Sfiorato lo scontro tra Stati Uniti e Iran nello stretto di Hormuz.
Guido Olimpio spiega così la dinamica dell'incidente nella sua cronaca pubblicata dal CORRIERE della SERA dell'8 gennaio 2007:
Tutto è iniziato con la simulazione di un attacco «a sciame». Cinque vedette iraniane hanno manovrato in modo «aggressivo» puntando sue tre navi militari americane nelle acque internazionali nello Stretto di Hormuz. Poi, uno dei barchini si è avvicinato a circa 200 metri e contemporaneamente è partito un messaggio radio: «Stiamo arrivando. Salterete in aria in un paio di minuti». Quindi una seconda imbarcazione ha gettato in mare dei contenitori bianchi. Sulle unità statunitensi hanno puntato i cannoncini ed erano pronti a far fuoco. Per fortuna, le vedette dei pasdaran hanno cambiato rotta allontanandosi rapidamente.
Segnaliamo anche l'intervista di Alessandra Farkas ad Haleh Esfandiari, l'intellettuale iraniana- americana incarcerata nella prigione di Evin, a nord di Tehran, dall'8 maggio al 21 agosto 2007:
NEW YORK — «Non ho ancora letto la versione dei fatti resa dalle agenzie di stampa iraniane, ma sarei sorpresa se l'incidente fosse stato autorizzato dal governo di Teheran». Haleh Esfandiari, l'intellettuale iraniana- americana incarcerata nella prigione di Evin, a nord di Tehran, dall'8 maggio al 21 agosto 2007 (dopo quattro mesi agli arresti domiciliari) esclude che dietro l'ultimo incidente Usa-Iran vi sia l'ombra di Mahmoud Ahmadinejad.
«Credo piuttosto che alcuni elementi della Guardia Rivoluzionaria possano aver deciso di agire per conto proprio — racconta —. Con l'acquiescenza di un pugno di funzionari governativi di medio livello».
Nonostante sia considerata una dei nemici più pericolosi del regime (per scarcerarla c'è voluta una campagna internazionale sottoscritta da Hillary Clinton, Barack Obama, Condoleezza Rice, Noam Chomsky e Shirin Ebadi) la Esfandiari non riesce a prendere sul serio neppure le persistenti minacce di Ahmadinejad contro Gerusalemme.
«La politica estera iraniana negli ultimi 27 anni è stata piuttosto contenuta. Teheran è coinvolta in Libano, Iraq e Afghanistan e per motivi ideologici sponsorizza Hezbollah e Hamas. Però non ha il fegato o i mezzi per attaccare un altro Paese. Per questo fa la voce grossa».
E il rischio che siano gli Usa ad attaccare l'Iran?
«Inesistente. Washington ha già troppi problemi in Iraq e Afghanistan per voler aprire un terzo fronte. E gli europei, soprattutto Italia, Austria e Francia, hanno troppi interessi commerciali in Iran e non permetterebbero mai agli americani di attaccare il loro partner economico ».
Ha mai scoperto perché è finita in carcere?
«Ahmadinejad è convinto che, non potendo attaccare l'Iran, gli Usa stiano cercando di destabilizzare il regime sponsorizzando intellettuali e dissidenti iraniani in patria e all'estero. Una sorta di rivoluzione di velluto».
Come quella della Cecoslovacchia nel 1989?
«Sì. Teheran è convinta che l'Open Society Institute di George Soros stia tramando insieme ad altre fondazioni e think tank per rovesciare il regime. Ed è per questo che ha lanciato una durissima campagna intimidatoria contro gli intellettuali, molti dei quali sono finiti dentro».
È riuscito a spaventarvi?
«Temo di si. Io però sono decisa a continuare il mio lavoro che consiste nel creare un ponte tra l'Iran e il resto del mondo attraverso il Middle East Program del prestigioso Woodrow Wilson International Center, da me diretto. Se Teheran non permetterà ai suoi intellettuali di partecipare ai nostri seminari, inviteremo esperti iraniani da Europa, Medio Oriente e Stati Uniti. Mi creda: c'è solo l'imbarazzo della scelta».
Perché i media iraniani l'hanno accusata di avere un'«agenda ebraica»?
«Forse perché mio marito Shaul Bakhash è ebreo. Dopo il mio arresto, i giornali persiani scrissero addirittura che mi ero convertita all'ebraismo. È stato Shaul a sfatare la bugia scrivendo una lunga lettera finita su Internet ».
L'Iran è una nazione antisemita?
«Il governo è molto sospettoso nei confronti degli ebrei, che in Iran restano una minoranza ragguardevole. Non ha relazioni diplomatiche con Israele e sospetta una cospirazione sionista globale per rovesciarlo».
Corrette anche le cronache di Francesco Semprini sulla STAMPA e di Gian Micalessini sul GIORNALE
Per Michelangelo Cocco del MANIFESTO sono naturalmente gli Stati Uniti ad avere la parte dei "provocatori" nell'incidente:
«Vi stiamo raggiungendo, tra un paio di minuti salterete in aria». Il messaggio, lanciato via radio da un gruppo di motoscafi iraniani nello Stretto di Hormuz, ha provocato la reazione delle navi da guerra statunitensi, che hanno puntato i loro cannoni contro le imbarcazioni nemiche e si sono fermate, un attimo prima di fare fuoco, solo perché gli iraniani, a 200 metri dagli americani, hanno invertito la rotta. «Si tratta finora della più seria provocazione di questo tipo» hanno commentato ieri all'Associated press fonti del Dipartimento della difesa Usa dietro garanzia dell'anonimato. La versione statunitense dell'incidente parla di un quasi scontro tra cinque battelli della guardia rivoluzionaria di Tehran e tre navi da guerra della marina statunitense che all'alba di domenica erano in navigazione, in acque internazionali, nello Stretto di Hormuz, il tratto di mare che separa l'Iran dalla Penisola arabica. L'Amministrazione Bush ieri ha voluto dare la massima risonanza all'incidente. Il presidente ha parlato di «provocazione». «Invitiamo gli iraniani a fermare queste azioni provocatorie che in futuro potrebbero causare un incidente pericoloso» ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca Gordon Johndroe. Il tutto alla vigilia del viaggio di Bush, che domani inizierà un tour del Medio Oriente che avrà in agenda anche il dossier sul nucleare iraniano. La teocrazia sciita, che ha confermato l'episodio, al contrario ha gettato acqua sul fuoco. «Ciò che è successo è simile ad altri casi precedenti, ordinaria amministrazione» ha dichiarato all'agenzia di stato Irna il portavoce del ministero degli esteri, Mohammad Ali Hosseini. Nel marzo dell'anno scorso, 15 tra marinai e marines britannici erano stati arrestati (e in seguito liberati) nello Stretto, accusati di essere sconfinati in acque territoriali iraniane. Qualche giorno fa la massima guida spirituale e politica dell'Iran, il vecchio e malato ayatollah Ali Khamenei, aveva fatto sapere di non escludere in futuro una riconciliazione col «Grande Satana», quegli Stati Uniti diventati nemici giurati di Tehran dopo che la rivoluzione khomeinista, nel 1979, abbatté lo shah, principale alleato di Washington nell'area. Alcuni analisti militari ritengono che l'incidente di domenica possa essere frutto di un atteggiamento più aggressivo da parte dell'Iran, conseguenza dell'ammassamento negli ultimi mesi di portaerei americane nel Golfo Persico. E appartenevano proprio a una di queste navi, la «SS Harry S. Truman», i due caccia precipitati ieri nel Golfo. I piloti, paracadutatisi, si sono salvati, mentre sull'episodio - ancora tutto da chiarire - stanno indagando i militari. Fermo restando lo scontro sul programma nucleare iraniano - che Tehran giura essere a fini civili e l'occidente (Washington e Tel Aviv in testa) teme serva a fabbricare una bomba atomica «sciita» - l'incidente denunciato dall'Amministrazione Bush s'inserisce in un contesto che, dalla cattura dei 15 britannici, è mutato profondamente. Il mese scorso l'ultimo aggiornamento del «National intelligence estimate» (Nie), un documento frutto delle valutazioni di intelligence raccolte dalle 16 agenzie di spionaggio statunitensi - ha reso noto che l'Iran, alla fine del 2003, avrebbe sospeso la realizzazione di armamenti nucleari. Un alt ai progetti di attacco all'Iran rispetto al quale nemmeno Israele pare sia in grado di rilanciare. Ieri lo Yedioth Ahronoth ha rivelato l'esito di un incontro tra i massimi vertici dell'establishment politico-militare svoltosi nell'ufficio del primo ministro, Ehud Olmert, domenica pomeriggio a Gerusalemme. Secondo il quotidiano israeliano, l'appuntamento era stato convocato «per esaminare se Israele aveva prove diverse da quelle degli americani» sul dossier nucleare iraniano. «Durante la discussione - prosegue lo Yedioth - è stato chiarito che oltre il 90% delle informazioni d'intelligence in possesso degli israeliani sono identiche a quelle presentate (dal Nie) al presidente americano». E le poche notizie supplementari in mano a Tel Aviv non sarebbero in grado di confermare la ripresa di un'attività nucleare segreta da parte di Tehran. Anche la ricerca in Iraq della «pistola fumante» contro Tehran non ha dato frutti migliori. Ora il confronto sembra essersi spostato nel Golfo Persico.
Luigi Bonanate sull'UNITA' sostiene che gli stati canaglia che minacciano la stabilità internazionale e le democrazie che tentano di difenderla dovrebbero essere invitati a compiere un analogo "passo indietro". Per lui la negazione del diritto all'esistenza di Israele e il negazionismo di Stato di Teheran sono equivalenti al pattugliamento anglo-americano per garantire la libertà di navigazione in acque internazionali.
Ecco l'articolo:
Il confronto nelle acque del golfo di Hormuz è tanto pericoloso (e potevamo aspettarcelo, prima o poi) quanto, per fortuna e per ora, inconsistente. Ma dov’è avvenuto, e tra chi? Le acque che attraversano lo stretto di Hormuz bagnano, da una parte, l’Iran e, dall’altra, gli Emirati Arabi Uniti. Il diritto internazionale ha sempre codificato i princìpi delle acque territoriali a partire dalla gittata dei cannoni, ma superato questo criterio oggi si è attestato sul principio generale delle 12 miglia marine dalla costa.
Ma le conformazioni geografiche non sono sempre lineari e semplici, cosicché violazioni, controversie e polemiche sull’avvenuta o meno, volontaria oppure no, violazione delle acque territoriali di un paese da parte di un altro, per motivi commerciali oppure militari, si sono sempre avute.
Ma il punto-chiave è che dove le acque territoriali finiscono iniziano quelle internazionali, utilizzabili cioè da tutti da dovunque giungano. Proprio questo incrocio, tra gli interessi di uno stato costiero e quelli di uno stato proveniente da chi sa dove, è quello che ha sempre creato i maggiori problemi e, più che altro, si è rivelato sintomatico di più ampie crisi.
L’esempio più clamoroso è rappresentato da quello che nell’agosto 1964 venne chiamato «l’incidente del golfo del Tonkino», quando due petroliere statunitensi invasero (o no?) le acque del Nord Viet Nam. Ne conseguì, in breve, che da quel momento in poi, il conflitto conobbe quell’escalation che portò alla fase più cruenta della guerra e a quella che si può ricordare come la guerra in cui lo stato più potente del mondo fu sconfitto dallo stato più debole del mondo! Per fortuna, sabato scorso (a quanto solo ora viene rivelato) non si è sparato un colpo di fucile, non è successo altro che una specie di ridicolo balletto tra alcune imbarcazioni da spiaggia e tre navi della Marina militare statunitense: minacce, sberleffi, ingiunzioni, e poi per fortuna l’allontanamento delle parti. Ciascuno dirà di avere ragione: l’Iran perché le tre navi avrebbero sconfinato; gli Stati Uniti perché le navi sarebbero rigorosamente e doverosamente restate al di qua dei limiti.
Ancora oggi non si sa bene come sia andata nel golfo del Tonkino: non vorremmo aspettare un altro mezzo secolo per sapere chi aveva ragione nello stretto di Hormuz. Valga comunque la regola generale che nelle situazioni geograficamente e strategicamente più sensibili del mondo (e al netto appunto dei confini giuridici delle acque) il mare è un bene comune dell’umanità e le restrizioni al suo utilizzo devono essere ridotte al minimo.
Ma tale analisi rischia di diventare accademismo retorico perché in realtà ciò che sobbolle sotto tutto ciò è la tensione crescente tra Iran e Stati Uniti, cioè tra un cosiddetto stato-criminale e un altro che è noto come il gendarme del mondo. Una bella coppia, non c’è che dire, a ciascuno dei componenti della quale dovremmo chiedere ormai con una certa perentorietà di fare un passo indietro. Infatti, così come è inaccettabile che ci siano dei capi di Stato come Ahmadinejad che negano l’Olocausto e il diritto a esistere di Israele, analogamente non è per nulla chiaro con quale diritto gli Stati Uniti facciano solcare da navi da guerra gli oceani di tutto il pianeta con sguardo truce e sospettoso.
Tutti sappiamo quanto intricata e delicata sia nel complesso la situazione mediorientale e quanto invadente appaia alla maggior parte dei paesi dell’area la presenza americana. Facessimo l’elenco delle tensioni bilaterali in cui gli Stati Uniti sono coinvolti con paesi mediorientali, vedremmo che purtroppo essi hanno inanellato una serie impressionante di errori, fraintendimenti, e incidenti. Essere lo stato più potente del mondo non può far dimenticare agli Stati Uniti che essi sono anche (o soprattutto) un paese democratico e tale dovrebbe essere anche la loro politica estera in base alla quale non possono imporre la loro concezione a chiunque senza neppure che ne abbiano discusso insieme.
Spinger navi nello stretto di Hormuz, cioè mostrare i muscoli, è facilissimo per chi li ha tanto grossi e forti, ma sappiamo tutti benissimo che proprio a chi ha più forza tocca l’impegno di imparare a limitarsi e a usarla soltanto in caso estremo. La crisi con l’Iran, storicamente determinata almeno a partire dal 1979 e dai tempi di Khomeini (per non andare troppo indietro), è stata fatta montare da entrambi i lati, come sempre succede, anche se con motivazioni diverse.
L’attuale regime iraniano non è tra i più amabili e apprezzabili del mondo, ma a noi rimane il rimpianto (o la colpa) di non aver aiutato i predecessori dell’attuale Presidente a continuare il cammino verso la democrazia che era stato intrapreso con alcuni significativi passi.
Non vorremmo mai che quelle che precedono fossero però considerazioni consolatorie per chi, seduto su un vulcano, incomincia appena a sentire dei sobbalzi: l’Iran di oggi e gli Stati Uniti di oggi hanno pochissimo di amabile e accattivante per la società mondiale presa nel complesso: il contenzioso artificioso che tra essi sta incancrenendosi non può essere contemplato taciturnamente da tutti noi. Che l’Iran sia più esplicito nel dimostrare che la sua politica nucleare è pacifica e gli Stati Uniti dimostrino di sapersi comportare benevolmente anche con chi non la pensa (e ha il diritto democratico di farlo) come piacerebbe loro.
Certo, a guardar sulla carta geografica la conformazione dello stretto che è attraversato da migliaia di petroliere non può che prenderci l’ansia: e se il prezzo del barile di petrolio crescerà ancora? E quanto il petrolio ancora custodito nel sottosuolo statunitense aumenterà di valore? Scenari che sarebbe meglio non dover neppure immaginare se non fosse che ignorarli sarebbe da irresponsabili.
Guido Rampoldi sulla REPUBBLICA equipara il regime iraniano all'amministrazione Bush, ipotizza che di quest'ultima possa essere la regia dell'indcidente nel Golfo e loda la destra americana, populista e antisraeliana, di Pat Buchanan.
Ecco il testo completo:
Gesticolazioni elettorali, forse. A marzo l´Iran voterà il nuovo parlamento e l´ala più ideologica del potere khomeinista, oggi candidata alla sconfitta, ha tutto l´interesse a rianimare il suo anemico elettorato con i sali del militarismo e del nazionalismo: cosa di meglio, dunque, di una rumorosa schermaglia con la flotta degli Stati Uniti?
Così non sarebbe sorprendente se fossero stati la Guida suprema Khamenei e il suo sodale, il presidente Ahmadinejad, a ordinare alla Marina iraniana di infastidire le navi del Grande satana che pattugliano lo stretto di Hormuz. Tanto più perché venerdì sbarca a Teheran l´inviato dell´Agenzia per l´energia atomica, El Baradei, ansioso di raggiungere un accordo definitivo con l´ala pragamatica del regime. Se fossero all´improvviso privati non solo del Nemico ma anche della Bomba, il misero Ahmadinejad e quel che rimane della sua fazione, i cosiddetti "neoconservatori", dovrebbero affrontare un elettorato che non sarà politicamente avveduto ma sa far di conto, e proprio non riesce a capire perché la somma di immense risorse di idrocarburi e prezzo del petrolio alle stelle sia un´economia asfittica e una disoccupazione in crescita.
Beninteso, un sospetto analogo potrebbe essere puntato contro una presidenza altrettanto fallimentare, quella statunitense. Come sostiene da tempo anche la parte intellettualmente onesta della destra americana (Pat Buchanan), se da qui alle presidenziali di novembre la situazione restasse immutata l´amministrazione Bush uscirebbe di scena con un bilancio da bancarotta: l´Iraq che non smette di sanguinare e rimane ostile ai suoi liberatori, l´Iran molto più influente di quanto non fosse otto anni prima, il consenso degli Stati Uniti nel mondo precipitato al minimo storico. Dunque una guerricciola aerea con l´Iran, per la durata di alcune settimane, potrebbe forse illudere l´elettorato americano e facilitare il commiato del presidente meno rimpianto che la storia recente degli Stati Uniti ricordi. Ma ammesso che questo finale pirotecnico sia nei calcoli di Bush e di Cheney, come per la verità non solo a Teheran si sospetta, una parte dell´amministrazione americana vi si è opposta con efficacia. Il Dipartimento di Stato, l´ottimo ministero della Difesa Gates, pezzi dell´establishment militare e dei servizi segreti statunitensi (da cui Gates proviene): lo schieramento degli scettici è troppo vasto e deciso perché il partito della guerra possa realizzare il suo piano (presunto) alla luce del sole. Però un crescendo di "incidenti" potrebbe indebolire le resistenze interne all´amministrazione e restituire a Bush il ruolo che predilige, il war-president, il presidente "di guerra". Allo stato questa non ci pare una spiegazione convincente, ma certo sarebbe sciocco dimenticare che la storia del Novecento pullula di "incidenti" costruiti ad arte, dall´invasione della Polonia al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel conflitto vietnamita.
Non meno numerosi probabilmente furono i conflitti (per esempio la Prima guerra mondiale) scoppiati senza una precisa volontà, per imperizia delle parti, per la forza inerziale delle costruzioni retoriche su cui ciascun governo fondava la propria legittimazione, e perché, declinando un vecchio ordine, nessuno sapeva più come riparare ad un errore fatale. Tanto più consola constatare che l´incidente di ieri non ha avuto un seguito. Ma non ci fideremmo troppo. La natura caotica del regime iraniano, con un vertice confuso e una dozzina di centri di potere talvolta in conflitto, si rispecchia nella natura caotica degli apparati militari. Se ne è avuto prova anche di recente, quando due comandi regionali dei Pasdaran hanno condotto ciascuno una propria politica nel limitrofo Iraq. In altre parole, è improbabile, ma non si può escludere, che ieri un comandante iraniano ci abbia messo del suo e si sia fatto trascinare dalla propria esuberanza ideologica. C´è da sperare che non sia così, sarebbe deprimente scoprire che la pace può dipendere dall´umore di un capitano di fregata. L´unica cosa su cui tutti potrebbero convenire è che la possibilità di una guerra, e perfino di una grande guerra dal Mediterraneo all´Afghanistan, non è ancora uscita dal nostro orizzonte. Faremmo bene a ricordarlo, non foss´altro per misurare con quell´eventualità la serietà delle italiche batracomachie.
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