Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
C'è anche chi vede il bicchiere mezzo pieno ecco gli ottimisti su Annapolis
Testata:La Stampa - Il Foglio - La Repubblica - Europa Autore: Arrigo Levi - la redazione - Gad Lerner - Lazzaro Pietragnoli Titolo: «Gli arabi al tavolo, ma Teheran resta sola - L’ira di Khamenei contro la Siria tentata dai generosi sauditi - Un poster di speranza con le foto dei nipoti il regalo di Abu Mazen al premier israeliano - Qualcosa è cambiato»
Da La STAMPA del 29 novembre 2007, l'editoriale di Arrigo Levi:
E’ fin troppo ovvio che il vero giudizio sulla Conferenza di Annapolis lo si potrà dare soltanto sulla base di quello che accadrà poi. Ed è altrettanto ovvio che la strada da percorrere per arrivare da Annapolis fino a un trattato di pace fra lo Stato d’Israele e un nuovo Stato palestinese sarà tutta in salita. Ma sarebbe da stolti non augurarsi che la conferenza di Annapolis, e la svolta di Bush, prima disinteressato al conflitto israelo-palestinese, ora impegnato a fondo nell’impresa di ridare in extremis lustro alla sua logora presidenza, spingendo e tirando con tutte le sue forze gli storici nemici mediorientali sulla via della pace, segnino un nuovo principio verso un lieto fine che fino a ieri era quasi inimmaginabile. È facile pronunciare giudizi catastrofici, come quello del buon maestro Barenboim, che vede nella conferenza una semplice «messinscena» di Bush, e che avverte (con qualche ragione) che anche se Olmert e Abu Mazen raggiungeranno un accordo, nessuno dei due troverà un facile sostegno da parte della propria gente. Tutto questo lo sapevamo già. Era altrettanto prevedibile che Netanyahu, e cento rabbini (ma di rabbini in Israele ce ne sono molti più di cento), avrebbero dato un giudizio negativo su Olmert, e che i capi dell’ala estremista di Hamas avrebbero annunciato di avere pronto «un esercito di kamikaze che fanno la fila per immolarsi in Israele». Ma è difficile non fare il tifo per i due leader e per il loro coraggio; e trovare anche motivo di speranza in alcune reazioni scontate, come la furibonda rabbia del leader iraniano Ahmadinejad, che promette tutto il suo aiuto agli aspiranti terroristi, confermando la previsione che Israele non sopravvivrà. A provocare l’ira di Teheran non può essere stato l’esito positivo dell’incontro fra Abu Mazen e Olmert, che una volta deciso di andare ad Annapolis non potevano certo tornarsene a casa a mani vuote. Quello che ad Ahmadinejad deve essere risultato intollerabile, e pericoloso, è la partecipazione all’incontro dei rappresentanti di sedici Stati arabi (compresa la Siria). Teheran non può non sapere che questa discesa in campo degli arabi a favore della pace ha anche, e forse soprattutto, profonde motivazioni anti-iraniane. L’Iran, con l’appoggio ai «kamikaze», e con le sue ambizioni missilistico-nucleari, non minaccia soltanto la sopravvivenza d’Israele. L’Iran, che non è arabo, ed è l’unico stato sciita della regione, si presenta, con la sua ambizione a diventare la superpotenza regionale, come una minaccia al mondo arabo e ai suoi governanti. La paura dell’Iran trova d’accordo arabi ed ebrei. La vera novità di Annapolis, che fino a poco tempo addietro nessuno poteva dare per certa, sta probabilmente in questa presenza araba, quasi plebiscitaria. Essa si raffigura come una forte pressione su Israele, ma anche come un forte motivo di speranza per lo Stato ebraico; che non vuole soltanto far pace con i palestinesi, ma col mondo arabo-islamico in cui la storia, sempre matrigna col «popolo eletto», ha finito per collocare quello Stato ebraico che, cent’anni fa, era solo un’utopia. E adesso, più che indugiare nell’elenco ben noto degli ostacoli che si incontreranno sulla via del negoziato, e sulla difficoltà dei problemi da risolvere (la collocazione a Gerusalemme di due capitali; il futuro dei profughi palestinesi; la definizione dei confini; la cancellazione di un certo numero di insediamenti israeliani; il graduale e necessario, ma rischioso ritiro delle forze di sicurezza d’Israele dalla West Bank; la necessità di far prevalere gli elementi più moderati anche in seno a Hamas, che non potrà isolarsi in eterno dal mondo arabo; la necessità di «vendere» l’accordo di pace ai due popoli), è il momento di chiedersi che cosa possiamo fare noi, gli europei e i russi e gli americani, per spianare la strada ad un’intesa. Qualcosa, e più di qualcosa, possiamo fare, non soltanto predisponendoci, se mai ci verrà chiesto, a fornire anche (con buona pace di coloro cui ogni menzione di armi ed armati fa venire l’orticaria) forze militari d’interposizione; ma soprattutto preparandoci a gesti di grande generosità, a partire dalla «conferenza dei donatori» per i palestinesi, già indetta per il 17 dicembre a Parigi, al fine di mettere in moto una rapida rinascita economica e civile dei territori palestinesi, a cominciare dalla West Bank; contribuendo, in tal modo, anche a creare un ambiente capace di accogliere quei profughi che vorranno, un giorno, tornare a casa loro. Bisogna mettere a punto (come del resto in Afghanistan) una strategia politico-economica, che richiederà non solo generosità, ma anche fantasia, capacità operativa, e consapevolezza del fatto che abbiamo poco tempo per aiutare la nascita di un apparato di governo palestinese credibile, e per convincere la gente palestinese (anche i palestinesi di Gaza) che la pace paga; e che la creazione di una patria palestinese accanto a una patria israeliana potrebbe ridare agli uni e agli altri (e a tutti coloro che vogliono bene agli uni e agli altri) una nuova speranza. Da Il FOGLIO:
Il suk delle negoziazioni. La diplomazia iraniana ha preso ufficialmente molto male la presenza siriana al vertice di Annapolis. Ma nelle stanze del potere di Teheran si tende a minimizzare, a spegnere la rabbia del presidente Mahmoud Ahmadinejad e soprattutto della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, guida religiosa della Repubblica islamica. Khamenei, intimamente, non si è mai del tutto fidato dei siriani. In questi mesi, a differenza di Ahmadinejad, un naif della politica, ha guardato con sospetto il via vai di diplomatici e politici europei a Damasco. Khamenei (ma lo ha fatto anche Ahmadinejad) ha telefonato alla vigilia del vertice a Bashar el Assad, cercando di convincerlo a non mandare un rappresentante di Damasco ad Annapolis. Assad ha risposto che si trattava di un esponente non di prima fila del ministero degli Esteri e che la Siria, comunque, aveva ottenuto che al summit si parlasse anche del Golan. Bashar ha cercato di tranquillizzare Khamenei. Ma l’ayatollah, come risulta a Foggy Bottom (le fonti sono i rapporti della Cia e dell’ambasciata americana a Damasco), non è affatto tranquillo. Il medio oriente è un suk di negoziazioni in questo momento e i siriani hanno capito e sanno da tempo che nel suk si possono muovere con notevole profitto. La Siria, come risulta non soltanto alla diplomazia americana ma anche a quelle europee (attivissime Italia e Francia), non vuole essere trattata all’infinito come un paese canaglia, servo dell’Iran e delle sue trame terroristiche. Bashar e il gruppo dirigente che gli sta attorno sentono, a volte con fastidio, la forte stretta iraniana. Teheran in Siria comanda più del consentito. Uomini degli ayatollah sono dovunque. Gli attivisti religiosi sciiti pagano mille dollari ai convertiti dal sunnismo allo sciismo. L’Iran ha aperto “uffici” dei pasdaran a Gaza e in tutto il Libano. Proprio in Libano, lo strapotere degli Hezbollah filoiraniani è ormai un fattore permanente di destabilizzazione. Bashar sa che in questi giorni, riferendosi agli aiuti iraniani e alla pessima situazione economica siriana, Ali Khamenei ha definito “miserabili” i politici di Damasco che hanno “tradito” l’amicizia con l’Iran rompendo il fronte del rifiuto antisraeliano. La carta economica. Il regime degli ayatollah, se volesse, potrebbe giocare la carta economica contro Damasco. Potrebbe succedere anche nel caso in cui Bashar non potesse o non volesse riuscire. La Siria traeva profitto dalle esportazioni di petrolio ma ora lo deve importare (in gran parte gratis) dall’Iran. Nel 2007, il deficit petrolifero della Siria ammonterà a quasi due miliardi di dollari, risultato di un import di 4,8 miliardi contro i 200 milioni del 2001. Il debito estero è di 6,6 miliardi di dollari. La produttività del lavoro è bassa, l’inflazione sale con la corruzione, l’assistenza della Siria alle frazioni estremiste del Libano è costosa. L’alleanza strategica e politica con l’Iran costa in termini geoeconomici, vista la diffidenza di molti paesi e l’incapacità del regime di aprirsi agli stranieri. Un vantaggio a essere uniti all’Iran, oltreché in campo petrolifero, i siriani ce l’hanno: sono le forniture gratuite di armi russe, in tutto 1,2 miliardi di dollari l’anno. Via Teheran sono arrivati missili anticarro micidiali, missili antiaerei dell’ultima generazione, sistemi elettronici di difesa antiaerea, aerei da caccia. Il deterioramento della situazione economica ha costretto Assad a introdurre il razionamento della benzina (con una tessera speciale importata dall’Iran) e il taglio dei sussidi per i consumi famigliari. La metà della popolazione vive appena sopra la soglia di povertà, un quarto al di sotto. Un sito a Londra dà molti pensieri. La crisi aumenta l’avversione della gente verso la cricca alawita al potere e i loro complici che campano negli agi della corruzione. I poveri siriani guardano le tv arabe e vedono come si vive meglio nei paesi vicini, meno “militanti” ma più progrediti. La stampa locale è asservita al regime, ma c’è un sito che dà molto fastidio ad Assad. E’ il web site Ilaf che si fa a Londra. Miseria, frustrazione, isolamento, avversione del popolo stanno facendo riflettere Assad. L’Europa si è fatta avanti. Ma soprattutto si è fatta avanti l’Arabia Saudita, ricca e generosa, disposta ad aprire i cordoni della borsa in cambio di un cambiamento di rotta. “Inshallah”, dicono speranzosi gli arabisti di Foggy Bottom.
Da La REPUBBLICA, un articolo di Gad Lerner:
Il manifesto riproduce, affiancate, le due bandiere d´Israele e di Palestina. Intorno, come una cornice rettangolare, vi compaiono in fila un´altra quarantina di bandiere. Il premier israeliano Ehud Olmert, rilassato, in t-shirt, lo ha srotolato sul tavolo al momento dei saluti, lo scorso venerdì 2 novembre, quando mi ha ricevuto insieme all´amica comune Manuela Dviri nella sua residenza di Gerusalemme. Un´ora di visita privata e informale, i cui contenuti resteranno quindi doverosamente off the records, come recita il codice giornalistico. Ma il dettaglio innocente di quel commiato merita invece di essere reso pubblico perché forse racchiude lo "spirito di Annapolis", cioè lo stato d´animo con cui due leader sovraccarichi di responsabilità, e accomunati nella debolezza, affronteranno da qui a un anno l´ultimo tratto della loro carriera. Sorseggiando succo di melograno, in un salone che mantiene il carattere della tradizionale sobrietà israeliana - alle pareti i paesaggi dipinti dalla moglie Aliza - s´era scherzato sulla conferenza stampa in cui Olmert pochi giorni prima aveva reso pubblico il suo tumore alla prostata, per fortuna non grave. Una scelta di trasparenza apprezzata dall´opinione pubblica, tale da regalargli un momentaneo sussulto negli indici di popolarità. Che coincidenza, pure il suo interlocutore palestinese Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, soffre di analoghi problemi sanitari. Né si può dire che gli arrida un gradimento superiore tra i palestinesi. Sarà forse per reciproca consapevolezza della loro evidente precarietà, ma sembra che i due capi degli israeliani e dei palestinesi si piacciano, si intendano. Hanno sviluppato una complicità che li spinge talvolta ad anticipare l´un l´altro le bordate polemiche che il dovere d´ufficio impone loro di scagliarsi addosso ogni tanto. E si frequentano forse più di quanto non appaia ufficialmente. È per spiegarci la natura della loro relazione che Olmert, alla fine del colloquio, ci regala l´aneddoto. «Lo vedete questo manifesto? Me lo ha portato in dono Abu Mazen l´ultima volta che è venuto qui. Prima che potessi dir nulla, mi ha chiesto: "Ehud, lo sai che cosa vuol dire? Al centro ci siamo noi, Israele e Palestina. Tutto attorno trovi le bandiere delle nazioni che - se firmerete la pace con noi - a loro volta smetteranno di esservi nemiche. Allora, ti piace il mio regalo?"». A questo punto Olmert sorride e ci conduce subito accanto, nella minuscola stanza di lavoro della moglie Aliza. «Sto ripetendo con voi la stessa cosa che ho fatto con Abu Mazen, guardate». Alla parete troviamo appeso lo stesso identico manifesto con le bandiere dei due popoli in cerca di pace, e intorno le altre che minacciano l´esistenza d´Israele. Solo che in mezzo Aliza ci ha incollato le fotografie dei loro quattro nipoti. Adesso Olmert racconta la sua risposta a Abu Mazen: «Grazie, Mahmud. Come vedi, non solo conoscevamo già il significato del tuo bel regalo. Ma in casa lo apprezziamo a tal punto da averci inquadrato al centro i ritratti dei nostri bambini, cioè quanto abbiamo di più caro. Per non dimenticare mai a quale scopo siamo impegnati l´uno insieme all´altro». Martedì scorso, quando ho visto ad Annapolis quei due leader precari stringersi la mano sotto lo sguardo compiaciuto di Bush, confesso che il primo pensiero non è andato al manifesto appeso nella stanza di Aliza Olmert. Troppo forte era la somiglianza tra la scena del Maryland e l´altra fotografia, ormai sbiadita, scattata quattordici anni fa sul prato della Casa Bianca: allora c´erano Rabin, Arafat e in mezzo Clinton. Sappiamo com´è andata a finire tragicamente, la prima volta. Poi mi sono ricordato la cornice di bandierine attorno ai simboli dei due contendenti. In fondo, alla solenne promessa di pace di Annapolis presenziavano 49 delegazioni. Fra le quali ce n´erano già 16 di paesi arabi. D´accordo, molte meno di quelle auspicate dal manifesto di casa Olmert. Però come sottovalutare, tra le altre, la storica prima volta della Siria a un tavolo di negoziato? Sarà proprio un caso se, all´indomani del vertice sul Medio Oriente, pare raggiunto un accordo tra antisiriani e filosiriani sul nome del nuovo presidente della repubblica libanese? E allora mi sono detto: chissà, talvolta la debolezza politica dei leader può trasformarsi in risorsa, se non addirittura in virtù. Se davvero nel 2008 gli impopolari Olmert e Abu Mazen, ma con loro lo stesso Bush anatra zoppa, riuscissero a srotolare sul tavolo un altro pezzo di carta - quello della pace definitiva - la reazione dei loro due popoli sarebbe certamente favorevole: se non altro a provarci. Nonostante l´odio che alligna in Medio Oriente, sono certo che la maggioranza dei nonni, dei padri e delle madri, sarebbe pronta a incollare i volti dei loro bambini dentro a una cornice di bandiere chiamate a deporre le armi.
Da EUROPA:
«Poteva essere solo una gigantesca photo opportunity, invece è stata anche qualcos’altro, non so ancora se qualcosa di solido e concreto, ma certamente di significativo »: così Robert Springborg, direttore del London Middle East Institute, commenta per Europa l’esito il vertice di Annapolis, dove Israele e Palestina hanno concordato sulla necessità di riaprire dialoghi formali per raggiungere un accordo di pace entro la fine del prossimo anno. Cosa si aspettava da questo vertice, professor Springborg? Un tentativo dell’amministrazione Bush di risollevare le sue disastrose politiche in Medio Oriente attraverso un evento di grande impatto mediatico e di scarsa portata politica. La storia degli accordi di pace tra Israele e Palestina è costellata di foto con i rappresentanti dei due paesi che si stringono la mano sotto lo sguardo sorridente del presidente americano di turno. E quando gli accordi saltano, rimangono solo le foto: in questo caso mi aspettavo una foto, senza neanche l’accordo,come è nello stile di questo presidente. E invece che cosa è successo? È successo che dietro i sorrisi di circostanza e la stretta di mano per le telecamere è cominciato a muoversi qualcosa. Non si può ancora dire come si evolverà in futuro, se sarà qualcosa destinato a durare e per quanto, ma certamente il vertice di Annapolis è uno delle principali sorprese che la fine di quest’anno poteva riservare al Medio Oriente. Dopo mesi di tensioni nei territori, di disastri in Iraq, di crescente pressione sull’Iran, qualcosa pare muoversi nella direzione giusta: non è ancora un accordo, che allo stato attuale sarebbe impossibile tra Israele e Palestina, ma l’impegno di un serio e rinnovato dialogo, con scadenze fissate e con precise concessioni da entrambe le parti. Quali sono gli elementi che la portano a essere scettico? Sono tre in particolare: il primo è che, nonostante la disponibilità formale a discutere né Olmert né Abu Mazen sono disposti davvero a cedere su alcune questioni dirimenti, come lo status di Gerusalemme, il ritorno dei profughi palestinesi, gli insediamenti israeliani nella striscia di Gaza. Questo è una conseguenza della seconda preoccupazione: la fragilità degli interlocutori. Sia il premier israeliano che il presidente dell’Anp sono leader deboli, che non controllano davvero le loro fazioni e quindi non sono in grado di imporre decisioni impopolari ai loro paesi, in nome di una causa più grande, come potevano fare Arafat e Rabin. E la reazione negativa a questo accordo, nei territori ma anche in alcune frange della popolazione israeliana, è un chiaro segnale che le ali estreme in entrambi i paesi non sono pronte a cedere e che sarà molto difficile per i leader rispettare gli impegni indicati. La terza preoccupazione è la fragilità degli Stati Uniti: Bush è davvero pronto a fare della questione israelo-palestinese una priorità degli ultimi mesi della sua presidenza? Dipende principalmente da lui se questa foto ricordo diventerà anche un trattato o se invece resterà solo un cimelio da mostrare ai suoi nipoti, vantandosi di avere risolto anche questo, così come si vanta di avere portato la democrazia in Iraq. Ma ci sono anche elementi che le danno speranza? Certamente. Il fatto stesso che oggi siamo qui a parlare della conferenza di Annapolis e che ci sia un testo significativo da cui partire, per quanto di difficile realizzazione, è un elemento che non credevo possibile e che mi riempie di speranza. Abbiamo sempre detto che la soluzione del conflitto tra Israele e Palestina è condizione necessaria per la crescita della pace nell’intera regione. E quindi il fatto che, finalmente, si decida di affrontare direttamente la questione e si costringano le due parti in causa a dialogare è un passo fondamentale e carico di prospettive. Inoltre devo aggiungere che ci sono altri due elementi importanti: il primo è la predominanza democratica nel Congresso americano, che ha già costretto l’amministrazione Bush a notevoli cambiamenti di rotta in politica estera. Il secondo elemento che pende a favore di un proseguimento positivo per i colloqui di Annapolis è il rinnovato impegno del Quartetto internazionale. È purtroppo vero che solo gli Stati Uniti possono essere arbitro della partita in Medio Oriente, ma è altrettanto vero che senza il supporto di Russia ed Unione Europea anche Washington non può fare nulla. E negli ultimi mesi, anche con la nomina di una figura come Blair a rappresentante permanente, il quartetto ha dimostrato una maggiore attenzione e una positiva vitalità: per quanto controverso e contestato, Blair è indubbiamente un leader di spessore internazionale e non è certo una coincidenza se i dialoghi di pace arrivano dopo la sua lunga e articolata missione diplomatica in Medio Oriente. Il suo rapporto personale e politico con Bush, inoltre, può essere importanti per convincere il presidente a un impegno concreto e reale sulla strada del dialogo. Lei crede davvero che i nodi tecnici possano essere risolti, o ormai le parti sono troppo irrigidite nelle rispettive posizioni? La soluzione tecnica non sarà facile, lo dicevo prima, perché le posizioni si sono cristallizzate ma soprattutto perché attualmente non c’è nessuno in grado di forzarle. Per questo l’impegno americano e del Quartetto deve essere a lungo termine: non tanto per agevolare soluzioni tecniche, ma per trasformare radicalmente la situazione politica, facendo crescere in entrambe le parti un’opinione pubblica moderata e favorevole al dialogo e alla convivenza.