precisamente. Teheran sta cercando di far saltare per aria tutti i nostri sforzi. Il suo ruolo nell´area è assolutamente nefasto». Polonia e Repubblica ceca sembrano frenare sul vostro progetto di scudo antimissile. E´ così? «Il nuovo governo polacco con noi è stato molto franco. Ha detto "guardate, noi siamo disponibili, ma non possiamo ignorare il fatto che la Russia ci ha minacciati apertamente". E una preoccupazione seria, di cui dobbiamo tener conto. Proprio per questo abbiamo cercato un approccio più multilaterale, proponendo ai russi di coinvolgerli nel progetto di scudo». Il punto più dolente dei rapporti con Mosca sembra essere il Kosovo. «In questa vicenda c´è una tragica ironia. Bocciando il piano di Ahtisaari, Mosca ha sconfessato l´enorme contributo che gli stessi tecnici russi hanno dato alla stesura del piano». I timori per le sorti della minoranza serba sono forse infondati? «Non lo sono, ma è proprio su questo che stiamo lavorando. La comunità internazionale si è impegnata a restare lì proprio per evitare violenze e soprusi. E su questo anche il nuovo premier kosovaro, Thaci, si sta muovendo bene. Nel suo discorso di insediamento si è rivolto ai serbi in serbo, indicandoli come cittadini a pieno titolo del futuro Kosovo indipendente».
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