Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Annapolis: le ragioni dello scetticismo le analisi di Fiamma Nirenstein, Angelo Pezzana, Giorgio De Neri, Carlo Panella e Dennis Ross
Testata:Il Giornale - Informazione Corretta - L'Opinione - Il Foglio - Avvenire Autore: Fiamma Nirenstein - Angelo Pezzana - Giorgio De Neri - Carlo Panella - Ivana Arnaldi Titolo: «Ahmadinejad: il vertice è inutile Israele sparirà - Riconoscere lo Stato ebraico: il nodo che Annapolis non ha sciolto - Sorrisi ad Annapolis e fucilate a Hebron - Se Annapolis è solo una “photo opportunity”, la foto però è clamorosa»
Dal GIORNALE del 29 novembre 2007, l'analisi di Fiamma Nirenstein:
Annapolis «è un buon inizio se avrà una bella conclusione», ha detto Feisal ibn Saud ai giornalisti. Ma l’avrà? Di certo Bush festeggia un grande successo contro la follia jihadista. Ma mentre ce ne andavamo da Annapolis, Nabil Abu Rudeina, personaggio eminente, è sbottato: «Tutto quello che è stato detto qui non ci obbliga». Sa’eb Erakat, ormai da decenni capo negoziatore, ha detto di più: «Il fatto che Bush abbia parlato nel discorso a Annapolis di Stato Ebraico nei suoi discorsi, non ci riguarda; e se vuole scambiare territori del ’67 con altre zone, le scambi con il Messico». Intanto, scontri con spari e morti segnavano la reazione sul campo a Gaza e in Cisgiordania; il viceministro siriano Faisal Al Migdad ha approfittato del palcoscenico solo per coprire Israele di delegittimazione e richieste. La sua tv durante il discorso di Olmert trasmetteva una partita. Quella di Hamas, “Gerusalemme islamica”. Invece quella saudita il discorso di Olmert. Ma proprio allora i sauditi liberavano 1500 guerrieri di Al Qaida; e se il re applaudiva Olmert, la sua conferenza stampa non ammetteva gli israeliani. Tarek Mitri, ministro libanese, ha trattato Israele nello stile di un portavoce degli Hezbollah. I kassam seguitano a cadere su Sderot. Ahmadinejad minaccia come sempre: «Il vertice è inutile, Israele non durerà perché è basato sul male e questo finirà». Hamas prepara attentati. Al Qaida si rimpingua. La piazza palestinese bolle. Bush dice: è giunto il tempo. Di cosa? La risposta vera potrebbe essere nascosta negli incontri che si sono tenuti ieri nella giornata dell’avvio del lavoro di un anno verso l’accordo definitivo. Perché ieri la questione sul tavolo americano israeliano, con la partecipazione anche di Ehud Barak ministro della Difesa ai colloqui, è stata quella su come fermare l’Iran dall’acquisizione dell’energia atomica.
Il commento di Angelo Pezzana sulla conferenza di Annapolis
Forse il colpo di genio del duo Bush-Rice è stato fissare in sole 24 ore la durata della conferenza di Annapolis. E’ vero che in una sola giornata di lavoro non si riesce a concludere nulla che non sia già stato previsto e deciso, ma è anche vero che in così poche ore non rimane neppure tempo per litigare. Infatti ripartono tutti da Annapolis convinti di aver dato vita ad un evento epocale. Bush è quello che ne esce meglio. Davanti a sé ha poco più di un anno per incassare un qualche risultato, ma il compito a casa non toccherà più a lui farlo, avendolo distribuito fra tutti (o quasi) i partecipanti. Sono loro che dovrannodimostrare di essere diligenti. A lui la sola distribuzione dei voti. L’Arabia saudita, alla quale interessa soprattutto contenere lo sviluppo atomico iraniano, ha finalmente fatto la sua figura in un contesto internazionale, fatto del tutto inusuale. Non ha dovuto nemmeno modificare il comportamento ostile verso Israele, infatti di mani israeliane non ne ha strette nessuna. La Siria ha rimesso sul tavolo la restituzione del Golan, e di questo si è accontentata. Di più non poteva sperare, dopo la scoperta- e relativa distruzione il 6 settembre scorso da parte dell’aviazione israeliana- del sito atomico in costruzione. Qualcuno ha evidenziato la sua venuta ad Annapolis come un gesto di indipendenza verso l’Iran. Difficile crederlo, vista la sua politica totalmente appiattita ai voleri di Ahmadinejad. A parte lo spropositato numero di invitati, tutti rimasti con il solo compito di fare numero,rimangono Ehud Olmert e Abu Mazen, ma anche loro ritornano a casa nella stessa condizione nella quale erano partiti, a parte l’impegno – la pace entro un anno – la cui sottoscrizione rientra nella consuetudine delle promesse, finora puntualmente rivelatesi illusorie. Ma se Abu Mazen, che deve vedersela con Hamas, si trova sull’orlo del burrone, Olmert non sta meglio. Non tanto per l’opposizione al suo governo, basta vedere il peso quasi nullo delle dimostrazioni contro la conferenza di Annapolis, e nemmeno per la reiterata promessa di “ concessioni dolorose”, ampiamente accettate dall’opinione pubblica israeliana, quanto dall’essere anche lui rimasto nel vago. Quali sono esattamente le “concessioni dolorose “ ? Se guardiamo alle richieste del “moderato” Abu Mazen, ripetute ad Annapolis dal coro arabo che faceva da contorno, è difficile pensare che Olmert possa soddisfarle. Non interessarono quando furono offerte ad Arafat, anche allora in una cornice che straripava di ottimismo con Clinton benedicente, non interessano nemmeno oggi, a giudicare dalla lista di richieste presentata all’incasso da Abu Mazen. E qui stiamo passando in rassegna gli interlocutori “moderati”, o almeno ritenuti tali, da essere invitati alla conferenza. Il problema vero, ineludibile, è il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere quale stato ebraico indipendente, come votato dalle Nazioni Unite il 27 novembre 1947. È questo il nodo che stati arabi e autorità palestinese devono sciogliere per conto loro prima di avanzare qualsiasi pretesa. L’ha ripetuto, ancora una volta, Bernard Lewis “ Non ci sarà un negoziato di pace senza una genuina accettazione del diritto di Israele a esistere in quanto stato ebraico, nello stesso modo in cui i paesi membri della Lega araba sono riconosciuti come stati arabi o quelli della conferenza islamica come paesi islamici”. Tra i primi a negare questo riconoscimento c’è Abu Mazen e il suo governo “moderato”. Significa rinviare sine die la nascita di uno stato palestinese. Che poi è stata,da sempre, la volontà araba. Due stati, uno ebraico e uno arabo, significa accettare l’esistenza del primo. Una scelta respinta apertamente dagli estremisti, ma sottoscritta anche dai “moderati”. È questo il nodo che purtroppo Annapolis non ha sciolto.
Da L'OPINIONE, un articolo di Giorgio De Neri:
Le masse palestinesi hanno accolto con tale entusiasmo il preambolo di Annapolis letto da Bush, dopo l’accordo trovato a venti minuti dall’inizio dei lavori tra Abu Mazen e Ehud Olmert, che già da ieri la polizia della Cisgiordania, a Hebron, è stata costretta a sparare ad altezza uomo per sedare le tumultuose espressioni di felicità della folla. Facendoci scappare anche il morto, come da quelle parti è quasi inevitabile. Da oggi, con la spettacolare “photo opportunity” dei due contendenti seduti di fronte nella stessa stanza della Casa Bianca che ospitò la stretta di mano della pace finta del post Oslo tra Rabin e Arafat nel 1993, si comincia a fare sul serio. Anche se con il senno di poi certe coincidenze potrebbero suonare sinistre. E ogni due settimane, come prevede il documento letto martedì da Bush, Olmert e Abu Mazen si vedranno per affrontare tutti i problemi sul tappeto: profughi, confini, Gerusalemme Est da una parte, terrorismo, terrorismo e ancora terrorismo (da fermare una volta per tutte) dall’altra.
Il testo letto ieri da Bush, dopo che la Rice aveva dovuto prendersi a braccetto Abu Mazen per convincerlo a firmarlo (come racconta “Ha’aretz”), contiene un importante paragrafo che non è andato giù alla parte più oltranzista della stampa araba. Questo : “Esprimiamo la nostra determinazione a mettere fine allo spargimento di sangue, alle sofferenze e a decenni di conflitto tra i nostri popoli; a aprire una nuova era di pace fondata sulla libertà, la sicurezza e la giustizia, la dignità, il rispetto e il riconoscimento reciproco; a diffondere una cultura di pace e di non violenza; a far fronte al terrorismo e alla provocazione, di matrice sia israeliana sia palestinese”. Mentre il governo israeliano ha retto bene l’impatto, e molti osservatori hanno sorvolato su quella enormità della “matrice israeliana” del terrorismo e della “provocazione”, che in realtà non sono mai esistiti (ma un po’ di cerchiobottismo ha dovuto ingoiarlo anche la delegazione dello Stato ebraico), apriti cielo come il riferimento alla cultura dell’odio è stato preso dall’altra parte.
Ad esempio il direttore di “Al Quds al Arabi” (che poi significa la Gerusalemme araba) ha parlato di ritorno alle Crociate. Tutto per quella frase di Bush che sottolinea il riconoscimento da parte dell’America della natura ebraica dello Stato israeliano. Più concilianti invece i toni dei giornali governativi, anzi di regime, siriani: “Tashreen” e “Al Baath”, che poi è l’organo del partito di Bashar al Asad, fondato dal padre Hafez. “Tashreen” scrive che “la pace se non sarà globale, sarà un accordo che crollerà al primo soffio di vento”. Aggiungendo però che “questa conferenza è un’opportunità per verificare la serietà dell’amministrazione americana nel lavorare per la pace”. Il quotidiano “Al-Baath”, portavoce dell’omonimo partito al governo in Siria, ha pubblicato un editoriale secondo cui “le parole e i discorsi in bello stile che hanno aperto la riunione di Annapolis ieri, potrebbero essere indizio dell’intenzione di rilanciare il processo di pace in Medio Oriente”.
Poi ha aggiunto che “la palla adesso è all’America e a Israele”, ritenuti i veri responsabili dell’attuale stallo nelle trattative per la restituzione delle alture del Golan, interrotte nel 2000. Simili aperture non potevano non provocre la solita brutale reazione del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che ieri ha fatto un altro show mediatico parlando di Israele come uno stato il cui destino sarebbe segnato da tempo. “Molto presto – ha detto il dittatore di Teheran parlando all’agenzia di stampa Mehr - anche le persone più stupide capiranno che la conferenza di Annapolis era destinata fin dall’inizio al fallimento”. Poi ha aggiunto che “è impossibile che il regime sionista possa durare in quanto il logoramento è nella sua natura di Stato costruito sull’aggressione, la menzogna e il crimine”. Per la prima volta gli osservatori, anche interni all’Iran, nel campo della dissidenza, si sono trovati concordi nel sottolineare che dalle parole di Ahmadinejad sembra prevalere la paura più che la minaccia. Tanto che il discorso in questione sembra fatto più alla Siria che all’America o all’Occidente. La paura di rimanere isolato nel mondo islamico a dovere affrontare l’ira e la potenza degli Stati Uniti per via della questione nucleare, ha insomma spinto, per una volta, il raiss di Teheran a parlare a suocera perché nuora intenda.
Dal FOGLIO un articolo di Carlo Panella che nelle righe finali sottolinea l'inconsistenza che caratterizzerebbe un accordo basato solo sul timore dell'Iran diffuso tra i paesi arabi
Purché non sia solo una photo opportunity”, questa era la condizione posta da sauditi ed egiziani per partecipare ad Annapolis. Alla fine la conferenza è stata solo una “photo opportunity”. Ma quale foto! Un’immagine clamorosa che ha visto tutti i paesi islamici e arabi del mondo (escluso l’Iran) rendere omaggio alla saggia iniziativa di George W. Bush. Per la prima volta nella storia anche questo, soltanto questo, una foto, ha assunto un suo significato profondissimo. Non per Israele e Anp, ma per gli Stati Uniti. Il vero, straordinario risultato che George W. Bush e Condoleezza Rice sono riusciti a conseguire – a quattro anni dalla guerra a Saddam – è di avere costretto tutto il mondo musulmano e arabo a riconoscere la propria leadership incontrastata. Tutti sono dovuti andare ad Annapolis, tutti hanno dovuto stringere la mano a un uomo solo: George W. Bush, tutti hanno dovuto ammettere che la guerra o la pace nelle terre arabe e dell’islam dipendono dal raccordo con gli Stati Uniti di George W. Bush (e di Condoleezza Rice). Anche la Siria baathista ha dovuto fare questo riconoscimento e non ne ha avuto nulla in cambio. Ad Annapolis non si è parlato di restituzione del Golan (conditio sine qua non posta dal rais Bashar el Assad), ma Damasco ha dovuto mettersi in fila, dietro a tutti gli altri, nel rendere omaggio alla centralità di Bush e ha dovuto acconsentire a partecipare a un processo negoziale, senza avere ricevuto alcuna garanzia. Il successo e il tempo Più ancora, il successo straordinario di questa Amministrazione è stato sottolineato dal fatto che il limite temporale entro cui Israele e Anp si impegnano a trovare un accordo definitivo è quello del mandato di Bush, non un giorno in più, non un giorno in meno. I tempi del medio oriente, dunque, sono ormai per riconoscimento universale legati ai tempi del “potere imperiale” di questo presidente americano, non del suo successore. Detto questo, nulla di concreto è emerso quanto a soluzione dei problemi drammatici che dividono israeliani e palestinesi, tranne un immenso lavoro degli sherpa, che darà i suoi frutti solo nel corso dei prossimi mesi, se li darà. Nulla sulla natura ebraica dello stato di Israele, nulla sulla definizione dei confini, delle colonie, dello status di Gerusalemme, del problema dei profughi. E’ facile prevedere che sui confini (incluso il corridoio Gaza-Cisgiordania) verrà alla fine concordata la soluzione già assunta a Taba nel gennaio del 2001 dalle due delegazioni (a riprova della follia assassina del rifiuto di Yasser Arafat di sottoscriverla, lanciando l’intifada dei kamikaze). Su Gerusalemme, però, il premier israeliano Ehud Olmert non può concedere quello che il predecessore Ehud Barak concesse nel 2000 a Camp David (la sovranità sulla Spianata delle moschee, che per gli ebrei è Spianata del Tempio) e si dovrà trovare una non difficile mediazione sovranazionale. Resterà – a rischio fallimento sino all’ultimo – il problema dei profughi e del carattere ebraico dello stato di Israele. Su questo punto dovrà esercitarsi al massimo la pressione internazionale, per convincere gli stati arabi, Arabia Saudita ed Egitto in primis, a riconoscere – nonostante i sicuri e gravissimi contraccolpi islamisti sul piano interno – il riconoscimento del diritto degli ebrei in quanto tali ad avere uno stato in Palestina. Se questa pressione non sarà esercitata (e qui l’Europa, con Tony Blair, dovrebbe dimostrare di essere uscita da un’ignavia ormai sessantennale), l’intera trattativa salterà. A meno che – e questo sarebbe un dato non positivo – a convincere Egitto e Arabia Saudita a larghe concessioni non sia quel timore crescente per la capacità d’iniziativa dell’Iran che è stata la molla fondamentale su cui – intelligentemente – Condoleezza Rice è riuscita a costruire il consenso alla “photo opportunity” di Annapolis. Ma – come insegna la Guerra fredda – i trattati che si firmano non per convinzione, ma soltanto e unicamente per timore di un terzo incomodo aggressivo, hanno la durata di un mattino.
Da AVVENIRE, un intervista a Dennis Ross:
« I l sostegno internazionale alla ripresa del processo di pace israelo-palestinese è un significativo traguardo per il vertice di Annapolis anche se, personalmente, ritengo che a volte i vertici hanno rappresentato solo un foro per i discorsi». È il commento a caldo di Dennis Ross, già inviato speciale in Medio Oriente di Bill Clinton e George W.Bush padre. Che accadrà dopo Annapolis? Dipende da ciò che ci si aspetta. Se le aspettative riguardano la ripresa delle negoziazioni per ottenere alcuni accordi prima della fine dell’amministrazione Bush, la speranza c’è. Se invece ci si aspetta la soluzione del conflitto entro la fine del 2008, potremmo restare delusi. Ma il fatto che al vertice vi siano stati anche i Paesi Arabi, non è di per sé positivo, nonostante l’assenza di Hamas ed Iran? La partecipazione di una cinquantina di nazioni, può far sembrare il consesso una riproposizione di seduta dell’Onu. È facile per i Paesi arabi essere disponibili ad un’asserzione di appoggio alla pace. Le delegazioni arabe, però, presenziano con aspettative di dichiarazioni di principi fondamentali per i colloqui successivi. La Siria, per esempio, ha accettato di parteciparvi, ma aspira ad una soluzione globale della questione che includa le alture del Golan ed il ritiro israeliano ai confini del 1967. Così la Siria ha lasciato nella delusione Hamas che, dopo aver bollato Abu Mazen come traditore dei palestinesi, aveva sperato di poter realizzare il controvertice di Annapolis proprio a Damasco. Anche la reazione dell’Iran, che teme una svolta nella regione, è stata piuttosto scomposta. Ciò non depone a favore dello smantellamento delle strutture terroristiche. Quali le conseguenze di un successo? Se i leader sapranno introdurre un successivo eventuale processo distensivo, anche con delle marce indietro di qualcuno, sarebbe già un successo. Gli Stati Uniti hanno il ruolo di creare una fase attuativa con il coinvolgimento di quegli arabi che vogliono appoggiare Abu Mazen, il solo che ha l’autorità di poter fare compromessi. Anche Olmert dovrà fare scelte storiche ed appoggiare i palestinesi con aiuti e investimenti. Negli ultimi sette anni, Bush ha sempre affermato di non volere interferire. In quest’occasione però ha assunto un ruolo di primo piano... Gli Stati Uniti hanno fatto bene ad uscire dall’immobilismo degli ultimi sette anni. Ora, bisogna dare i mezzi necessari per superare degrado e miseria e coinvolgere le controparti nel superamento delle differenze. Non va però negata l’attuale debolezza politica dei tre leader: Bush, Olmert e Abu Mazen... Purtroppo, i tre protagonisti sono particolarmente deboli. Abu Mazen ha urgente necessità di non confondersi con il suo avversario politico, Hamas. Olmert esce dalla disastrosa guerra in Libano. Anche il presidente Bush, alle prese con la crisi irachena, vorrebbe concludere il suo secondo mandato con un reale progresso nella realizzazione della Road map. Naturalmente, potrebbe apparire singolare che dei leader deboli vogliano impegnarsi a concludere compromessi storici. Ma la debolezza dei leader non deve essere un’inibizione.