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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Tg 1 Rassegna Stampa
17.12.2007 I cristiani del Medio Oriente in fuga dal fondamentalismo
e Franco Cardini pensa bene di rimpiangere l'impero ottomano

Testata:La Stampa - Tg 1
Autore: Francesca Paci - la redazione - Giordano Stabile
Titolo: «C'era una volta il Libano cristiano - intervista a padre Pizzaballa - Stavano più in pace ai tempi dei crociati»

Dalla STAMPA del 17 dicembre 2007, un articolo di Francesca Paci sulla situazione dei cristiani in Libano:

Padre Francisco riordina lento l’altare moderno di Notre Dame de Ouardiye, Nostra Signora del Rosario. La messa vespertina del sabato è appena terminata. Una trentina di uomini e donne sui sessanta esce dalla chiesa segnandosi con la croce. «Li ha contati? È quel che resta dei maroniti in questa parte della città, qualcuno non è nemmeno di qui», mormora l’anziano parroco, lunga barba bianca e sguardo ieratico come il ritratto alle sue spalle, san Charbel Makhlouf, il monaco libanese santificato da Paolo VI nel 1977 «per le virtù eroiche». Minato dagli attentanti, concede padre Francisco, il mito del Paese dei Cedri serenamente multiconfessionale scricchiola: «Nell’89 portai a Papa Wojtyla una bandiera libanese da benedire e lui mi disse di aver fede, Dio non ci avrebbe abbandonato. Siamo l’ultimo focolaio cristiano vivo del Medioriente, l’eco del messaggio di Gesù». Intorno al campanile avvolto dagli alberi si accendono le luci di Hamra, il quartiere musulmano sunnita, locali di tendenza, la pizzeria italiana, negozi come Cedence con scarpe da 690 mila lire libanesi, circa 430 euro. Sunniti e cristiani, la fetta più facoltosa della popolazione libanese, sono sempre stati amici, vicini di casa, alleati politici in funzione anti-sciita. Eppure, negli ultimi anni, la polarizzazione di Beirut in zone religiosamente omogenee si è accentuata: a Ovest i sunniti; a Est i cristiani; nella periferia Sud, carretti di mandarini e ovunque le foto dei martiri caduti nella guerra infinita contro Israele, gli sciiti.
«L’elezione del presidente libanese non è solo una questione interna, riguarda il futuro dei cristiani nella regione», osserva Samir Frangie, deputato maronita indipendente della maggioranza, un giurista vicino al Patriarca Nasrallah Sfeir. Dal 24 novembre il Libano fronteggia un grave vuoto istituzionale: scaduto il mandato dell’ex Capo dello Stato, il filosiriano Emile Lahud, il Parlamento non ha ancora nominato il successore. In teoria maggioranza e opposizione sono d’accordo sul nome del generale Michel Suleiman, comandante delle Forze Armate, ma dietro le quinte si cela lo scontro violento per il controllo dello Stato che mercoledì ha fatto l’ennesima vittima, il generale el-Hajj, maronita, favorito alla successione eventuale di Suleiman.
La storica ripartizione dei poteri nel Paese dei Cedri prevede che il presidente sia cristiano, il primo ministro sunnita, il capo della Camera sciita. A essere in discussione oggi, sostiene Samir Frangie, è un equilibrio più complesso di quello religioso: «C’è un Libano, erede della rivoluzione del 2005 e del ritiro siriano, che vuole aprirsi al mondo, Israele e Stati Uniti compresi. E ce n’è uno che ambisce alla guerra permanente. Le nostre due anime combattono la sfida del secolo». Fino a pochi mesi fa Frangie abitava nel quartiere sciita Maralies, ora vive a Clemenceau, alle spalle dell’Hotel Phoenicia e del lungomare controllato da due carri armati, un bell’appartamento con la porta corazzata e le finestre blindate.
«Sono spaventato, se non nominano il presidente a breve potrebbe accadere di tutto», ammette Issa Mikhael, 65 anni, ex dipendente della Bonjour: accompagna le nipotine al presepe di gesso in piazza Sassine, il cuore del quartiere cristiano di Achrafiye, dove vivono maroniti, greco-cattolici, armeni, ortodossi della parrocchia dell’Annunciazione. Un isolato più avanti, all’angolo con il viale intitolato all’eroe antisiriano Bashir Gemayel, tre giovani seduti al tavolino del Caffè Starbuck discutono intorno al quotidiano L’Orient-Le Jour. «Siamo il campo di battaglia su cui si affrontano l’Iran, con il suo vassallo siriano, e l’Arabia Saudita», afferma Leon Asfar, 30 anni, manager della Nestlé. Metà della sua famiglia è in fuga in Canada, Francia, Stati Uniti: «Nel ’75 i cristiani erano il 50% della popolazione, oggi il 31%. Ovvio, abbiamo un tasso di natalità del 2% contro il 7% dei musulmani e l’11,2% dei palestinesi. Se le ambasciate straniere fossero più generose ce ne andremmo tutti». L’amico Avedis Calowan, 27 anni, laurea in business, è in partenza: «Vado nel Golfo, è più facile trovare lavoro. Almeno non ti chiedono da che villaggio vieni e cosa preghi». Dice che dal 2001 le aziende musulmane non prendono più cristiani e viceversa: «Loro però sono sempre di più e stanno occupando i posti chiave dell’economia».
La tensione c’è, i dettagli la raccontano meglio dei militari in mimetica qua e là. Beirut non si scompone per un po’ scenografia bellica: una delle top-discoteche, seppur meno gettonata di qualche anno fa, resta il BO18, un bunker interrato un paio di chilometri a Est della città che durante la guerra era una camera di tortura: luci cupe, musica punk, mood decadente.
«I titoli più richiesti per le strenne natalizie suggeriscono qualcosa, pare si leggano solo saggi di questi tempi», nota Nancy Azuri, solare commessa della libreria Antoine. In testa c’è «La maad aula Murshidiia», un trattato sui guardiani della rivoluzione iraniana, seguito da «La mia visione del Libano» del generale Michael Aoun, maronita, leader della Corrente Patriottica Unita, l’unico partito cristiano all’opposizione insieme a Hezbollah. Al terzo posto c’è «Les hommes debout», la storia dei fenici, eredità culturale che i cristiani riscoprono in contrapposizione a quella assiro-babilonese. Nancy è convinta che il suo mondo si restringa a vista d’occhio: «Prima, da cristiana mediorientale, potevo vivere in Libano, poi a Beirut, adesso forse solo qui ad Achrafiye...».
Ali Fayad, responsabile del Centro Studi di Hezbollah, si affanna a ripetere che «non ci sono problemi, cristiani e sciiti sono sempre andati d’accordo, la forza di destabilizzazione viene da fuori».
I cristiani sono preoccupati. Sentono la pressione esterna ma anziché a Tel Aviv, dove indicano i leader sciiti, guardano con ansia a Damasco. E si segnano con la croce.

Al TG 1 delle 13 del 17 dicembre padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, ha parlato della difficile situazione dei cristiani arabi, ridotti all'1% della popolazione dal fondamentalismo.

Sempre sulla STAMPA, Giovanni Stabile intervista Franco Cardini che dimenticando discriminazioni e vere e proprie persecuzioni dipinge l'impero ottomano come un modello di convivenza tra religioni diverse. I problemi del Medio Oriente derioverebbero, secondo lo schema ideologico di Cardini dalla "corsa ad accaparrarsi le risorse energetiche".
Il fondamentalismo

Ecco il testo:

«Il Libano cristiano come gli Stati crociati del XIII secolo? Magari. Erano Stati prosperi, tra i più ricchi del mondo di allora. E vivevano tutto sommato in pace. Qualche guerra, d’accordo, qualche crociata, ma a bassa intensità, fatte più di tregue che di battaglie. E con gli affari, gli scambi, che frattempo andavano avanti». Franco Cardini, professore di Storia medievale all’Università di Firenze, diffida degli accostamenti troppo suggestivi. Certo, i cristiani libanesi di oggi, specie i maroniti, guardano all’Occidente, soprattutto alla Francia come garanzia ultima della loro sopravvivenza. E quelle isole di cristianità che si assottigliavano nel mare arabo-musulmano rimandano in qualche modo alla situazione di oggi. «Ma attenti a non usare la storia strumentalmente - avverte il professore -. Perché può ritorcersi contro».
Non è negli Stati crociati medievali che dobbiamo cercare le radici del Libano cristiano di oggi?
«Quel legame storico-culturale fu rispolverato - e in parte inventato - da Napoleone III alla metà dell’Ottocento. All’imperatore francese interessava espandere l’influenza del suo Paese nel Mediterraneo orientale e mise le mani avanti con la Gran Bretagna: quando il grande malato d’Europa, cioè l’Impero ottomano, fosse crollato, Siria e Libano sarebbero toccate alla Francia, in nome dei secolari interessi che risalivano alle crociate guidate dall’aristocrazia d’Oltralpe. Ma era un legame pretestuoso».
Perché?
«Perché in mezzo ci stavano sei secoli, dal crollo dell’ultimo Stato crociato - con la presa di San Giovanni d’Acri nel 1291 - alla Prima guerra mondiale in cui le minoranze cristiane in Terrasanta vissero tutto sommato tranquille, prima sotto il dominio dei Mamelucchi e poi, dal 1517, dei turchi. I pellegrinaggi a Gerusalemme non si sono mai interrotti, neanche durante le guerre ottomane in Europa, anche perché al sultano di Istanbul rendevano bene».
E il Libano?
«I cristiani libanesi, quando guardavano all’Occidente, almeno fino a tutto Settecento, guardavano piuttosto a Genova che alla Francia. Gubayl (Gibelletto) fu colonia genovese dal 1109 al 1291. e anche dopo i commerci continuarono. E’ con l’irrompere dei francesi, prima con missioni e investimenti, poi con i mandati del primo dopoguerra, che si forma un’identità nazionale moderna, più conflittuale».
Meglio il sultano?
«Non dimentichiamo che si diceva che le cinque dita del sultano fossero i turchi, gli arabi, gli armeni, gli ebrei e i maroniti. Come vede i musulmani erano in minoranza».
Il conflitto attuale è allora tutta colpa del nazionalismo moderno?
«Il problema della modernità è che negli ultimi due secoli, mentre la storia è progredita in maniera aritmetica, la tecnologia, la finanza, e la corsa ad accaparrarsi le risorse energetiche (su tutte il petrolio) è progredita in maniera geometrica».
Che impatto ha avuto sulla regione?
«Da regione stabile, anche se impoverita dallo spostarsi dei commerci dopo la scoperta dell’America, è diventata il crocevia degli interessi mondiali. L’equilibrio è saltato. E’ inutile guardare alla storia come possibile modello interpretativo. Anche il fondamentalismo islamico, con tutto il suo richiamarsi al passato, alla tradizione, è una risposta modernissima all’attuale lotta di potere tra Occidente e resto del mondo. Una guerra asimmetrica di chi non ha gli strumenti militari, ma ha di certo quelli culturali, per misurarsi con la sfida della modernità».

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