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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
19.12.2007 Dove regna la sharia
una condanna per apostasia e una difesa della pena di morte

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Nawal El Saadawi - la redazione
Titolo: «Noi, perseguitate nel nome di Dio - Così Tantawi mina l’efficacia della moratoria sulla pena capitale»

Dal CORRIERE della SERA del 19 dicembre 2007, un articolo di Nawal El Saadawi, accusata di apostasia in Egitto.
Lo pubblichiamo in appoggio alla libertà di espressione,  senza entrare nel merito delle opinioni di El Saadawi, alcune delle quali sono senz'altro condivisbili, altre, a nostro giudizio, molto meno.

Ecco il testo:

L' opposizione ai diritti delle donne e dei poveri è universale, non esclusiva delle nostre regioni arabe o dei paesi islamici. Negli Stati Uniti l'amministrazione Bush è sostenuta dalla coalizione cristiana, che non solo è contraria ai diritti delle donne, ma dà la colpa delle rotture familiari ai movimenti di liberazione delle donne. Promuove i cosiddetti «valori della famiglia» e la «verginità» delle ragazze prima del matrimonio. Organizza i purity balls (balli della purezza), in cui viene applicato un doppio standard morale. I padri portano a questi balli le figlie per proteggere la loro verginità o conservarle pure per il matrimonio. Ma non ci sono balli simili per le madri e i figli maschi.
I delitti d'onore sono collegati alla verginità e non sono circoscritti alla cultura araba o islamica. Il concetto di verginità è radicato nell'ebraismo e nel cristianesimo. Per esempio, la Vergine Maria è la madre ideale e le monache sono velate. In Europa l'usanza di mettere il velo alle donne era limitata ai gruppi tradizionali ebraici e islamici.

Non risulta, in realtà, che i gruppi tradizionali ebraici adottino l'usanza del velo (ndr)

Oggi è sempre più comune nelle comunità di immigrati islamici in Olanda, Francia, Gran Bretagna, Belgio e in altri paesi europei. A volte è accompagnata dalla mutilazione genitale femminile. Sia il velo che quest'ultima sono considerati dai capi politici e religiosi di queste comunità come appartenenti all'identità islamica, nell'ambito del cosiddetto "relativismo culturale". Questo fa parte dell'inganno e del lavaggio del cervello inflitti alle donne, in Egitto e in molti altri paesi.
La mistificazione del relativismo culturale va avanti da tre decenni, ed è una forma di violenza psicologica. La mutilazione della mente non è meno criminale di quella genitale femminile o maschile, anzi, è forse ancor più pericolosa. È usata per mutilare corpo e anima, per giustificare la violenza contro donne e poveri. Una mentalità arretrata considera i diritti delle donne un attacco diretto alla legge divina, ai valori morali e alle tradizioni sacre. La tradizioni, sacre e non, rispecchiano sistemi di potere nello Stato e nella famiglia. Esse cambiano con il tempo e il luogo. Non sono fisse, immutabili o eterne. Sono scelte selettivamente da gruppi politici per conservare le strutture capitaliste patriarcali sia globalmente che localmente. Quando le donne lottano per i diritti umani in un sistema capitalistico patriarcale, vengono etichettate come traditrici della religione, del paese, della cultura, della loro identità autentica, della morale, della castità, eccetera. Ma dobbiamo continuare a lottare, non dobbiamo farci intimorire. Dobbiamo organizzarci globalmente e localmente.
La soluzione è una lotta globale. La libertà costa cara, ma il prezzo della schiavitù è ancora più alto, perciò è meglio pagare un prezzo per essere libere piuttosto che per essere schiave. Dobbiamo unirci per mobilitare uomini, donne, giovani e bambini e organizzare e instaurare un potere politico e sociale in grado di cambiare i valori e le leggi patriarcali e classiste esistenti. Per questo serve una vera democrazia. E la libertà di organizzazione e di critica. È necessaria una lotta collettiva contro la dittatura dello Stato e della famiglia, e contro la falsa coscienza creata dai mass media governativi e dal sistema scolastico. Se lo Stato stesso è fondato su patriarcato, classe e religione, come può combattere l'oppressione che è il prodotto di patriarcato, classe e religione?
L'opposizione ai diritti delle donne e dei poveri si sta diffondendo. In Egitto si sentono sempre di più gli effetti della globalizzazione e del neo-colonialismo americano, che causano una crescente povertà (il 40% degli egiziani vive sotto il livello di povertà), l'aumento del tasso di disoccupazione, il deterioramento dei servizi sanitari, scolastici e dei mass media, e il dominio di gruppi fondamentalisti retrogradi religiosi e politici.
Il 28 gennaio 2007 sono stata interrogata in tribunale dal pubblico ministero. Io e mia figlia, Mona Helmy, scrittrice e poetessa, siamo state processate con l'accusa di apostasia. Perché? Perché lei ha scritto un articolo in un settimanale, chiedendo che il cognome della madre sia rispettato e non ignorato e ha detto che avrebbe firmato i suoi articoli e i suoi libri con entrambi i cognomi, quello della madre e del padre. Il mio crimine sono i miei scritti, e anche la mia battaglia contro l'uso patriarcale della lingua nella religione e nella politica, quando affermo che Dio non è né maschio né femmina, che Dio è simbolo di giustizia, libertà e amore, come mi diceva la mia nonna contadina più di 65 anni fa. Dio è simbolo di giustizia e non un libro sfornato da una tipografia. Non c'è pace nel mondo, nelle nazioni o nelle famiglie senza giustizia. Non c'è libertà o vera democrazia senza giustizia.
Il 27 febbraio scorso Al Azhar (la più importante istituzione islamica in Egitto e in tutto il mondo islamico) mi ha accusata di apostasia ed eresia per un mio lavoro teatrale dal titolo «Al summit dei potenti Dio si dimette», pubblicato in arabo al Cairo in gennaio. In quest'opera espongo le contraddizioni e le discriminazioni patriarcali, di classe e di razza radicate nei tre libri monoteisti: l'Antico e il Nuovo Testamento e il Corano. Mostro che questi testi sono politici, che parlano di potere, denaro e sesso. Che in essi prevale il doppio standard morale: l'inferiorità delle donne rispetto agli uomini, la dittatura, il razzismo, le guerre e l'uccisione di eretici o infedeli. La maggior parte dei governi del mondo usa questi testi sacri per opprimere la popolazione. La religione è asservita al sistema politico. È usata da gruppi di potere che giustificano l'ingiustizia dicendo che è un volere divino. Nell'opera teatrale il Dio dei libri si dimette quando deve confrontarsi con le sue contraddizioni e ingiustizie.
Il revival dei movimenti religiosi fondamentalisti in tutto il mondo ha aumentato l'oppressione delle donne e dei poveri. Il pensiero creativo è condannato, perché toglie il velo alla mente ed espone i paradossi di politica, religione e sesso. In febbraio, camminando per le strade del Cairo e di Bruxelles ho incontrato giovani donne che si coprivano il capo con un velo, ma i cui jeans aderenti lasciavano scoperta la parte superiore dell'addome. Le donne sono le vittime più evidenti delle contraddizioni religiose e politiche: sono velate perché viene imposto dalla religione, e nude perché così vuole il consumismo della globalizzazione e del cosiddetto libero mercato, che è libertà per i potenti di sfruttare i deboli.

Dal FOGLIO un articolo sulla fatwa dello sheikh Said al Tantawi di Al Azhar e sul suo significato in realazione alla possibilità di una modernizzazione dell'islam:

Roma. Già approvata in commissione, è stata confermata ieri dall’assemblea generale dell’Onu la moratoria della pena di morte. Già bocciata nel ’99, questa proposta è riuscita quest’anno a conquistare una maggioranza soprattutto grazie al mutato atteggiamento del governo americano. L’amministrazione democratica di Bill Clinton, infatti, aveva fatto fuoco di sbarramento e sabotato ogni tentativo di allargare il fronte degli abrogazionisti, tanto che durante il fallimentare convegno per lanciare “l’Ulivo mondiale” di Firenze, organizzato da Massimo D’Alema, l’allora premier francese Lionel Jospin rinfacciò duramente questa scelta al presidente americano e boicottò qualsiasi documento finale comune di un qualche rilievo. Quest’anno, invece, l’amministrazione repubblicana di George W. Bush ha tenuto un atteggiamento di sostanziale neutralità e non ha preso alcuna iniziativa per boicottare la moratoria, lasciando che paesi tradizionalmente appartenenti al suo schieramento si esprimessero liberamente (a riprova di questo generale cambiamento di clima negli Usa, il New Jersey ha abrogato venerdì scorso la pena capitale). Il risultato, però, è stato messo in pericolo fino all’ultimo da una mossa inaspettata: un duro, dogmatico pronunciamento dello sheikh Said al Tantawi, che ha emesso, subito dopo l’approvazione della moratoria in Commissione, una fatwa che inibisce qualsiasi possibilità che un paese musulmano la abroghi. La fatwa è stata pubblicata il 4 dicembre scorso ed è indirizzata, dal punto di vista formale, al governo egiziano, nei cui confronti lo sheikh al Tantawi gode di uno specifico ruolo giuridico, poiché nel 1980, Anwar al Sadat modificò la Costituzione e stabilì che la sharia “è il fondamento della legislazione egiziana”. Il controllo sull’applicazione della sharia divenne così appannaggio dell’università coranica di Al Azhar del Cairo, la più prestigiosa e autorevole nel mondo sunnita, che al Tantawi oggi dirige La fatwa, dunque, non ha solo valore vincolante per l’Egitto, ma per tutti i paesi musulmani sunniti (52 su 53) e così si esprime: “La pena di morte è uno degli ordini di Allah, abolirla significa abolire una delle regole dettate da Allah; noi di al Azhar combatteremo questa proposta in ogni modo attraverso i nostri dotti nel caso in cui dovesse diventare una proposta di legge…”. Questa fatwa ha un peso devastante non solo nel dibattito interreligioso, ma anche nei rapporti tra i paesi musulmani e l’occidente. Dal punto di vista del dialogo interreligioso, le posizioni espresse in questa fatwa rendono più improbabile l’incontro di al Tantawi con Benedetto XVI, a cui tanto tiene il nunzio in Egitto, cardinale Fitzgerald. La fatwa, infatti, si basa sul dogma che vuole che la sharia sia “volontà di Dio” e sia contenuta nel Corano. Così non è per nulla, perché la sharia – che è un codice civile e penale, non una normativa religiosa – è stata codificata in cinque versioni differenti ben due secoli do dopo il Corano e prevede pene e disposizioni non contemplate nel Corano. Così è per la pena di morte, che il Corano non prevede esplicitamente in nessun passaggio (e che la sharia invece infligge addirittura per l’incendio doloso); così è per l’adulterio, che nel Corano è punito in un versetto con 50 frustate, mentre un altro versetto incita addirittura al perdono. Con questa fatwa, dunque, al Tantawi non solo mette in pericolo l’efficacia della moratoria della pena capitale, ma ribadisce anche che a queste condizioni non è possibile un confronto aperto con l’islam, anche quello “moderato”, quale sarebbe appunto quello di al Azhar, dal punto di vista teologico. L’islam contemporaneo, infatti, rifiuta di mettere in discussione il proprio codice penale e civile, la sharia, perché lo ritiene direttamente ispirato dal Corano e immutabile. Questa linea in passato – sino all’anno mille – sarebbe stata considerata scismatica e inconcepibile, ma oggi è maggioritaria nel mondo musulmano.

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