Sull'assassinio di Benazir Bhutto, riprendiamo oggi, 29/12/2007, i commenti di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE, di Magdi Allam e Bernard- Henri Levy sul CORRIERE della SERA.
Fiamma Nirenstein: " L'ambiguo Musharraf a un vicolo cieco ":
Al Qaida, i talebani, hanno fatto il grande colpo. Hanno dimostrato una capacità di colpire gigantesca uccidendo la pakistana col velo trasparente, il rossetto rosso rubino e l’amore per la democrazia, la speranza democratica di una zona sempre in pieno terremoto jihadistico. Non solo le hanno sparato, ma hanno anche messo in scena il rito cannibalico del terrorismo suicida. Però questo attacco proprio nella sua «geometrica potenza» è quello che costringerà il mondo democratico o quello che ambisce alla democrazia a cambiare la sua strategia. Stavolta non si scherza: la scena dell’attacco non è un paese africano, non è Israele né l’Arabia Saudita: il Pakistan è il Paese delle cento bombe atomiche messe da parte sin da quando nel 1998, dopo una serie di test sotterranei fu dichiarato membro del club nucleare: le bombe potrebbero finire nelle mani dei terroristi. L’assassinio della Bhutto, una sostenitrice della legalità democratica, nemica dell’Islam estremo («chi usa il terrorismo - diceva - non è musulmano»), coraggiosa, forte, prima donna musulmana premier, è una conferma di quanto gli estremisti siano capaci di determinare il futuro del Pakistan e del mondo: abbiamo visto nei mesi scorsi la conquista della Moschea Rossa ad Islamabad; recentemente uno scontro frontale ha messo in campo gli uomini del Mullah Fazullah, legato ai talebani, contro 3.000 soldati pakistani. Nel Waziristan, nella cintura tribale del Pakistan sono ormai episodi consueti gli scontri fra truppe regolari e talebani. La forza acquistata dagli estremisti, fra i quali Al Qaida prospera, è legata a una politica americana che ha cercato di essere più morbida possibile: dopo l’attacco dell’11 settembre gli americani dettero a Musharraf, dittatore militare, la scelta fra andarsene o aiutarli a sconfiggere Al Qaida e i talebani. Musharraf accettando la seconda ipotesi aiutato gli americani in Afghanistan, ha però consentito a Al Qaida e ai talebani di fuggire e rafforzarsi in Pakistan. Musharraf ha anche impedito agli americani di interrogare A. Q. Khan, il mago delle bombe che pare avere grande parte in tutti business atomici dei rogue states e delle organizzazioni terroriste. Musharraf non ha impedito né il diffondersi della presenza talebana né il consolidarsi presso il pubblico dell’idea che Bin Laden sia il leader migliore (il 46 per cento la pensa così, mentre il 37 preferisce Musharraf) e che non si debbano compiere operazioni militari contro Al Qaida o i talebani.
Oggi, a causa di una politica ambigua, il Pakistan è un santuario del terrorismo, e proliferano i movimenti sovversivi che Musharraf non ha affrontato. Così è stata assassinata Benazir, a causa dell’ambiguità di una strategia che non si è mai decisa a combattere il terrore. Musharraf, pur prendendo un miliardo e mezzo di dollari l’anno dagli Usa, ha consentito al suo esercito (di cui solo da poco ha abbandonato il grado di Comandante) di avere per motto: «Fede pietà e jihad sulla strada di Allah». Né gli americani gliel’hanno impedito: e hanno sempre lasciato perdere la richiesta più importante, quella di dejihadizzare il Paese. Dopo la crisi di ottobre, l’abbandono da parte di Musharraf dei gradi militari, l’arrivo di Benazir Bhutto, ecco la crisi frontale più grossa: ora si deve sperare che la confusione si plachi, ma non è detto, e che la parte migliore dell’esercito tenga saldamente in mano le chiavi della bomba atomica, e anche questo non è detto. Il rischio è che possano avvenire vendite, magari ai sauditi preoccupati dall’Iran, o ai terroristi che cercano poco materiale fissile per le cosiddette «bombe sporche». Insomma, la crisi nucleare del prossimo anno, se gli Usa invece di sognare una democrazia indolore non si decidono ad agire presto, può essere doppia: quella iraniana e quella pakistana.
Magdi Allam: " Il contrasto fra Islam e democrazia":
Ha ragione lo scrittore anglo-pachistano Hanif Kureishi nel sostenere che «l'islam non è compatibile con la democrazia». Certamente non l'islam dei terroristi di Al Qaeda che hanno appena rivendicato l'attentato suicida che ha posto fine alla vita di Benazir Bhutto. Neppure l'islam degli estremisti islamici che praticano il lavaggio di cervello a milioni di giovani nelle moschee e scuole coraniche, indottrinandoli alla guerra santa e inculcando la fede nel «martirio» islamico. Né infine l'islam moderato nella forma ma dittatoriale nella sostanza, sostenuto dall'Occidente solo per la paura che i terroristi e gli estremisti islamici prendano il potere.
Nell'intervista concessa a Francesca Marretta e pubblicata ieri su Liberazione, Kureishi spiega così la sua sfiducia assoluta: «Il Pakistan è stato formato come Stato democratico per i musulmani, ma gli islamisti non sono capaci di essere democratici, perché mettono la religione davanti a tutto. Islam e democrazia non sono compatibili. Per quanto mi riguarda, il Pakistan non doveva essere creato come Stato. Doveva restare parte dell'India. Musharraf resterà al potere perché gli Usa non permetteranno che il Pakistan diventi una sorta di Stato talebano ». I fatti gli danno ragione.Se consideriamo gli Stati che si autodefiniscono «Repubblica islamica», quali il Pakistan, l'Iran, le Comore, Mauritania e Afghanistan, in aggiunta all'Arabia Saudita che ha adottato il Corano come Costituzione, ebbene nessuno di loro è democratico. Ma più in generale dei 56 Paesi membri dell'Organizzazione per la Conferenza islamica e che hanno una popolazione a maggioranza musulmana, nessuno rispetta pienamente i parametri della democrazia sostanziale così come è concepita e praticata in Occidente.
Nella gran parte dei casi la democrazia è trattata alla stregua di un rito formale, che si esaurisce nella messinscena delle regole del processo elettorale per legittimare il perpetuamento dei regimi autoritari al potere e violando comunque i diritti fondamentali della persona che sono l'essenza della democrazia sostanziale.
La storia moderna e contemporanea ci insegna che i Paesi musulmani si sono avvicinati in qualche modo all'esercizio della democrazia soltanto quando si sono apertamente ispirati a un modello complessivo di società e di civiltà occidentale, con la separazione sostanziale della sfera religiosa da quella secolare. Perché il nodo principale risiede appunto nella pretesa dell'integralismo e dell'estremismo islamico di definire religiosamente ogni minimo dettaglio del vissuto e della quotidianità delle persone. Alla base c'è la realtà di una religione che, in assenza di un unico referente spirituale, sin dai suoi esordi ha fatto leva sull'interpretazione soggettiva del testo sacro producendo una fede che è plurale ma non pluralista, proprio perché non c'è mai stata la democrazia sostanziata dal rispetto verso la moltitudine di comunità, sette, movimenti e partiti che spesso, singolarmente, rivendicano di essere i detentori dell'unico vero islam. Con il risultato che storicamente l'islam è conflittuale al suo interno prima di esserlo con il mondo esterno.
Ecco perché la radice del male è nell'intolleranza endogena all'islam che dal settimo secolo, quando tre dei primi quattro califfi che succedettero a Maometto furono assassinati da loro correligionari, vede a tutt'oggi i musulmani assumere i panni dei carnefici della maggioranza delle vittime musulmane. E proprio quanto sta accadendo in Pakistan conferma la natura aggressiva di questo terrorismo islamico che massacra principalmente gli stessi musulmani e che, contrariamente a un luogo comune diffuso, non è affatto la reazione alla guerra o all'occupazione di una potenza straniera.
Perfino i musulmani praticanti che beneficiano della democrazia in Occidente, compresi gli autoctoni convertiti all'islam, considerano la democrazia come uno strumento utile al radicamento del loro potere con il fine dichiarato o tacito di sostituirla appena possibile con la «shura», cioè un organismo consultivo, dove ai partecipanti è concesso soltanto definire le modalità attuative della
sharia, la legge islamica.
Perché all'uomo non è permesso anteporre la propria legge a quella divina. Fede e ragione vengono ritenute incompatibili. E anche se di fatto non esiste una versione unica e condivisa della sharia, tutti gli integralisti e gli estremisti islamici sono però d'accordo nel rifiuto della democrazia sostanziale.
Bernard-Henri Levy : " Ora un gesto per non dimenticare":
Innanzitutto hanno ucciso una donna. Una donna bella. Una donna visibile, anzi, visibile in modo palese e spettacolare. Una donna per la quale era una questione d'onore, non soltanto tenere incontri politici in uno dei Paesi più pericolosi del mondo, ma farlo a viso scoperto, senza velo — l'esatto contrario di quelle donne vergognose e nascoste, creature di Satana e pertanto maledette, le uniche donne tollerate dagli apostoli di un mondo senza donne.
Con Daniel Pearl, hanno ucciso un ebreo.
Con il Comandante Massoud, un musulmano moderato, un uomo colto, uno spirito libero.
Per tanti anni hanno tentato, con Salman Rushdie, di uccidere un uomo che osava dire che essere uomo significa anche, talvolta, scegliere di scegliere il proprio destino.
E con Benazir Bhutto sono riusciti a uccidere tutto questo, e altro ancora: hanno ucciso una donna, quella donna, hanno annientato una provocazione intollerabile, tale era la luce di quel viso mostrato a tutti, semplicemente mostrato, esposto, nella sua nudità indifesa e magnificamente eloquente. Hanno ucciso quella donna, perché era quella donna, perché incarnava quel viso di donna allo stesso tempo inerme e pieno di una forza che non ammette repliche.L'hanno uccisa perché viveva il suo destino di donna rifiutando la maledizione che pesa, secondo questi nuovi fascisti, i jihadisti, sulle fattezze umane delle donne. Hanno ucciso colei che era l'incarnazione stessa della speranza, dello spirito e della volontà di democrazia, non solo in Pakistan, ma in tutta la terra dell'Islam.
Pervez Musharraf è stato un falso nemico di Al Qaeda.
Con la sua rete di alleanze occulte, col suo modo di tenersi da parte una riserva di terroristi da cedere uno alla volta, col contagocce, a seconda delle esigenze dei suoi complicati rapporti con il grande amico americano, Musharraf ha finto di combattere le forze di Al Qaeda facendo il loro gioco sottobanco.
Se invece avesse vinto Benazir, se fosse almeno vissuta, semplicemente vissuta, non avrebbe mai smesso di dire, con la sua stessa vita, il suo essere, la sua presenza, con la sua testimonianza, che era la loro nemica più risoluta, assoluta, irriducibile: la Bhutto era, per i terroristi, una minaccia più che politica, oserei dire ontologica. Benazir non gli avrebbe lasciato scampo: loro lo sapevano, e l'hanno ammazzata.
La rivedo ancora, quel pomeriggio di dicembre del 2002, a Londra, all'epoca in cui indagavo sulla morte di Daniel Pearl e su quella polveriera, la base arretrata di Al Qaeda, e talvolta anche la base avanzata, che era già diventato il Pakistan. Bella, sì; incredibilmente coraggiosa nella sua volontà di tornare nel suo Paese, a tutti i costi, un Paese che le aveva già strappato, in un clima da tragedia shakespeariana, i due fratelli minori e il padre.
Rivedo il padre di Benazir, Zulfikar Ali Bhutto, trentacinque anni fa, poco prima della liberazione del Bangladesh e la scissione da quel Pakistan di cui era già primo ministro. Lo rivedo com'era allora, ignaro del destino che lo aspettava, elegante, raffinato, pakistano e anglofilo, musulmano e occidentale, incrocio vivente delle due culture, figlio naturale e promettente di due grandi lignaggi culturali che nessuno poteva immaginare, all'epoca, sarebbero stati travolti, in così breve tempo, da forze inarrestabili.
Queste personalità erano il sale della terra pakistana. Erano coloro che potevano impedire non solo a questo Paese, ma a tutta la regione, di sprofondare nel caos.
Benazir Bhutto è morta e un po' come il 9 settembre del 2001, giorno della morte di Massud, non posso fare a meno d'interrogarmi sul macabro programma che questi assassini devono avere in mente, non posso impedirmi di chiedermi a che cosa farà da preludio questo avvenimento tremendo, questo scoppio di tuono improvviso.
La reazione migliore è passare all'azione, e subito. Il modo migliore, l'unico, per rispondere a questa nuova e terribile sfida è di conferire immediatamente a questo evento tutta la sua importanza simbolica.
La signora Bhutto è stata appena inumata in questo Paese martire che, oggi più che mai, è il Pakistan. E il modo migliore per rispondere ai terroristi sarebbe ora, per Angela Merkel, per George Bush, per Gordon Brown, per Nicolas Sarkozy, di andare subito in Pakistan.
Dietro le spoglie mortali di questa grande donna, come in passato dietro quelle di Anouar Al-Sadat e di Yitzhak Rabin, avrebbero dovuto essere presenti, e in gran numero, i capi di governo e di Stato, per trasformare la celebrazione funebre in una manifestazione silenziosa e mondiale a favore dei valori della democrazia e della pace.
Ci sarebbe piaciuto, sì, che il Presidente francese, per esempio, avesse acconsentito a interrompere le sue vacanze per accompagnare nel suo ultimo viaggio questa grande donna ormai martire, cogliendo magari anche l'occasione per correggere le frasi davvero imprudenti pronunciate due giorni prima, quando ha parlato della religione, della fede, come della vera fonte della speranza dei popoli.
Ma no.
L'uomo che ha srotolato un tappeto rosso davanti a Gheddafi si è accontentato, in questa circostanza, di un secco comunicato. Ha risposto con il disprezzo a quelli che, come me, lo scongiuravano di trovare i gesti, o almeno le parole, adatti per salutare l'eroina assassinata. Ed è tutta la comunità dei capi di Stato democratici che è stata, oltre a lui, di una moderazione, di una prudenza, insomma di una vigliaccheria, davvero sorprendenti.
Non importa.
Benazir Bhutto, ormai, è molto più che un capo di Stato. È diventata un simbolo. Si è trasformata, come Massud, come Daniel Pearl, una formidabile bandiera. E bisognerà che, dietro questa bandiera, si raccolgano tutti coloro che non hanno ancora seppellito ogni speranza di libertà nella terra dell'Islam. Bisognerà che il suo nome diventi un'altra parola d'ordine, insanguinata ma bella, per quelli che ancora credono nella vittoria, nella terra dell'Islam, del genio benevolo dei Lumi su quello cattivo del fanatismo e del crimine.
A noi, cittadini d'Europa e degli Stati Uniti, spetta portare il lutto che i nostri leader hanno, per ora e nella sostanza, vergognosamente dimenticato.

Per inviare la propria opinione al Giornale e al Corriere della Sera, cliccare sulla e-mail sottostante.