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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Avvenire - L'Unità - Il Manifesto Rassegna Stampa
04.12.2007 Israele è il cattivo del Medio Oriente
tre varianti di uno stesso copione

Testata:Avvenire - L'Unità - Il Manifesto
Autore: Barbara Uglietti - Robert Fisk - Michele Giorgio
Titolo: «Israele tra aperture e raid Torna la rabbia dei coloni - Annapolis? Il solito film - Gaza in coma. Liberi 429 prigionieri»

Israele libera i "prigionieri" (detenuti per terrorismo) palestinesi, ma compie raid che, senza alcun riferimento ai lanci di razzi kassam che li hanno resi necessari, appaiono come immotivate provocazioni.
Nella cronaca di Barbara Uglietti pubblicata da AVVENIRE del 4 dicembre 2007.


U n passo avanti, uno indietro. Il cammino i­niziato ad Annapolis procede con il passo del gambero.
  Il premier israeliano Ehud Olmert ha mantenuto la promessa fatta prima della Conferenza negli Stati U­niti e ha liberato 429 prigionieri palestinesi. Ma il ge­sto di apertura nei confronti del presidente Abu Ma­zen (che con lui ha firmato l’intesa) è stato accom­pagnato da nuovi raid a Gaza che hanno alimenta­to tensioni ulteriori dopo le voci che, nei giorni scor­si, davano per probabile un’operazione militare di va­sta portata nella Striscia. Era stato il capo di Stato
maggiore israeliano Gaby Askenazy a effettuare un sopralluogo ai confini con la Striscia per valutare l’opportunità di un nuovo intervento: mossa «non e­sclusa » dal ministro della Difesa Ehud Barak. La gen­te di Gaza ha passato il fine settimana a fare scorte alimentari nel timore di un nuovo assedio.
  Ma Israele, che dopo Annapolis pesa con attenzio­ne ogni mossa, ha scelto per ora di attendere, “limi­tandosi” ad alcuni raid: due quelli di ieri in cui rimasti uccisi quattro miliziani. Il braccio armato della Jihad islamica ha fatto la voce grossa, dicendo di essere pronto a reagire a un’invasione israeliana con «70 uomini bomba». Tutto questo, nelle stesse ore in cui poco più nord, in Cigiordania, si completava il rila­scio dei detenuti.
  Gli uomini, quasi tutti del Fatah (la fazione del pre­sidente Abu Mazen) e tutti con condanne inferiori ai dieci anni, hanno lasciato di prima mattina la pri­gione di Ketziot, nel deserto del Negev, e sono stati portati in autobus a Ramallah (Cisgiordania), dove erano attesi da migliaia di parenti in festa (una ven­tina di detenuti sono stati invece accompagnati nel­la Striscia). Non c’era però ad accoglierli Abu Ma­zen, che sembra abbia voluto esprimere con la sua
assenza la delusione per il basso numero di prigio­nieri rilasciati (aveva chiesto a Olmert la liberazione di almeno altri duemila). Ad esprimere malconten­to è stato poi il “primo” dei detenuti palestinesi, il lea­der del Fatah Marwan Barghouti (che sta scontan­do cinque ergastoli in Israele), che ha bollato il ge­sto di Olmert come una «beffa» perché, ha detto, «la maggior parte degli uomini rimessi in libertà sareb­be uscita ugualmente nei prossimi mesi».
  Ma l’apertura del premier israeliano è piaciuta po­co anche in casa sua: «Libera i terroristi e poi li ar­ma », hanno accusato i coloni. E si sono messi sul piede di guerra anche per un’altra questione: quel­la che riguarda l’uccisione di un israeliano a Nablus (Cisgiordania) due settimane fa. L’altra notte è stato confermato che a uccidere quell’uomo sono stati propri gli agenti delle forze di sicurezza dell’Anp, che rispondono ad Abu Mazen, e i coloni hanno accu­sato Olmert di aver «nascosto la notizia» per non pre­giudicare l’esito del vertice di Annapolis, dove il pre­mier e Abu Mazen sedevano fianco a fianco. E intanto il governo israeliano ha congelato la consegna (an­nunciata prima del Vertice) alle Forze dell’Anp di cin­que blindati destinati a mantenere l’ordine.

Da L' UNITA', un articolo di Robert Fisk che dà la colpa del mancato raggiungimento della pace a Israele, dimenticando tanto il mancato riconoscimento del suo diritto ad esistere come Stato ebraico quanto il terrorismo che lo minaccia.
Anche gli Stati Uniti hanno la responsabilità di non concedere alla Siria di imporre il proprio dominio sul Libano e di "minacciare" l'Iran (che gli ingenui pensano sia la vera minaccia nella regione mediorentale, con la sua ambizione di cancellare Israele dalla carta geografica e con il suo sostegno al terrorismo)  :
 

Ma non ci siamo già stati da queste parti? Annapolis non è stata per caso la replica del prato della Casa Bianca e degli accordi di Oslo con una serie di pie dichiarazioni e promesse che vede due uomini deboli, Abu Mazen e Olmert, usare quasi le stesse parole di Oslo?
«È ora di porre fine al ciclo di sangue, violenza e occupazione», ha detto la scorsa settimana il presidente palestinese Abu Mazen. Ma a me pare di ricordare Yitzhak Rabin dire sul prato della Casa Bianca «è ora di porre fine al ciclo di sangue...». O forse la memoria mi gioca un brutto scherzo?Però non si parla di Gerusalemme come capitale palestinese e israeliana. E se Israele ottiene il pieno riconoscimento dello Stato israeliano - e le cose non possono che stare in questi termini - non può esservi alcun “diritto di rimpatrio” per le centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti (o le cui famiglie fuggirono) da quella terra che nel 1948 divenne Israele.
E cosa dovrei pensare del brano che segue tratto dalla dichiarazione congiunta: «il comitato direttivo formulerà un piano di lavoro congiunto e supervisionerà l’operato delle delegazioni negoziali (sic) affinché affrontino tutti i temi sul tappeto e siano guidate ciascuna da un rappresentante di primo piano»? Ci risiamo?
Non è la prima volta che sentiamo parlare di comitati direttivi: e non hanno mai funzionato. Vero è che è stata fissata la data del 12 dicembre per la prima riunione di questo cosiddetto “comitato direttivo” e vero anche che il presidente Bush ha acceso la tenue speranza - infiorettata, ovviamente, dalla solita presunzione - che si arriverà ad un accordo entro il 2008. Ma come possono i palestinesi avere un loro Stato senza che Gerusalemme ne sia la capitale? Come possono avere uno Stato quando il loro territorio è stato spezzettato e diviso dagli insediamenti ebraici, dalle strade costruite dai coloni e, in parte, dalla guerra?
Ovviamente vogliamo tutti che finisca lo spargimento di sangue in Medio Oriente, ma per conseguire questo risultato gli americani avranno bisogno dell’appoggio della Siria e dell’Iran - o quanto meno del sostegno siriano per controllare Hamas - e come sarà possibile ottenerlo? Bush continua a minacciare l’Iran e ad Annapolis, il presidente Bush ha detto alla Siria che non deve immischiarsi nelle elezioni libanesi altrimenti...
Sì, è vero, Hezbollah è il fantoccio dell’Iran e sta giocando un ruolo di primo piano nell’opposizione al governo libanese. Bush e Condoleezza Rice (o, se vogliamo, Abu Mazen e Olmert) pensano veramente che avranno mano libera per un anno senza alcuna interferenza da parte degli altri attori regionali? Oltre la metà dei palestinesi che subiscono l’occupazione sono sotto il controllo di Hamas.
Leggendo i discorsi - in particolare il documento congiunto - si ha l’impressione che tutti si sforzino di illudersi e di seminare illusioni. Attualmente il Medio Oriente è un infernale disastro e il presidente degli Stati Uniti pensa di poter risolvere tutto con un colpo di bacchetta magica dimenticandosi dell’Afghanistan, dell’Iraq e dell’Iran - e del Pakistan, ben inteso. L’aspetto peggiore della messa in scena di Annapolis va individuato nel fatto che ancora una volta milioni di persone in tutto il Medio Oriente - musulmani, ebrei e cristiani - crederanno alle promesse e - quando si accorgeranno dell’ennesimo fallimento - se la prenderanno con furia contro i loro antagonisti accusandoli di non avere rispettato gli accordi.
Da oltre due anni i sauditi offrono ad Israele sicurezza e riconoscimento da parte degli Stati arabi in cambio del completo ritiro delle forze israeliane dai territori occupati. Cosa c’è che non va con questa proposta? Ehud Olmert ha promesso che «i negoziati affronteranno tutti i temi che finora sono stati evitati». Ma la frase «ritiro delle forze israeliane dai territori occupati» puramente e semplicemente non compare nel documento congiunto.
Come la maggior parte di coloro che vivono in Medio Oriente, vorrei poter credere che questi sogni diventeranno realtà. Ma non è così. Basta aspettare la fine del 2008.
The Indipendent
traduzione Carlo Antonio Biscotto
 

Michele Giorgio sul MANIFESTO annuncia ancora una volta l'imminente blocco della sanità di Gaza. I razzi kassam per il quotidiano comunista sono solo un pretesto di Israele, che dovrebbe continuare a fornire carburante sufficiente sia per il funzionamento degli ospedali, sia per i lanci di kassam. Inoltre, sarebbe secondo tenuta a liberare tutti i terroristi, senza eccezione.

Ecco il testo:


Il dottor Saverio Mannarella, responsabile per l'ong italiana Cric di un progetto per il riciclaggio di rifiuti nell'area di Beit Lahiya, ha tutto pronto per il suo lavoro. Eppure non riesce a portarlo avanti. «Il Ministero degli Affari Esteri ha approvato e finanziato il nostro progetto, l'impegno delle parti c'è, ma siamo fermi. Mancano i materiali per costruire il capannone dove trasformare i rifiuti nel compost, il fertilizzante», spiega il cooperante. Quei materiali non ci sono perché, da quando Hamas ha preso il potere a Gaza, ai valichi Israele non lascia passare merci che definisce «non essenziali». E tra qualche settimana, forse prima, Mannarella correrà il rischio di non poter neppure raggiungere i suoi colleghi a Beit Lahiya. Il carburante è un bene sempre più prezioso a Gaza dopo che l'Alta Corte di Giustizia israeliana, il 29 novembre, ha dato il via libera al piano del governo Olmert di riduzione delle forniture di gasolio e benzina alla Striscia. Un passo in linea con la decisione presa a fine settembre di dichiarare «entità nemica» questo fazzoletto di terra palestinese dove vivono 1,4 milioni di esseri umani in condizioni sempre più precarie. Senza dimenticare che i giudici israeliani non hanno fermato ma solo chiesto «chiarimenti» rispetto ad un'altra pesante decisione del governo: interrompere parzialmente le forniture di energia elettrica. «Presto il problema non sarà soltanto quello di muoversi in auto - aggiunge Mannarella - ma anche di far funzionare i generatori autonomi di elettricità. Il gasolio scarseggia e il nostro generatore già ora è in moto appena quattro ore al giorno. Quando non c'è la corrente, anche noi come il resto di Gaza siamo fermi, senza possibilità di lavorare e, ovviamente, di usare i computer e comunicare con l'esterno attraverso internet». La Bbc ha riportato la denuncia dei medici dell'ospedale Al Shifa, secondo i quali i generatori di corrente del nosocomio sono quasi esauriti, mentre domenica - dopo che il carburante destinato a Gaza era stato ridotto di 3/4, la Fuel companies association ha rifiutato la fornitura. E nella Striscia chi non ha reddito non può far altro che restare a guardare. Gaza ogni giorno ha bisogno di 300mila litri di gasolio e 120mila di benzina, Israele è disposto a fornirne rispettivamente 90mila e 20mila. Secondo Olmert e i suoi ministri, le «autorità di Gaza» devono organizzare una distribuzione razionata del carburante - a ospedali, uffici, scuole - lasciando fuori tutti gli altri e i «terroristi» che lanciano razzi. «È solo un pretesto quello dei Qassam - ha commentato il dottor Muawiya Hassanin, responsabile per i servizi di pronto intervento di Gaza - con questa misura non si colpiscono i militanti armati ma le ambulanze, gli ospedali, i mezzi di soccorso. La situazione è vicina al collasso». Senza dimenticare che il carburante serve anche a far funzionare le pompe degli impianti dell'acqua potabile e di smaltimento delle acque nere. In ogni caso mentre i civili pagano il conto, le forze armate israeliane non si trattengono certo dal colpire i militanti armati. Non passa giorno senza che le cronache riferiscano di 4-5 palestinesi uccisi (20 nell'ultima settimana) in raid aerei e incursioni. Gli ultimi quattro ieri, tutti di Hamas, in scontri a fuoco con i soldati, avvenuti a ridosso di Beit Lahiya e a Shajiya (Gaza city). E se lo strangolamento di Gaza ha l'obiettivo di lasciare senza ossigeno Hamas (ma a pagare sono i civili), il rilascio con il contagocce dei detenuti palestinesi secondo Olmert serve a rafforzare il suo «partner» di Annapolis, il presidente palestinese Abu Mazen. Ieri 429 prigionieri, tutti legati a Fatah e di nessun rilievo politico, sono stati liberati da Israele e hanno fatto ritorno a casa in Cisgiordania, tranne una ventina che sono stati portati a Gaza. «È un'iniziativa unilaterale che non ci soddisfa in alcun modo», ha detto il ministro per i prigionieri Ashraf Ajrami. Abu Mazen che avrebbe bisogno della liberazione di tutti e 9mila detenuti per dare alla popolazione palestinese sempre scettica verso la sua linea, il segno di una svolta che invece non arriva mai.
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