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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica Rassegna Stampa
17.12.2007 Una vicenda saudita
strumentalizzata contro la "guerra al terrorismo" e l'Occidente

Testata: La Repubblica
Data: 17 dicembre 2007
Pagina: 15
Autore: Igacio Cembrero
Titolo: «Il bambino di Al Qaeda storia di Elias cresciuto in carcere»
Che l'Arabia Saudita lasci molto a desiderare in quanto a rispetto dei diritti umani, è cosa indubitabile.
Letta in questa chiave la storia di
 Elias Mejjati figlio di un membro di Al Qaeda, imprigionato nel 2003 a soli 10 anni, insieme alla madre merita di essere raccontata e di scuscitare allarme.  
Nell'articolo pubblicato dalla REPUBBLICA il 17 dicembre 2007, ripreso da El Paìs, però la storia si trasforma in un atto d'accusa propagandistico contro la "guerra al terrorismo".
 Coloro che ne parlano   "seminano vento e raccoglieranno tempesta" dichiara Mejjati, che come altri bambini è evidentemente già stato indottrinato all'ideologia d'odio del fondamentalismo terrorista. Il giornalista, dal canto suo,  non si chiede che cosa accadrebbe se l'Occidente rinunciasse a difendersi dagli attacchi di Al Qaeda.

Nel testo, la distanza critica dall'ideologia qaedista assimilata da Mejjati e da affermazioni assurde come quella secondo la quale Al Qaeda rispetta l'"infanzia e l'innocenza" è assente.
Per questo, non siamo di fronte a una denuncia di violazioni dei diritti umani, ma a una strumentalizzazione antioccidentale.

Ecco il testo:

CASABLANCA - Questo è la storia di Elias Mejjati, messo in prigione nel 2003 dalla polizia segreta saudita quando aveva solo 10 anni. Il motivo? Suo padre era un membro di Al Qaeda che aveva combattuto in Bosnia e Afghanistan. Elias e sua madre rimasero in prigione per un anno nelle carceri saudite e marocchine.
Elias Mejjati aveva 10 anni quando fu arrestato insieme a sua madre, Fatiha, il 23 marzo del 2003, dalla polizia segreta saudita mentre uscivano dallo studio di un oculista a Riad. Elias è figlio di Karim Mejjati, un franco-marocchino che, dopo aver aderito a Al Qaeda, andò a combattere in Bosnia e poi in Afghanistan contro l´intervento americano nel 2001. Dopo un lungo viaggio attraverso tre paesi dell´Asia Centrale, Afghanistan, Pakistan e Bangladesh, la famiglia Mejjati - i genitori e i due figli, Elias e Adam - si stabilì in Arabia Saudita sotto falsa identità. Il padre, Karim, e il figlio minore, Adam, riuscirono a sfuggire alla retata in cui, quattro anni fa, caddero la madre e il primogenito.
Elias e sua madre trascorsero un anno nelle prigioni amministrate dai servizi segreti sauditi e marocchini prima di essere rimessi in libertà. Non videro mai né un avvocato né un giudice istruttore. Durante i dodici mesi trascorsi dietro alle sbarre, Elias non venne torturato fisicamente, ma fu interrogato per ore, privato del sonno, costretto a dormire per terra e spesso ricevette un´alimentazione insufficiente. Sentì le urla dei torturati e, in un´occasione, ne vide uno sul tavolo della tortura. Il suo passatempo preferito era disegnare.
Un anno dopo essere stato scarcerato, Elias venne a sapere dalla televisione che suo padre e suo fratello Adam, di 10 anni, erano stati uccisi in una sparatoria ad Al Rass, il 5 aprile del 2005, insieme ad altri 17 membri di Al Qaeda circondati dalle forze di sicurezza saudite. Elias, che oggi ha 15 anni, non ha frequentato la scuola, ha dei disturbi ormonali - pesa 130 chili - e una malattia psichica contratta in carcere. Nel suo appartamento di via Orano, a Casablanca, dove abita con sua madre, ha raccontato per la prima volta l´esperienza della sua detenzione nel corso di quattro giorni. Lo ha fatto con una minuziosità sorprendente e anche con tante lacrime agli occhi. Questo è il suo racconto:
«Il vicino che ci aveva portato in macchina fino allo studio dell´oculista era circondato da una decina di uomini barbuti che indossavano il khamis (gellaba bianca). Sembravano dei pii musulmani. Gli chiesi chi fossero e mi rispose: "Mojabarats (agenti della polizia segreta)". Corsi a cercare mia madre e glielo dissi. Non mi credette. Quindi tornammo alla macchina. Uno dei barbuti si avvicinò e bussò al finestrino con le nocche della mano. Abbassai il finestrino. "Sono del Ministero dell´Interno", ci disse. Ci chiesero le nostre generalità. Demmo i nostri nomi falsi. Si mise al posto di guida e il vicino che ci accompagnava dovette sedersi sul sedile a fianco. Io sedetti sulle sue ginocchia. Dietro salirono mia madre, la moglie del vicino e una donna poliziotto. Ero morto di paura. Ci portarono alla prigione di Aaricha.
Appena arrivati a destinazione mi separarono da mia madre. Mi fecero entrare in un ufficio dove c´erano coca-cola, shawarma [i tipici panini arabi: pane pita con sottili fettine di agnello ndr] e dolciumi. Cominciarono a farmi domande. Parlavo a ruota libera. Raccontai qualsiasi cosa. Più tardi, quando rividi mia madre, la sentii pronunciare il suo vero nome di fronte ai poliziotti. Fu una mazzata. In quel momento non capii che stava confessando una parte della verità per cercare di guadagnare tempo, perché mio padre e mio fratello potessero scappare dalla casa dove vivevamo a Riad prima che vi irrompessero i mojabarats. Uno degli agenti allora mi urlò impazzito: "Ci hai mentito!" Quella notte non cenai. Avevo paura che mi avvelenassero. Ci misero in una grande stanza. Piansi molto sotto le lenzuola. Ebbi degli incubi.
Alle otto del mattino mi fecero delle foto di profilo, di fronte e perfino della nuca. Mi misurarono, mi pesarono e mi presero le impronte digitali. Quel giorno comparve nella nostra stanza-cella un uomo il cui aspetto esteriore mi fece credere che appartenesse ad Al Qaeda. Le sue maniere erano gentili. Mi portò degli abiti nuovi, dei succhi di frutta, una lavagna, un gioco del Lego e un computer per bambini per l´apprendimento del Corano, del quale io sapevo già a memoria 43 capitoli. Più tardi sapemmo, tramite i nostri vigilanti, che era il generale Ghanati, il capo della polizia segreta.
Due mesi dopo essere entrati in prigione, la nostra situazione si aggravò. Le nostre carceriere diventarono arroganti, chiudevano a chiave la porta della stanza e si portarono via perfino il condizionatore d´aria. Dopo 80 giorni di detenzione, ci fecero raccogliere le nostre cose e ci misero in una macchina che mia madre chiamava il "veicolo tomba". Da fuori, era una macchina allungata che sembrava normale. Dentro era una piccola tomba, insonorizzata e senza finestre. All´interno, il caldo era soffocante. Dopo una mezz´ora arrivammo al nostro nuovo carcere. La nostra cella era enorme, un centinaio di metri quadrati, e c´erano diversi letti di cemento con materassi di gommapiuma, un tavolo di cemento circondato da sgabelli metallici inchiodati per terra. Sembrava un cimitero con il tetto. Sedici lunghe lampade al neon lo illuminavano 24 ore al giorno. Tra la temperatura esterna, il neon e la mancanza di aria condizionata, era un forno pestilenziale.
Trascorse una settimana finché ci fecero di nuovo salire sul "veicolo tomba" che ci depositò davanti alle porte della sala Vip di un aeroporto. Il piccolo aereo della Saudia al quale ci condussero era di lusso. Dopo il decollo ci servirono un pasto abbondante con piatti a scelta e autentiche posate, ma senza coltelli. Pensavo che stessimo tornando a casa, che presto avrei rivisto i miei nonni. Dormii fino al nostro arrivo, a tarda notte. Il risveglio fu brutale. Appena scesi dalla scaletta, diversi tipi mi si buttarono addosso come nei film e uno mi prese per le spalle e mi infilò in una macchina. "Applicheremo la legge", ci dissero, una volta dentro. Ci bendarono gli occhi. Mi trovavo in Marocco. Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia.
Di nuovo in una cella afosa in piena estate, ma molto più piccola di quella di Riad. Non passava giorno senza che mia madre non implorasse i guardiani di lasciarmi uscire, di lasciarmi andare dai miei nonni paterni. Non dicevano mai di no. "Sì, tra 48 ore", "sì, tra una settimana", rispondevano. Col passare dei giorni, diventavo irascibile. Avevo una metamorfosi. Giunsi a picchiare mia madre con un giocattolo che mi aveva regalato. Lei gridava e batteva i pugni sulla porta pregando che mi facessero uscire dalla cella. Poi mi calmavo e le chiedevo scusa. I nostri carcerieri avevano fatto di tutto per demolirci, ma adesso che eravamo distrutti preferivano che ci finissimo da soli fuori da lì.
"Fra ventiquattro ore sarete liberi", disse finalmente il responsabile a mia madre, ricevendoci nel suo ufficio. "Le conviene mantenere il segreto su tutto ciò che è successo in questi mesi", la avvertì. Io sapevo che in carcere si soffriva molto, ma non sapevo che fuori si può soffrire anche di più. Non volevamo tornare nel nostro appartamento nel quartiere di Gauthier (Casablanca), perché ci ricordava mio padre e mio fratello. Non ci fu altro rimedio che tornare lì. La famiglia non era molto disposta ad accoglierci. Riposi tutte le mie speranze in mio nonno, ma mi ha deluso. Non ha nemmeno risposto al telefonino le volte che l´ho chiamato. Non solo la famiglia ci rifiuta. Anche la società. Nessuno si fida di noi. Se fossi rimasto in carcere, forse mi sarei suicidato. Quelli che parlano di guerra contro il terrorismo non sanno che seminano vento e raccoglieranno tempesta. Il mondo deve sapere che cosa pensa uno di quei bambini a cui hanno rubato l´infanzia e l´innocenza e che Al Qaeda invece rispettava quando abitavamo in Afghanistan. Piango tutte le notti. Il mio unico padre sulla terra ora è Osama Bin Laden. Lotterò come un valoroso muyahid, mi uccideranno e così presto raggiungerò mio padre».
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