Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Jihadismo, un'ideologia genocida Martin Amis replica ai suoi critici
Testata: La Repubblica Data: 18 dicembre 2007 Pagina: 46 Autore: Martin Amis Titolo: «Islamismo Se attacco i fanatici non sono razzista»
La REPUBBLICA del 18 dicembre 2007 riprende dal Guardian un importante articolo dello scrittore inglese Martin Amis:
Vorrei parlare del tipo di pubblico dibattito che dovremmo augurarci di avere. Ma innanzitutto userò ai miei lettori islamici (so di averne qualcuno) l´elementare cortesia di dichiarare che IO NON SOSTENGO, NE´ HO MAI CALDEGGIATO ALCUN TRATTAMENTO DISCRIMINATORIO NEI CONFRONTI DEI MUSULMANI. E nessuno che abbia il benché minimo rispetto per la verità può affermare il contrario. Il 19 novembre, la copertina di G2, allestita per l´occasione in modo da richiamare i più rozzi giornalastri di istigazione all´odio degli anni 30 (come ad esempio Der Stürmer di Julius Streicher) annunciava con toni sovreccitati l´avvento di un «nuovo razzismo». Il quale in effetti presenta una novità: quella di non essere razzista. Ronan Bennett annaspa e si dibatte nel più grossolano degli errori di categoria: non stiamo parlando di un problema di razza, ma di una questione ideologica. *** Avrò avuto cinque o sei anni quando mio padre, comunista e universalista, mi portò con sé in visita da un docente universitario africano - della Nigeria, se ben ricordo. «E´ un uomo tutto nero», mi spiegò papà cammin facendo. «Ha la faccia nera». Ero tutto preso dalla gioia sfrenata di salire sull´autobus rosso a due piani (nella zona alta, riservata ai fumatori). «Vedrai: è un signore nero. La sua faccia è nera». Ricordo che pensavo tra me: «Chissà perché papà me lo torna a ripetere». Arrivammo, e appena entrato nella stanza mi vidi davanti l´uomo nero. «Ma tu hai la faccia nera!» dissi, scoppiando a piangere. «Per forza! Sono un nero!» mi rispose lui, scoppiando a ridere. Mio padre volle consolarmi, ma io, già allora, sentivo di non meritare quelle parole di conforto. Eravamo a Swansea, verso la metà degli anni 1950. Non avevo mai visto un nero prima d´allora (neppure in TV, dato che in casa non l´avevamo). E oggi penso che fosse proprio quella l´unica vera privazione della mia infanzia: la terrificante monotonia dell´umanità incolore del Galles del Sud, incerta e sbiadita nei suoi toni bianchi e grigi, un po´ come un cinegiornale Pathé, o come una Grande Depressione etnica. Come per ogni scrittore di romanzi, la varietà del mondo fisico è quel che più conta nella mia vita; è il mio vizio. Se ho qualcosa da eccepire contro l´arcobaleno è che il suo spettro non è abbastanza vasto. Vorrei vedere Londra invasa da marziani e nettuniani impettiti, rispettabili cittadini originari di Krypton o di Tralfamodore. La necessità di ricorrere alle autocitazioni mi mette a disagio, ma devo pur usare le stesse armi di chi mi attacca. Ecco due stralci da The Independent (gennaio 2007): «L´islamofobia si manifesta oggi in forme che mi disgustano: molestie contro le donne musulmane per la strada, o peggio. E´ mortificante far parte di una società ove una qualunque minoranza può sentirsi minacciata. Le difficoltà hanno a che fare con la natura dell´identità nazionale. Quello che dovremmo cercare di imitare è il modello americano (...). Se a Boston un immigrato pakistano dichiara: "Sono americano", non fa altro che constatare una realtà ovvia. Ma a Bradford, un uomo nella sua condizione potrebbe esprimersi allo stesso modo? La Gran Bretagna dovrebbe diventare ciò che l´America è sempre stata: una società di immigrati. In ogni caso, sarà questo il nostro futuro. La cosa migliore (al mio ritorno nel Regno Unito dopo 30 mesi d´assenza) fu quella di ritrovarmi in un Paese che al di là dei suoi difetti e delle sue infinite magagne può vantare uno straordinario successo come società multirazziale. Un´idea bellissima, che ha anche buone probabilità di diventare una bella realtà». Possibile che il signor Bennett sia talmente accanito nella sua caccia al razzista da vedersi ridotto a fustigare l´autore di queste righe? Le osservazioni sopra citate sono risposte alle domande inviatemi per e-mail dai lettori del giornale; e quindi si possono collocare a metà strada tra un´intervista e un saggio. Mi sia consentito di insistere ancora per un attimo su questa distinzione. Quello che uno dice, su un qualsiasi argomento, non è mai la sua ultima parola. Mentre ciò che si scrive aspira ad esserlo. Per parafrasare - con un lieve adattamento - una battuta di Vladimir Nabokov (da Strong Opinions): «Io penso come un genio, scrivo come un distinto uomo di lettere, e parlo come un idiota». *** Ronan Bennett pensa come un idiota (al pari di Terry Eagleton). Se lo leggesse un extraterrestre appena sceso dall´astronave, dovrebbe ritenere che nulla di insolito sia accaduto dal 10 settembre 2001 - tranne la sconfortante ascesa di quella che (inutilmente) lo stesso Bennett accorpa nella definizione di «Islamofobia». Le mie osservazioni incendiarie all´epoca non suscitarono vampate di alcun genere, anche in considerazione del contesto temporale: in quell´agosto del 2006 si era appena scoperto un complotto jihadista (il terzo in soli tredici mesi) che progettava il massacro di un campione di cittadini britannici scelti dal caso: quella volta dovevano essere tremila. Oltre tutto, il mio commento era preceduto dalle parole: «Si avverte nettamente l´urgenza di dire». Bennett si chiede come mai io non abbia ritrattato. Ma secondo lui, cos´avrei dovuto fare? Fingere di non aver provato quel momentaneo impulso (non certo espressione di razzismo, ma semplicemente istinto di ritorsione)? Secondo lui, uno scrittore dovrebbe esprimersi come un politico - o magari come una di quelle anime pie di automi post-storici che Bennett e Eagleton vorrebbero incarnare? «L´islamofobia è razzista»: questo il pensiero di Bennett, il suo contributo al dibattito. Ma prima di inerpicarci su questo picco della Medusa, vediamo prima il senso della sua accusa di non distinguere tra Islam e Islamismo: «Parla dell´islam, non dell´islamismo; dei musulmani, non degli islamisti». Benissimo. Ecco allora un´altra citazione, da un saggio del 2006, uscito col titolo Terror and Boredom: The Dependent Mind («Terrore e noia: la mente dipendente»): «Possiamo incominciare col dire che non solo rispettiamo Maometto, ma che nessuna persona seria potrebbe non rispettare questa eccezionale, luminosa figura storica... A giudicare dalle continuità che ha saputo mettere in moto, sono molte le ragioni per considerare Maometto il più straordinario degli uomini vissuti in terra... Meglio ripetere: noi rispettiamo l´islam, cui l´umanità deve benefici innumerevoli. Ma l´Islamismo? No, non ci si può chiedere rispetto per una professione di fede che postula la nostra eliminazione.. Naturalmente, noi rispettiamo l´Islam, non l´Islamismo. Così come rispettiamo Maometto, non Muhammad Atta». Ed eccoci al grande volo dialettico di Bennett. A suo giudizio, io sarei ostile all´islam per motivi razziali. Un´assurdità che si commenta da sé. Considerate l´immensità del programma di antagonismi che ha dispiegato davanti a me: dovrei rivolgere il mio odio razziale a più di un quarto dell´umanità, e praticamente a tutte le etnie rappresentate sul pianeta. (Ma secondo lui, come dovrei atteggiarmi nei confronti di un personaggio come David Myatt, il neonazista che nega l´Olocausto e si fa chiamare Abdul-Aziz ibn Myatt? Con una certa indulgenza, trattandosi di un jihadista feroce, ma di pelle bianca?) In ogni dibattito tra scrittori si dovrebbe osservare almeno una regola: quella di presumere che l´altro non sia un maniaco. Devo averlo visto arrivare, Mister Bennett, quando ho recensito, nell´aprile di quest´anno, il libro di Mark Steyn, allarmista ma assai pertinente, dal titolo: America alone. A questo punto devo inserire l´ultima delle mie autocitazioni: «Ogni qualvolta si riconosce il timore di vederci travolti dall´evoluzione demografica, il pensiero corre inevitabilmente all´eugenismo, alle sterilizzazioni forzate e così via. Leggendo le pagine di Mark Steyn, molti buoni e moderni occidentali percepiranno quella vampata di perbenismo sdegnato che normalmente precede ogni accusa di "razzismo"». Ma non è questione di razza. E´ questione di ideologia. Se tutti gli abitanti di un Paese liberale e democratico credono nella democrazie liberale, la loro fede religiosa e il colore della loro pelle non contano. Ma se alcuni credono nella sharia o nel califfato, e sono inoltre convinti dell´utilità di una strage nella discoteca Tiger Tiger tra la folla attratta dalla Ladie´s Night per conseguire questo risultato, allora i numeri incominciano ad avere importanza. Quando intervistai Tony Blair, all´inizio di quest´anno, gli chiesi se il problema demografico a livello continentale fosse già «un tema di conversazione europeo». Mi ha risposto: «E´ una conversazione sotterranea». Sappiamo bene cosa vuol dire. Per l´etica del relativismo, la questione demografica è talmente carica di risvolti repellenti da sconsigliarla come tema di discussione. Nella sua qualità di ideologo multiculturalista, Bennett non è in grado di prendere atto che a) la popolazione autoctona della Spagna e dell´Italia è destinata a dimezzarsi nell´arco di trentacinque anni; b) ciò comporta alcune conseguenze. E fa ricorso, come un commissario del popolo in stato confusionale, alla violenza polemica della «pretesa di supremazia dei bianchi», giocando la «carta del razzismo», questa granata d´argento dei virtuosi. *** Terry Eagleton ha dato il via a tutto questo scalpore campato in aria con un attacco sul Guardian, che fin dalla prima frase contiene tre affermazioni non rispondenti al vero. Bennett, marginalmente più scrupoloso, si inserisce al momento di raccattare i resti. In quest´ultimo mese, vari amici e simpatizzanti mi hanno fatto notare che sia l´uno che l´altro stanno per pubblicare un nuovo libro, e forse hanno bisogno di pubblicità. Per mia natura, rifuggo dal pensare a simili trivialità e cadute di stile. Imputare il cinismo ad altri è sempre un atteggiamento da cinici; e chi mai vorrebbe condannarsi a vedere il cinismo dappertutto? C´è anche chi arriva a sostenere che questo tipo di cinismo è solo una collinetta, a confronto con picchi di ben altra altezza; e argomenta che al giorno d´oggi diffamazioni e approssimazioni si possono sparare a piacimento, fidando che il veleno attecchirà comunque - perché è così che funziona oggi il dibattito. In ogni caso, sarebbe un lavoro squallido anche solo immaginare Eagleton e Barrett affaccendati a compilare le loro diatribe saltabeccando e piluccando qua e là tra interviste e dibattiti televisivi, saggi o racconti brevi o frammenti di citazioni e sigle dal Daily Mail, distorcendo o sopprimendo o raffazzonando di qua e di là. Non sono interessati al dibattito o alle idee, ma solo a definire posizioni e a inviare segnali, con la civetteria di compiacere chi la pensa allo stesso modo. Non è la prima volta che mi si accusa di razzismo. Nel 1991 mi diedero dell´antisemita per via del mio romanzo Time´s Arrow (La Freccia del tempo). Non esiste calunnia peggiore. Come se qualcuno tracciasse una croce sulla tua porta di casa. Vorrei concludere con le parole dello stesso Bennett. E´ una piccola epifania, un poemetto, di farisaico autocompiacimento: «Amis la passa liscia, dopo aver dato sfogo ai sentimenti razzisti più odiosi, come da tempo non si sentivano esprimere in questo Paese. Una vergogna per lui, e per chiunque lo abbia tollerato». Dunque, dobbiamo vergognarci tutti - io per primo. Tutti, tranne il signor Bennett. Leggiamola un´altra volta, questa frase. Lei questo non lo ha tollerato, vero? No, e quindi ne esce meglio di chiunque altro. Il suo discredito non è sociale, bensì morale, intellettuale, e (curiosamente) anche artistico - ma nessuno gliene chiederà mai conto. Prima di chiudere, vorrei dire soltanto che l´ideologia con la quale ci invita a riappacificarci (chamiamola jihadismo, sull´esempio di Francis Fukuyama) è irrazionalista, misogina, omofoba, inquisitoria, totalitaria e imper ialista. E non è solo razzista. E´ genocida. traduzione di Elisabetta Horvat