Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il piano Blair per i territori palestinesi informazione e ideologia a confronto
Testata:Il Foglio - Il Manifesto Autore: la redazione - Michele Giorgio Titolo: «Ecco il business plan (con ricca dote) di Blair per la Palestina - E in Palestina arriva il piano Blair»
L'articolo del FOGLIO sulla conferenza di Parigi (pagina 3) concede spazio al più che giustificato scetticismo degli osservatori più smaliziati("qualsiasi manna finanziaria internazionale, in realtà, rischia di aggravare i problemi strutturali dell’economia palestinese"), ma illustra come una novità il piano Blair, un tentativo di passare dall'assistenza allo sviluppo dell'economia palestinese:
Parigi. Secondo Tony Blair, l’inviato del quartetto (Onu, Usa, Ue e Russia) in medio oriente, i 7,4 miliardi di euro in tre anni promessi ieri dalla conferenza dei donatori “per la creazione di uno stato palestinese” bastano, ma non sono abbastanza. Le restrizioni poste da Israele per ragioni di sicurezza hanno un peso sullo stato dell’economia nei territori, ma solo fino a un certo punto: per evitare la bancarotta palestinese occorrono industrie, agricoltura e posti di lavoro veri. Serve un business plan incentrato sul commercio e il turismo, che permetta all’economia palestinese di svilupparsi e di uscire dal meccanismo perverso dei sussidi. “Senza speranza di prosperità e una partecipazione economica (diretta) dei palestinesi ordinari, la politica non avrà mai successo”, ha spiegato l’ex premier britannico durante una visita a Betlemme a novembre. Blair condivide la priorità della conferenza di Parigi di rilanciare l’economia della Cisgiordania e di Gaza per rafforzare il presidente palestinese, Abu Mazen, a danno dell’organizzazione islamista Hamas. L’obiettivo dei 5,6 miliardi di dollari, fissato dal primo ministro palestinese, Salam Fayyad, è stato ufficialmente superato. L’Unione europea ha annunciato 650 milioni di dollari per il prossimo anno, direttamente versati sul conto di Fayyad, attraverso un nuovo meccanismo (Pegase) appositamente costruito per evitare Hamas. Gli Stati Uniti faranno la loro parte con un aiuto “senza precedenti” di più di 550 milioni di dollari, ha detto il segretario di stato, Condoleezza Rice. Anche gli arabi – Arabia Saudita, Egitto e paesi del Golfo – metteranno mano al portafoglio. Per il 2008 “siamo a circa due miliardi di dollari”, ha spiegato il ministro degli Esteri norvegese, Jonas Gahr Stoere, presidente della conferenza con Bernard Kouchner e Blair: “Se tutto va bene, possiamo moltiplicarlo per tre”. La prudenza è di rigore quando si tratta di aiuti all’Autorità palestinese (Ap). In passato, i paesi arabi hanno raramente mantenuto le promesse finanziarie. Nel 2007, dei 421 milioni di dollari annunciati, solo 80 sono stati versati all’Ap. L’entourage di Abu Mazen lamenta la marcia indietro dell’Arabia Saudita sull’impegno di coprire metà del deficit annuale dell’Ap (1,4 miliardi di dollari in totale): alla fine Riad ha offerto 500 milioni in tre anni. La stampa israeliana s’interroga sull’effettiva volontà di sauditi ed egiziani di puntare tutto su Abu Mazen, tagliando i ponti con Hamas, che ieri ha denunciato la raccolta di fondi come una “guerra dichiarata contro i palestinesi”. Qualsiasi manna finanziaria internazionale, in realtà, rischia di aggravare i problemi strutturali dell’economia palestinese. “I doni raccolti a Parigi confortano un triste record – scrive il Monde – I palestinesi sono, per abitante, il popolo più aiutato della terra, ma il loro livello di vita non cessa di diminuire”. Solo nel 2007, tra paesi membri e Commissione, l’Europa ha versato un miliardo di euro, in gran parte destinati all’Ap e agli stipendi dei funzionari. Anche nei prossimi tre anni, i due terzi degli aiuti internazionali saranno consacrati al sostegno diretto delle finanze palestinesi, mentre ai progetti di sviluppo andranno le briciole. Secondo le previsioni, lo stipendio di un funzionario palestinese su due sarà pagato dalla comunità internazionale. La corruzione è dura a morire nei ranghi di Fatah, i cui ministri chiedono anche il dieci per cento di commissione. Aldilà dei checkpoint in Cisgiordania e del blocco di Gaza – imposto dopo la vittoria elettorale di Hamas nel gennaio 2006 – l’Anp è “imprigionata” in una dipendenza da sussidi internazionali, spiega la ricercatrice Caroline Abu-Sada. Per contro, il business plan che Blair ha presentato e fatto approvare favorisce una crescita economica autonoma. I suo progetti includono un parco commerciale a Gerico (collegato alla Giordania con un corridoio per bypassare i checkpoint israeliani), un parco industriale a Hebron e imprese agricole nel resto della Cisgiordania. Poi tanto turismo nei luoghi santi: a novembre, Blair ha passato una notte a Betlemme per spiegare che “è un posto sicuro per il turismo e un buon posto dove venire”. Come a dire: la sicurezza è indispensabile per Israele, ma conviene anche ai palestinesi.
Lo sviluppo economico non è un bene per Il MANIFESTO, che vede nel conflitto nazionale tra israeliani e palestinesi un conflitto di classe tra contadini arabi e capitalisti ebrei (più una minoranza imprecisata di ricchi arabi) e auspica che i palestinesi mantengano nei secoli dei secoli un'economia agricola di sussitenza. Di seguito, l'articolo di Michele Giorgio (pagina 11) pubblicato a pagina 11, rivelatore del miscuglio di ideologia vetero-marxista e mitologia terzomondista con il quale il quotidiano comunista interpreta la situazione mediorentale:
Anche a Parigi Tony Blair ha recitato un ruolo da protagonista. L'inviato del Quartetto per il Medio Oriente ed ex premier britannico prende sul serio l'incarico di «sviluppare l'economia palestinese» che gli ha affidato il presidente statunitense George W. Bush, suo compagno di tante avventure militari. Talmente sul serio che sforna piani a ripetizione. Sono ben quattro le proposte che l'inviato del Quartetto ha avanzato di recente per la «rigenerazione dell'economia palestinese», tra cui uno dal nome suggestivo: «Corridoio per la pace e la prosperità». Era già pronto da tempo, perché era stato ideato dall'Agenzia giapponese di cooperazione internazionale (Jica). Prevede la costituzione di un'ampia area agro-industriale nella Valle del Giordano, l'area più fertile dei Territori palestinesi occupati da Israele 40 anni fa. Dietro la retorica buonista il progetto rivela non solo l'obiettivo di ufficializzare la dipendenza dell'economia palestinese da quella israeliana, ma anche l'intenzione di legalizzare indirettamente le colonie israeliane in quella porzione di territorio palestinese. Il «Corridoio per la Pace e la Prosperità» include anche progetti per il trattamento e lo smaltimento di rifiuti e già non mancano le critiche degli abitanti di Gerico. Le discariche infatti sorgeranno solo nella minuscola area A, quella che secondo i vecchi accordi di Oslo è controllata (almeno formalmente) dall'Autorità nazionale palestinese (Anp). Il piano infatti non prende in considerazione costruzioni di impianti di smaltimento nell'area C, che comprende gran parte della Cisgiordania occupata ed è sotto la piena autorità delle forze armate israeliane. I giapponesi e Blair sembrano dare per scontato che l'area C in futuro rimarrà sotto il controllo di Israele. Jamal Jumaa, un esponente della società civile palestinese e attivista della campagna «Stop the Wall», sospetta che il programma preveda «lo smaltimento dei rifiuti anche delle colonie israeliane costruite nella zona, ad esempio la gigantesca Ma'ale Adumim, che per la legge internazionali sono illegali». Contrariamente al modello socio-economico dell'area di Gerico, fatto di agricoltori che lavorano il loro pezzetto di terra, lo sviluppo concepito dai giapponesi e approvato da Blair, prevede la nascita di grosse imprese agro-industriali con una significativa partecipazione di forza lavoro. Se si considera la miseria in cui vivono gran parte degli abitanti della Valle del Giordano, non è difficile immaginare che saranno gli israeliani e la solita élite palestinese a dominare la scena imprenditoriale, mentre i contadini faranno i manovali. Il piano del Jica, alle pagine 8 e 9, fa inoltre riferimento al ruolo di primo piano per lo sviluppo dell'area agro-industriale che dovranno svolgere le «Israeli migrant firms», una espressione che nasconde quelle aziende israeliane che operano nei territori occupati palestinesi e sono coinvolte in attività nelle colonie ebraiche della Valle del Giordano. «Il Corridoio per la pace e la prosperità - avverte Jamal Jumaa - attraverso la cooperazione economica spinge i palestinesi a riconoscere la presenza degli insediamenti colonici. Non solo, ma con questi presupposti i benefici per i palestinesi saranno minimi, perché i nostri agricoltori non avranno mai i mezzi per poter essere al vertice della piramide manageriale ma dovranno accontentarsi delle briciole». Nella direzione indicata da Jumaa sembra andare anche la costruzione della «Morajat Road». Ufficialmente questa arteria, prevista dal piano, ha il compito di facilitare i movimenti delle merci e degli agricoltori locali lungo la Valle del Giordano. Nei fatti permette a Israele di chiudere al traffico palestinese la statale che collega Gerusalemme all'area di Gerico, contribuendo così allo sviluppo del doppio sistema stradale - uno per israeliani e l'altro per palestinesi - che lo stesso relatore dell'Onu per i diritti umani, John Dugard, ha descritto come di semi-apartheid. Senza dimenticare che la «Morajat Road» comincia e termina con posti di blocco israeliani. Criticare i modelli di «pace» e «sviluppo» enunciati all'incontro di Annapolis del mese scorso e quelli che emergono dai piani di Tony Blair sta diventando un'impresa sempre più ardua. Tuttavia dubbi comincia ad averli anche qualche regime arabo che mantiene stretti rapporti con l'Amministrazione Bush. Ieri mentre a Parigi venivano decisi ingenti aiuti finanziari all'Anp di Abu Mazen, non pochi si domandavano se gli Stati arabi terranno fede agli impegni che si sono assunti nei riguardi del presidente palestinese il mese scorso ad Annapolis. Egitto e Arabia saudita infatti appaiono riluttanti a schierarsi senza riserve con Abu Mazen e a tenere a distanza Hamas che dallo scorso giugno controlla Gaza. Proprio dall'entourage del presidente palestinese fanno trapelare che l'Arabia saudita sta frenando rispetto alla promessa di coprire metà del deficit annuale dell'Anp (quest'anno 1,4 miliardi dollari). Non solo ma dei 421 milioni di dollari che i paesi arabi avevano promesso ad Abu Mazen nel 2007 ne sono stati consegnati una ottantina. L'Arabia saudita da un lato sta con Abu Mazen e dall'altro esita a tagliare i rapporti con Hamas che rappresenta una porzione importante della popolazione palestinese. Qualche giorno fa il leader di Hamas in esilio, Khaled Mashaal, è stato accolto a Riyadh con calore dai dirigenti sauditi e non sorprende che l'incontro sia stato duramente criticato da collaboratori del presidente palestinese.
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