Da pagina 17 del 13 dicembre 2007, un'intervista di Maurizio Molinari a Lawrence Eagleburger, ex Segretario di Stato di Bush padre, sull'assassinio del generale maronita François al-Hajj a Beirut:
La Casa Bianca «condanna con forza» l’assassinio del generale maronita François al-Hajj a Beirut, assicurando «sostegno al Libano» contro «chi tenta di minarne sicurezza e libertà» ostacolando l’elezione del nuovo presidente. Dietro la presa di posizione americana c’è «il rischio di una retromarcia nelle relazioni fra Washington e Damasco» afferma Lawrence Eagleburger, ex Segretario di Stato di Bush padre, secondo il quale negli ultimi tempi vi sono stati numerosi sviluppi positivi.
Perché parla di retromarcia?
«La leadership politica siriana ha fatto avere agli Stati Uniti, nelle ultime settimane, segnali di apertura».
Fa riferimento all’invio di un alto rappresentante di Damasco alla conferenza di pace di Annapolis sul Medio Oriente?
«Certo, ma non solo a quello. Quanto fatto di recente dalla Siria, anche sul fronte iracheno, ci ha fatto supporre la possibilità di un distacco di Damasco dall’alleanza con l’Iran di Ahmadinejad».
E ora quali opzioni ha il presidente George W. Bush, che a inizio gennaio si recherà in visita in Medio Oriente?
«Molto dipende dalle indagini sull’assassinio del generale François al-Hajj. Se dovessero portare ad appurare una responsabilità del potere politico siriano quanto di positivo avvenuto negli ultimi tempi verrebbe cancellato e potrebbero esservi delle conseguenze. In caso contrario non escludo che Bush possa invece procedere nell’inviare ulteriori segnali di apertura a Damasco per consolidare i segnali di schiarita, penso per esempio alle relazioni economiche».
Insomma, lei sta dicendo che la sorte della schiarita nelle relazioni con Damasco dipende da chi ha ordinato l’attentato di Beirut...
«Ancora non sappiamo chi lo ha compiuto e voluto. Non possiamo escludere che si tratti di forze interne al Libano, di fazioni ostili a questo generale o comunque interessate a tenere Damasco lontana da Washington. Come non possiamo escludere a priori il coinvolgimento diretto di Damasco di cui hanno parlato alcuni leader libanesi. Se il ruolo politico della Siria sarà dimostrato le ripercussioni da parte degli Stati Uniti si faranno sentire».
Quanta importanza assegna ai segnali di apertura che sono stati inviati da Damasco a Washington nelle ultime settimane?
«Potrà sembrare strano ad alcuni, ma sono fra quelli che ritengono possibile l’apertura e il successo di un negoziato di pace fra Siria e Israele, parallelamente a quello lanciato ad Annapolis fra israeliani e palestinesi. È una questione di volontà politica e se Damasco dimostra di averla si può innescare un volano di eventi positivi per su tutta la regione. Adesso però questo attentato rischia di portare indietro le lancette, rimette in discussione l’ipotesi di un distacco di Damasco dall’alleato iraniano».
Due analisi dal FOGLIO che spiegano perché i sospetti si concentrano sulla Siria e su Al Qaeda:
Beirut. A prima vista è un centro perfetto. Per vendicarsi, Fatah al Islam poteva soltanto mirare a lui. François Hajj, cinquantacinquenne generale maronita dilaniato ieri mattina da un’autobomba assieme alla sua guardia del corpo, era il simbolo della vittoria di Nahr El Bared, il protagonista e lo stratega della sconfitta delle milizie qaidiste arroccate nel campo profughi palestinese alla periferia di Tripoli. Durante l’assedio prolungatosi dal 20 maggio al primo di settembre, il generale non si era limitato ai suoi compiti di numero due dell’esercito e di responsabile delle operazioni. Aveva seguito di persona ogni fase dell’attacco, discusso e approvato tutte le operazioni conclusesi con la sconfitta dei miliziani qaidisti. Era diventato il simbolo della riscossa dell’Armée libanese dopo tre lustri di oblio. Meglio di lui aveva fatto soltanto l’attento e vigile capo Michel Suleiman trasformatosi, non a caso, nel candidato più quotato alla presidenza libanese. Ma proprio questo intreccio di destini scompagina tutte le apparenti certezze. Oltre a essere nel mirino di Fatah al Islam, il generale Hajj era anche il successore ideale di Suleiman. Inserendo lui al proprio posto il generale, futuro presidente, avrebbe avuto la garanzia di un esercito pronto a seguirlo. Senza Hajj, Suleiman è un candidato assai più solo e assai meno sicuro. La confusione e i sospetti generati dal primo attentato contro un generale rischiano ora di far saltare anche la convocazione del Parlamento fissata per il 17 dicembre. A quel punto il paese potrebbe restare senza presidente fino a marzo, quando l’assemblea riprenderà i lavori dopo la tradizionale pausa d’inizio anno. Secondo alcuni osservatori chi ha piazzato un’autobomba nella sorvegliatissima zona del palazzo presidenziale di Baabda puntava anche a questo. Lunedì mattina i deputati di maggioranza e opposizione dovevano spianare la strada all’elezione di Suleiman, modificando quell’articolo della Costituzione che impedisce l’elezione di un generale entro due anni dalle sue dimissioni. L’apparente intesa tra la maggioranza fedele al governo di Fouad Siniora e l’opposizione filosiriana è saltata quando Hezbollah è tornato a chiedere lo scioglimento dell’esecutivo o il controllo dei ministeri di Esteri, Giustizia, Sicurezza interna. Fedele al “refrain” intonato fin dal novembre 2006, quando si ritirò dall’esecutivo, il Partito di Dio accusa il governo Siniora di non rispecchiare l’assetto confessionale del paese e di essere quindi costituzionalmente illegale. Il calcio al tavolo delle trattative assestato da Nasrallah e compagnia stavolta scompagina soprattutto i piani siriani. O almeno i piani di quella parte dell’establishment siriano pronto a sacrificare l’ex generale Michel Aoun e a privilegiare l’accordo sul nome di Suleiman raggiunto – si dice – d’intesa con Francia, Stati Uniti e Arabia Saudita. Quell’accordo segreto è per Teheran, e di conseguenza per Hezbollah, il sintomo di un progressivo tradimento iniziato con la partecipazione al vertice di Annapolis. Per Damasco è invece la soluzione ideale. Garantisce il controllo della presidenza libanese e lascia spazio per una trattativa con Stati Uniti e Israele sul Golan. Il generale Suleiman, nominato a suo tempo con il beneplacito di Hafez Assad, è il candidato ideale. E’ rimasto fedele ai padroni di Damasco sino a quando hanno controllato il paese. E’ stato abbastanza riconoscente e prudente da evitare un’eccessiva collusione con il nuovo governo, quando la “grande madre siriana” ha dovuto ritirarsi. E’ insomma il perfetto gattopardo in grado di arrivare al potere, ma incapace di affrancarsi del tutto dal controllo dei vecchi mentori. In questo scenario la liquidazione del generale Hajj è l’elemento capace di fare la differenza. Senza Hajj, il Libano non ha soltanto bisogno di un presidente, ma anche di un generale in grado di garantirgli la fedeltà dell’esercito. Insomma c’è bisogno di altro tempo. Il tempo necessario a Teheran e a Hezbollah per riportare all’ovile la smarrita pecorella siriana.
Contro un paese indipendente e sovrano. Erano le sette e dieci del mattino, ieri, quando una forte detonazione ha sconvolto il quartiere libanese di Baabda. Una volta, in quella zona, c’era anche la residenza dell’ambasciatore americano (Reginald Bartholomew, negli anni Ottanta, fu ferito da un bombardamento), oggi in quell’area di Beirut si trovano il palazzo presidenziale, la sede del ministero della Difesa e di tutti gli uffici della sicurezza. L’ordigno – 30 chili di tritolo sofisticato, già usato in altri attentati – ha ucciso il generale François al Hajj, cristiano maronita, destinato a succedere al capo di stato maggiore della Difesa, il generale Michel Suleiman, nel caso in cui l’alto ufficiale fosse stato eletto presidente. Hajj, uomo di grande coraggio e determinazione, era ben noto a Foggy Bottom, al Pentagono e a Langley. L’Amministrazione aveva apprezzato la lunga lotta, durata 15 settimane, condotta dal defunto generale e dai suoi soldati contro i terroristi di Fatah al Islam, legata ad al Qaida, asserragliati nel campo profughi palestinese di Nahr el Bared. Il primo rapporto arrivato a Foggy Bottom dall’ambasciata di Beirut, e firmato dal numero due Bill Grant, vicecapo missione (l’ambasciatore Jeffrey Feltman era appena partito per le vacanze di Natale), lega l’uccisione di Hajj anche ai fatti di el Bared, oltre che alla continua attività di destabilizzazione dei siriani. Sta scritto nel rapporto che il crimine è un altro attacco contro coloro che vogliono mantenere il Libano indipendente e sovrano. Non a caso si uccide, da Hariri in poi, chi lavora per difendere il Libano dai nemici esterni. Il generale Hajj, in ottime relazioni con americani e francesi, era stimato in Libano. Colpendo lui, si è voluto colpire un’istituzione rispettata per la sua neutralità, ovvero la Difesa. Un messaggio ai militari libanesi. Qualcuno al Pentagono, dove il generale era molto conosciuto, ritiene che la strage sia di fatto un messaggio ai militari. Soprattutto dopo che un compromesso è stato trovato sul nome del futuro presidente libanese, Suleiman, gradito tanto agli Stati Uniti quanto ai sauditi quanto a Hezbollah. Ma nel pomeriggio di martedì il Parlamento libanese aveva deciso di bloccare la nomina e di rinviarla. Gli americani, contrariamente agli europei, non sono mai stati troppo ottimisti sulla soluzione data alla vicenda libanese. Soprattutto dopo la dichiarazione fatta martedì, nel corso di un convegno riservato a Damasco, dal vicepresidente siriano Faruk al Shara, l’uomo che per conto degli Assad si è sempre occupato del Libano, attentati compresi, secondo israeliani e americani: “Gli amici e gli alleati della Siria oggi in Libano sono più forti e più potenti che mai”, e aveva lanciato un siluro contro l’intesa: “Prima di eleggere il presidente occorrerà discutere del prossimo primo ministro”. Ovvero: “sì” della Siria al generale Suleiman, ma via il premier Fouad Siniora, amico di occidentali, americani e sauditi. La dinamica. Martedì notte i rapporti diplomatici occidentali parlavano di interferenza siriana, di mobilitazione degli amici di Damasco, di paura del presidente Berri, di una talpa nell’entourage del generale, che aveva deciso di cambiare percorso. A Foggy Bottom si guarda a Damasco, visto che deputati sunniti, maroniti e drusi vivono rinchiusi in un albergo blindato per sfuggire a una morte certa. Ma alla Cia qualcuno ha aperto il dossier al Qaida in Libano. L’attentato è stato organizzato con tecnica perfetta in una zona sorvegliata: occorrevano logistica accurata, protezioni, complicità, operazione più facile per i siriani ma non impossibile per al Qaida. Scarsi i sospetti americani sull’Iran, visto che Hezbollah aveva ottimi rapporti con Hajj e li ha con Suleiman.
Notevole uno dei pezzi con i quali Il MANIFESTO affronta la vicenda: un'intervista a una redattrice della telvisione di Hezbollah (nota per i suoi programmi antisemiti).
Prevedibilmente Leila Mazboudi accusa per l' omicidio Israele e gli Stait Uniti, senza che le venga richiesto di spiegare su quali basi lo faccia.
Nessun tentennamento dell'intervistatrice, Geraldina Colotti, nemmeno quando Mazboudi afferma che Hezbollah appoggia le operazioni "militari di resistenza" contro l'occupante in Palestina, ma condanna "qualunque attentato contro i civili". Visto che la "resistenza" palestinese ha sistematicamente colpito i civili israeliani, significa che in Israele non ci sono civili.
L'argomento viene lasciato cadere
La domanda successiva è invece Quale spazio c'è per le donne in Hezbollah? .
Ecco il testo completo, da pagina 11:
Leila Mazboudi, caporedattrice della televisione di Hezbollah, Al Manar, è a Roma per partecipare al convegno Medlink (14-16 dicembre), organizzato da Arci, Fiom-Cgil, Un ponte Per... Con lei abbiamo parlato dei drammatici avvenimenti libanesi. A cinque giorni dalla data per l'elezione del nuovo presidente, un altro attentato. A chi giova?
Il generale Francois el Hajj era vicino al generale Aoun, del blocco del cambiamento e della riforma, e amico del generale Michel Suleiman, il candidato alla presidenza del Libano, nonché suo probabile successore come capo dell'esercito. Da un anno la maggioranza rifiuta ogni proposta avanzata dal blocco dell'opposizione, c'è un consenso sulla candidatura del presidente, ma non sulla formazione del nuovo governo. Questo assassinio è dunque prima di tutto un colpo contro Suleiman e un colpo all'unità dell'opposizione che chiede un governo di unità nazionale. Se il 17 non si troverà un accordo nell'ultima sessione ordinaria del Parlamento, bisognerà attendere quella straordinaria, prevista per marzo, rimarremo nell'incertezza. Da noi c'è sempre un attentato al momento giusto. Un'altra ipotesi chiama in causa al Quaeda, perché Hajj ha guidato le operazioni militari contro le milizie integraliste di Fatah al-Islam nel campo profughi palestinese di Nahr el-Bared.Quello che però non quadra è che, su 18 attentati compiuti in Libano dal 2005, per la prima volta una personalità militare viene colpita in una zona ad alta sorveglianza militare. Possibile che una forza esterna al paese disponga di una simile potenza di fuoco e di così tanti mezzi logistici e riesca a farla franca nonostante la presenza di tanti servizi segreti e della Finul? Siamo più portati a pensare che si tratti di forze perniciose che vogliono la destabilizzazione del Libano, magari un'alleanza Usa-Israele. Questa volta, neanche la maggioranza ha gettato la croce sulla Siria senza riserve, perché vengono colpiti gli interessi dell'opposizione.
Al Quaeda ha rivendicato gli attentati in Algeria e si candida come difensore dell'orgoglio arabo-islamico contro l'Occidente. Qual è la posizione di Hezbollah? Hezbollah sostiene le azioni militari di resistenza contro l'occupante, contro obiettivi militari in Iraq, in Afghanistan, in Palestina, ma considera un'aberrazione qualunque attentato contro i civili. E poi chi sono questi gruppi per accusare altre forze islamiche di apostasia? Ci sono forti sospetti che siano infiltrati dai servizi segreti Usa, soprattutto in Afghanistan. L'islam di Hezbollah sostiene la diversità culturale e politica. Al Manar sostiene la resistenza di tutti gli oppressi del mondo, siamo terzomondisti e altermondialisti. La «mezzaluna sciita» agitata da Bush è uno spauracchio che non corrisponde alla realtà. In gioco, per noi, non ci sono questioni etniche - sciiti contro sunniti, cristiani contro musulmani e via dicendo - ma la necessità di impedire la presa esterna sulle nostre ricchezze e sulla nostra regione. Gli Usa hanno appena venduto ai paesi del Golfo persico armi per 10 miliardi di dollari facendo leva sulla paura dell'Iran e del suo presunto uso del nucleare militare. Anche a dispetto dei rapporti degli stessi servizi segreti secondo i quali l'Iran ha smesso il programma di ricerca nucleare. Fomentare la paura serve a Bush per accrescere l'industria bellica con l'aumento del prezzo del petrolio.
Quale spazio c'è per le donne in Hezbollah?
Abbiamo proposto un cambiamento dello statuto interno, che conteneva norme tradizionaliste, che proibivano la partecipazione femminile ad alcuni settori della vita politica. Prima non era stato possibile farlo perché la priorità era necessariamente quella della lotta contro l'occupazione militare. In Afghanistan l'avanzata dell'islam ha rinchiuso e soffocato le donne, in altri paesi come l'Iran, che conosco bene, oggi non è così. In Libano oggi abbiamo ottime relazioni con le donne del Partito comunista, e obiettivi comuni: fare gli interessi delle classi popolari, e soprattutto preservare la resistenza nella sua forma logistica, militare e organizzativa. Hezbollah non è una milizia, ma un movimento di resistenza popolare che ha permesso al paese di difendersi e smetterà di esistere quando cesserà l'aggressione israeliana. Un proverbio dice: la forza del Libano è nella sua debolezza. Noi diciamo: la forza del Libano, è nella sua forza.
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