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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
27.11.2007 Le speranze e i rischi di Annapolis
le analisi di Nirenstein, Meir e Panella, la cronaca di Maurizio Molinari

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Gideon Meir - Carlo Panella - Maurizio Molinari
Titolo: «Annapolis, Bush e Olmert ottimisti - La speranza Annapolis l'incubo Gaza - E’ il Great Game di Condi - “Abu Mazen e Olmertpromettono la pace entro il gennaio 2009 - Limousine e sceicchi Lo sbarco saudita nella città della us Nany»

Dal GIORNALE del 27 novembre 2007, l'analisi di Fiamma Nirenstein sulla conferenza di Annapolis:

Washington
- «Inshallah, Inshallah» annuisce correndo il grande negoziatore palestinese Sa’eb Erakat quando lo placchiamo domenica notte: scende dall’ascensore dell’Hotel Mandarin, dove con l’ex premier palestinese Abu Ala ha incontrato in segreto il premier israeliano Ehud Olmert. «Inshallah, forse riusciremo a partorire un documento comune, a parlare di Gerusalemme, di confini, di profughi, di tempi», sussurra, poi sorride: «Ce la facciamo? Chissà... comunque lavoriamo per questo, sono ottimista...». «Macché, niente», sbotta dopo Ehud Yahari, noto commentatore di cose arabe d’Israele: «Di qua esce soltanto una confusione che farà scoppiare un’Intifada peggiore di quella precedente».

L’hotel Ritz è la dimora delle convulsioni palestinesi della vigilia: si consumano a voce bassa, senza intrusi e curiosi. Invece, in un confuso andito semicircolare, dove le belve scatenate della stampa israeliana sprofondate in poltrona assieme agli uomini dei servizi israeliani sgranocchiano noccioline, tutti urlano e saltano per acchiappare qualche delegato. Così il Mandarin, sede della delegazione israeliana. Questi i due poli della frenesia politica che ospita la Conferenza dell’aristocratica cittadina di Annapolis dove fu firmata la fine della rivoluzione americana, capitale del Maryland: solo ieri sembra essersi accorta di essere invasa da una quarantina di delegazioni, fra cui quelle di 16 Paesi arabi, tutte a rischio terrorismo, e da migliaia di giornalisti. Sono previsti i discorsi di Condoleezza Rice, di George W. Bush, di Olmert, di Abu Mazen, del Quartetto, dei Paesi arabi: tutto dovrà suggellare l’evento eccezionale che, per decisa volontà degli Usa, ospita Paesi che non riconoscono Israele ma sono qui a parlare di pace con esso. Ieri un gruppetto di giornalisti israeliani è persino riuscito a farsi invitare a prendere il caffè nell’ambasciata saudita. Saud al Faisal ha fatto arrabbiare il presidente iraniano Ahmadinejad al punto da ricevere una sua durissima telefonata: «Vergogna. Cancellate piuttosto quell’incontro inutile e dannoso», gli ha detto.

Il successo della Conferenza, che fino a quando l’Arabia Saudita e poi la Siria non hanno garantito la loro presenza pareva totalmente priva di significato, è tuttora da giudicare sul lungo raggio, ma sembra essere davvero vitale per l’amministrazione americana, che ha esercitato forti pressioni in moltissimi incontri, visto che è in gioco il prestigio dello stesso presidente. Ora che la questione irachena va meglio, Bush intende legare il suo lascito storico al Medio Oriente, alla sconfitta del Jihad, inclusa quella dell’Iran, e all’ennesimo tentativo di pace fra israeliani e palestinesi. Ieri, quando Bush ha incontrato prima Olmert e poi Abu Mazen, la parola d’ordine è stata «ottimismo». Di ottimismo Bush ha parlato sia con Olmert nella Sala Ovale, dove il premier israeliano era accompagnato dal ministro della Difesa Ehud Barak e da Tzipi Livni, sia con Abu Mazen, ricevuto da Bush dopo Olmert.

Bush ha subissato i suoi amici di sorrisi, incontri e cene perché da questa conferenza esca qualcosa di concreto, ovvero il famoso documento comune. Per convincerli a lavorare insieme, ha portato a cena i due contendenti domenica, e poi li ha rincontrati di nuovo ieri. Anche Bush ha fatto i suoi commenti alla cena offerta da Condi agli ospiti. I due si spalleggiano in un’autentica opera di pressing. Olmert, uscito dall’incontro, ha detto che prevede un anno di colloqui in cui si potrà parlare di tutto e si addiverrà a una conclusione definitiva, proprio come chiedono i palestinesi. Ha aggiunto che se Hamas accetta le condizioni del Quartetto ritornerà a essere parte del consenso che la unisce all’Autonomia, e quindi del prossimo Stato palestinese, che gli fa molto piacere che la Siria intervenga ad Annapolis, e che potrà parlare di quello che vuole, per esempio del Golan.

La Siria, che certo ha concordato con l’Iran una sua presenza di rango basso (solo il viceministro degli Esteri e i sauditi si sono arrabbiati), è forse l’unica che non si gioca niente e vince tutto. A sera, mentre usciva dal Ritz con Abu Mazen verso Bush, il vice capo della delegazione palestinese Nabil Abuznaid ci ha detto una grande verità sulla conferenza: palestinesi e israeliani, se vogliono portare a casa qualcosa, devono pagare con un compromesso. È vero, il documento comune ancora non c’è, ma ci sono molte ore per farcela. Se non ci si riuscirà, non sarà finita: loro hanno di che lavorare, devono smontare gli insediamenti, pensare a Gerusalemme... noi abbiamo soprattutto la questione dei profughi, dobbiamo trovare un compromesso sul numero, è chiaro. Ma occorre pazienza per arrivare a una soluzione».

Infine, non è detto che ci sarà un documento comune. Per Bush sembra si presenti all’orizzonte un successo anti-iraniano e sull’antiterrorismo in genere, almeno nel breve termine. Per Israele e i palestinesi il lavoro resterà tutto da fare.
Anche perché, a Gaza, Hamas ha organizzato una conferenza stampa con alcuni gruppi palestinesi per firmare un documento in cui si respinge ogni concessione che Israele dovesse fare per ottenere un accordo di pace.

Dal CORRIERE della SERA , un intervento di Gideon Meir, Ambasciatore di Israele in Italia:

Caro direttore, sono passati sessant'anni da quando le Nazioni Unite composero il conflitto arabo-israeliano, sancendo la creazione di due Stati per due popoli. Il fallito conseguimento di questa soluzione a due Stati ha significato decenni di sofferenza per entrambi i popoli, e tuttavia la giustezza di questa soluzione rimane valida. La soluzione a due Stati è la via migliore, per israeliani e palestinesi, per stabilire pace e sicurezza per sé stessi e per gli altri. La conferenza di Annapolis, in questi giorni, ha proprio lo scopo di rinnovare questo sforzo per conseguire la pace. È un nuovo inizio per un processo atteso da tempo.
La conferenza di Annapolis costituirà un punto di partenza e tutti i partecipanti rinnoveranno l'impegno fondamentale per una soluzione pacifica. A ciò seguiranno colloqui intensi su tutte le questioni in sospeso, allo scopo di porre finalmente termine alla reciproca sofferenza e di iniziare un'era di reciproca costruzione. Proprio come Israele è la patria del popolo ebraico, così la Palestina sarà la patria e l'incarnazione delle aspirazioni nazionali del popolo palestinese, di tutti i palestinesi, ovunque essi siano.
L'onere di risolvere la questione israelo-palestinese ricade sulle due parti, e i compromessi che dovranno essere raggiunti nei prossimi negoziati saranno difficili e impegnativi.
Al contempo, però, non può essere ignorata la situazione esistente sul terreno. Per questo motivo, mentre avanzano i negoziati, l'effettiva attuazione di quanto prospettato rimane in stretta dipendenza dall'adempimento della Road Map del Quartetto ( l'organismo di mediazione in cui siedono i rappresentanti di Usa, Unione Europea, Onu e Russia, ndr), accettata da entrambe le parti. Nella prima fase prevista dal documento, l'Autorità palestinese si è impegnata a fermare ogni tipo di terrorismo contro israeliani, dappertutto. La rinuncia a ogni forma di violenza è una condizione al proseguimento del processo di pace.
Israele, da parte sua, ha dimostrato la sua disponibilità ad adempiere ai propri obblighi previsti dalla Road Map, e ha applicato una serie di misure atte a sostenere il processo. Oltre ad aver congelato lo sviluppo degli insediamenti, Israele ha anche rilasciato quasi 800 detenuti palestinesi coinvolti in attività terroristiche.
Si sente dire spesso che il principale impedimento alla pace sono gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi. A tal proposito, però, è bene ricordare che Israele, sotto il governo di Ariel Sharon, ha sgomberato tutti gli insediamenti dalla Striscia di Gaza, e quattro insediamenti anche dalla Samaria del nord, nell'estate del 2005. Oltre 8 mila israeliani persero allora la propria casa, ma i palestinesi, con nostro grande rammarico, anziché sfruttare questo passo per il benessere della loro popolazione e per lo sviluppo della Striscia di Gaza, hanno preferito costituire uno «Stato» terrorista guidato da Hamas, che investe tutte le proprie forze e le proprie risorse nel riarmo, nell'intensificazione del terrorismo e nell'impedimento di qualsiasi accordo di pace.
La conferenza di Annapolis dovrà essere seguita anche da uno sforzo internazionale, per creare intorno un ambiente di sostegno per le parti, nel loro impegno a raggiungere un accordo. Per esempio, la Conferenza dei paesi donatori di Parigi, in programma per dicembre, costituirà un'opportunità, per i paesi donatori, di aiutare l'Autorità Palestinese ad avanzare nel processo. La comunità internazionale ha un importante ruolo da svolgere nel migliorare il funzionamento dell'Anp e nel migliorare le condizioni economiche dei palestinesi in generale. È d'importanza cruciale ottenere il sostegno della popolazione, che ha bisogno di vedere alcuni frutti del processo di pace anche mentre i negoziati sono ancora in corso.
Il mondo arabo e quello musulmano, in particolare, hanno un ruolo speciale da svolgere nel sostegno ai moderati e nell'isolamento degli estremisti.
Quando si conseguono degli accordi tra le parti, persino su questioni minori, il supporto da parte degli Stati arabi moderati è essenziale, specialmente nell'affrontare gli estremisti determinati a impedire qualsiasi successo. Parimenti, a mano a mano che vengono fatti progressi, dovrebbe avanzare il processo di normalizzazione tra il mondo arabo e Israele. Con il sostegno dei moderati della regione il dialogo israelo-palestinese dovrebbe portare a migliorare i rapporti e la cooperazione in tutto il Medio Oriente.
Mentre per ebrei e arabi Annapolis rappresenta la speranza, Gaza rappresenta l'alternativa da incubo.
Con Gaza controllata da Hamas, la popolazione palestinese è soggetta a un'oppressione religiosa tirannica, nella quale i diritti delle minorante religiose e delle donne vengono calpestati. Inoltre, da quando Hamas ha preso il potere nel giugno 2007, oltre 350 missili e 500 colpi di mortaio sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza contro la popolazione civile israeliana, provocando vittime, distruzione e un'atmosfera di costante terrore.
Sfortunatamente gli estremisti faranno tutto quanto in loro potere per cercare di fermare i negoziati. Pur impegnato a promuovere la pace, però, Israele continua ad avere la responsabilità di difendere i propri cittadini dagli attacchi terroristici.
L'incontro di Annapolis possiede il potenziale per far ripartire il processo di pace, per cambiare il volto del Medio Oriente. Israele spera che tutte le parti coinvolte colgano questa opportunità e facciano tutto il possibile per spianare il cammino verso la pace.

Dal FOGLIO, l'analisi di Carlo Panella:

Grazie a un’astuta operazione di diplomazia lessicale Condoleezza Rice è riuscita a trasformare l’inevitabile mezzo insuccesso che si profila ad Annapolis in un mezzo successo. La conferenza, infatti, è stata definita dal Dipartimento di stato “l’inizio di un percorso”. In questo modo, si tende a far dimenticare che, invece, quando George W. Bush aveva annunciato la conferenza, gli auspici dell’Amministrazione erano che essa segnasse quella “svolta” che ci si attende dalla morte di Yasser Arafat, la “fine di un percorso” con tanto di firma di un qualche protocollo d’intesa. Dunque – salvo miracolosi imprevisti, sempre possibili in medio oriente – il mezzo successo di Annapolis non costituirà una svolta, ma soltanto l’ennesima tappa di un processo di avvicinamento israelo-palestinese di cui ancora non si intravede la conclusione. E’ inutile perdere tempo per cercare di comprendere se l’impasse sia colpa di Ehud Olmert o di Abu Mazen, è invece molto più utile tentare di mettere a fuoco la tenuta della linea strategica – delineata da Condoleezza Rice – che ha portato alla conferenza di Annapolis. Segnando una netta svolta rispetto alla dottrina seguita da Colin Powell, che applicava in medio oriente la linea del containment, della riduzione del danno, seguita dal 1979 in poi da democratici e repubblicani, Rice ha tentato di mettere in atto una dottrina nuova, non più difensiva, ma di movimento, basata sull’azione risolutiva delle pressioni diplomatiche e di potenza degli Usa, dell’Ue e del “fronte sunnita”. L’elezione di Ahmadinejad in Iran nel 2005 ha infatti posto gli Stati Uniti e il mondo di fronte alla necessità di prendere atto che il containment era fallito su tutti i fronti e non solo nei confronti del terrorismo binladenista (anche la tolleranza clintoniana nei confronti dei Talebani e di al Qaida aveva avuto questa radice di “dottrina”). A fronte dell’evidente espansione della capacità di destabilizzazione della rivoluzione islamica iraniana e dei suoi alleati (Siria, Moqtada al Sadr, Hezbollah e Hamas), Rice ha messo in atto una dottrina di pretta marca cremlinologica: la definizione di una catena di paesi alleati degli Usa e dell’Europa che non si limitasse a contenere la pressione islamica, ma che prendesse l’iniziativa imponendo soluzioni favorevoli alla stabilizzazione nelle varie aree di crisi: Palestina, Libano, Iraq e Golfo, Afghanistan. Nella primavera del 2007, un eccellente corrispondente italiano negli Stati Uniti, Maurizio Molinari, ha spiegato sulla Stampa come alti funzionari del Dipartimento di stato fossero sicuri che questa politica di “accerchiamento attivo” che aveva avuto successo negli anni di Ronald Reagan contro l’Urss (sono gli anni di formazione accademica di Rice) avrebbe replicato i suoi allori in medio oriente. Nello specifico questa dottrina era stata elaborata anche su suggestione di re Abdullah II di Giordania e faceva – e fa ancora oggi – perno su Egitto, Anp di Abu Mazen, Libano di Fouad Siniora, Giordania, Arabia Saudita e Pakistan. Basta elencare i paesi della “cortina sunnita” che avrebbe dovuto fare infrangere su di sé la “falce sciita” (la definizione è di re Abdullah II) per comprendere perché da Annapolis non può venire molto. Quella dottrina non ha funzionato, si è subito ingolfata. Il primo punto di applicazione dello schema di azione di Rice è stato il cruciale vertice di Riad del febbraio scorso tra Ismail Haniyeh e Abu Mazen. In quello “storico successo”, in quell’“accordo di unità nazionale palestinese”, nei metodi che sono stati impiegati per conseguirlo, è scritta la storia dei fallimenti successivi. Il perno dell’azione mediorientale degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, riuscì infatti a chiudere l’accordo, mettendo in campo l’unica sua vera e riconosciuta forza: i soldi. Ma la stretta di mano tra Haniyeh e Abu Mazen che aveva alle spalle solo la prospettiva di divisione di un bottino di due miliardi di dollari è durata quel che doveva durare – è servita a Hamas per mettere a punto il proprio golpe, mentre ha spinto al Fatah ad abbassare la guardia – e nel giro di tre mesi Hamas e al Fatah si sono scannate a Gaza, con l’esito che conosciamo e con l’avanzamento della zona d’influenza diretta dell’Iran, al Mediterraneo. Passate poche settimane, anche il perno orientale del “fronte sunnita”, il Pakistan, è entrato in una spirale di crisi incontrollata, con conseguenze destabilizzanti non solo sul fronte interno e in quello afgano, ma anche nell’intera area del Golfo. L’atomica pachistana infatti è stata finanziata ampiamente dai sauditi, per vent’anni stretti alleati di Islamabad sullo scenario afghano e la crisi di credibilità di Pervez Musharraf si è così immediatamente riverberata su Riad. La scarsa, scarsissima capacità di azione, condizionamento e iniziativa del “fronte sunnita” è apparsa così nella piena sua gravità anche in Libano. Rafiq Hariri – non lo si dimentichi – era riconosciuto come il capo del “partito saudita” (e chiracchiano) in Libano, e identico oggi è il ruolo di suo figlio. Ma in quasi tre anni Riad non è riuscita affatto a recuperare il terreno perso a Beirut con la morte di Hariri e così – anche grazie a un incredibile immobilismo europeo – si deve oggi constatare che in Libano il potere di condizionamento e influenza di Damasco è determinante, non è stato affatto scalzato e che i paesi del “fronte sunnita” e gli Stati Uniti altro non riescono a fare che restare in una posizione di pura difesa dell’esistente, con tendenza alla perdita di terreno. In queste ore la situazione libanese è incandescente e Damasco ha già conseguito per Hezbollah un vantaggio straordinario: ogni parvenza di legalità statuale è vanificato, grazie alla “vacanza” della carica del capo dello stato. L’unico quadrante in cui ha funzionato un raccordo tra iniziativa americana e sunniti è stato quello iracheno, ma in una logica e in un contesto che confermano i punti di crisi della dottrina Rice. Mentre infatti ha effetti più che eccellenti nel “triangolo sunnita” il raccordo tra le forze americane del generale David H. Petraeus e i capi tribù e rais sunniti in funzione antiterrorista, continua a essere quasi nullo l’influsso politico dei regimi sunniti sul governo di Baghdad. Egitto, Arabia Saudita e Giordania non hanno aiutato a risolvere un solo contenzioso tra quelli che hanno paralizzato da due anni e paralizzano tuttora prima il governo di al Jaafari e oggi quello di al Maliki. Una paralisi pericolosa, che rischia di depotenziare gli effetti pur clamorosi della nuova strategia militare americana. In questo contesto, non si vede come e perché sia possibile rovesciare la tendenza e conseguire ad Annapolis effetti positivi grazie al “fronte sunnita”. Cioè a dire, proprio sul fronte di crisi in cui i più stretti alleati degli Usa – i sauditi – mai sono stati parte della soluzione e sempre sono stati parte del problema, a causa del loro fondamentalismo religioso antiebraico, come salta subito agli occhi se si analizza il merito del contenzioso israelo-palestinese. Uno dei punti di rottura più insanabili tra Olmert e Abu Mazen, infatti, è stato il rifiuto di quest’ultimo di riconoscere il carattere di “stato ebraico” a Israele. Non è questa una questione nominalistica, ma è “la” questione che ha come conseguenza immediata una o l’altra soluzione del fondamentale problema del rientro dei profughi palestinesi. Se infatti si riconosce a Israele il carattere di “stato ebraico”, automaticamente decade la possibilità concreta di immettervi 3-4-5 milioni di profughi palestinesi – che lo trasformerebbero in uno stato a maggioranza araba – e si deve percorrere la strada dell’indennizzo e del rientro riservato a poche decine di migliaia di loro (i profughi del 1948 ancora in vita). Il punto è che Israele – senza ombra di dubbio – è e ha il pieno e totale diritto di essere considerato uno “stato ebraico”. Esattamente questa infatti è stata la scelta dell’assemblea dell’Onu del 29 novembre 1947, che nella risoluzione 181, peraltro, non solo riconobbe in pieno la definizione di “Jewish State”, ma ne fornì anche la specifica motivazione storica che portò l’Onu a distinguerlo dall’Arab state of Palestine (e non dallo stato palestinese). Due stati, dunque, non indistinti, o delimitati solo territorialmente, ma esplicitamente definiti dalla diversa appartenenza etnica. Dal 1947 a oggi tutto il mondo arabo e musulmano rifiuta proprio quella definizione di stato ebraico e la considera blasfema rispetto ai capisaldi dell’islam. Il punto – stoltamente – è sempre stato considerato secondario dall’Europa e dagli Stati Uniti, che non hanno mai forzato un accordo né a Madrid né a Oslo nel 1993 né successivamente. Tantomeno, Usa e Ue, hanno mai valutato il peso terribile di questo punto in quel “piano Fahd” del 2002, che la Lega araba ha pure accettato nel 2007 (apparente successo sostanziale di Rice) e che prevede il riconoscimento arabo-islamico di Israele in cambio del ritiro dai Territori. Anche il piano Fahd, infatti, esclude il riconoscimento del carattere “ebraico” di Israele e questo impedisce ad Abu Mazen, oggi, di accettare la clausola che Olmert esige in rispetto alla legalità internazionale e come controparte a sostanziose concessioni territoriali. Gli scogli su cui il cammino che s’inizia ad Annapolis rischia di naufragare non sono rappresentati dalle colonie ebraiche o dalla linea di confine, argomenti spinosissimi, ma su cui – attraverso compensazioni – è più che possibile trovare un accordo, come fu già fatto da israeliani e palestinesi a Taba nel gennaio 2001. Tantomeno è oggi un elemento di crisi, la copertura palestinese al terrorismo kamikaze: dopo la guerra civile di Gaza, le forze armate dell’Anp e quelle di Israele hanno fatto straordinari passi avanti nel coordinamento e nella collaborazione in Cisgiordania. Il vero problema irrisolto e apparentemente irrisolvibile è quello del rientro dei profughi, ma soltanto perché è collegato al riconoscimento del carattere ebraico di Israele (nel merito, la comunità internazionale è disposta a offrire indennizzi monetari tali ai profughi da rendere la prospettiva del rientro addirittura svantaggiosa). Se il “fronte sunnita” avesse maturato su questo elemento una posizione evolutiva, Annapolis avrebbe addirittura potuto segnare un successo immediato. Ma non è stato così e l’irrigidimento dogmatico dei sauditi e degli altri paesi sunniti sull’argomento pare drammaticamente insuperabile. Si arriverà dunque – prima o poi – al punto in cui Stati Uniti e Europa dovranno prendere finalmente atto che il rifiuto di Israele non riguarda tanto – o soltanto – “la questione della terra”, ma – purtroppo – la questione dell’ebraismo, dell’indisponibilità anche degli islamici “moderati” di riconoscere il carattere ebraico di Israele, del diritto degli ebrei di avere uno stato in quanto tali. Solo quando questo processo sarà maturato, gli Usa saranno in grado di elaborare una diversa “dottrina” che completi quella ancora zoppa elaborata da Rice. Dottrina, beninteso, che è pur sempre un passo avanti rispetto a quella del puro e semplice “containment” passivo a cui – incredibilmente – sono fermi i democratici, con conseguenze imbarazzanti, come ben si è visto nella primavera del 2007 con l’incauta visita di Nancy Pelosi a Damasco che ha avuto l’unico esito di convincere Bashar al Assad di poter spadroneggiare quanto vuole in Libano, senza che un’eventuale Amministrazione democratica neanche se ne accorga.

Le cronache da Annapolis di Maurizio Molinari:

«Concluderemo il negoziato di pace entro il gennaio 2009». E’ questo l’impegno che Ehud Olmert e Abu Mazen hanno consegnato nelle mani di George W. Bush alla vigilia della conferenza di Annapolis che si apre oggi con la partecipazione di oltre quaranta Paesi.
Il presidente americano ha ricevuto nell’Ufficio Ovale il premier israeliano e il leader palestinese per due lunghi colloqui tesi a spianare la strada all’intesa sul negoziato per lo status definitivo dei rapporti fra lo Stato Ebraico e il futuro Stato di Palestina. E’ in questa cornice che, come ha raccontato la portavoce Dana Perino ai giornalisti accreditati alla Casa Bianca, i due ospiti hanno assunto un impegno preciso. «Il presidente Abbas e il primo ministro Olmert hanno entrambi detto che vogliono concludere il ciclo di negoziati prima che termini la presidenza Bush» ha detto Perino, precisando che «concludere significa arrivare a un accordo permanente su due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza».
Rendendo pubbliche le parole dette da Olmert e Abu Mazen nella riservatezza dello Studio Ovale, la Casa Bianca punta a disinnescare i perduranti disaccordi sulla dichiarazione congiunta che le due parti dovrebbero siglare ad Annapolis. «Non sappiamo se Olmert e Abu Mazen ripeteranno in pubblico ciò che hanno detto al presidente» ha comunque tenuto a precisare Dana Perino, riferendosi ai discorsi previsti per oggi dall’agenda del summit. L’indicazione come data ultima per l’intesa israelo-palestinese del 20 gennaio 2009, quando Bush lascerà la Casa Bianca, coincide con la preparazione di un vertice dal quale il Dipartimento di Stato si aspetta «l’inizio dei negoziati sullo status definito», cioè quelli che riguardano il futuro di Gerusalemme, la definizione dei confini e la sorte dei rifugiati del 1948. «C’è un’atmosfera positiva al vertice - spiega uno degli sherpa che ha preparato il summit - perché possiamo dare inizio alla fase conclusiva del negoziato».
In tale cornice Bush si è impegnato a «non fare imposizioni ma ad aiutare». Se Bill Clinton nei summit del 1993 a Washington e del 2000 a Camp David vestì, con alterna fortuna, i panni dell’«honest broker» (onesto mediatore), Bush descrive così il ruolo degli Stati Uniti: «Siamo dei facilitatori e sono ottimista sul risultato finale. Non possiamo imporre la nostra visione ma possiamo aiutare». Il termine-chiave «facilitatore» ricorda l’approccio che ebbero George Bush padre e l’allora Segretario di Stato James Baker alla Conferenza di Madrid del 1991, quella che ruppe il ghiaccio fra arabi e israeliani. George Bush figlio punta a «facilitare» su due fronti: da un lato il binario israelo-palestinese verso lo status definitiv, e dall’altro quello della normalizzazione arabo-israeliano grazie al sostegno dei sauditi, presenti ad Annapolis con il ministro degli Esteri.
Terminati gli incontri, Bush ha lasciato la guida delle operazioni a Condoleezza Rice, padrona di casa al Dipartimento di Stato per una cena di inizio lavori con le delegazioni ospiti, studiata per rompere il ghiaccio in vista di questa mattina. Ed è proprio Bush, intervenendo quando in Italia è notte, che ha preso la parola durante la cena rinnovando l’ottimismo: «La pace in Medio Oriente è a portata di mano».

Dolci di zucca, volontarie dell’Esercito della Salvezza e limousine nere con bandiere saudite. Vetrine, tavoli e marciapiede del «HardBean Coffee & Bookseller» sono il palcoscenico dello sbarco nella cittadina coloniale della Chesapeake Bay di una tribù di gorilla, diplomatici e principi che vengono dalle dune del Medio Oriente alla ricerca di una pace che da queste parti non crea troppe emozioni. Il piccolo caffè sulla Main Street, a breve distanza dalla base navale dove si svolge il summit, è una summa dell’identità anglosassone: vende libri sulle avventure di Thomas Jefferson, gadget per gli appassionati di golf, cappuccini giganti e cibi ultracalorici come il molto gettonato «pumpkin pie».
Gli avventori sono gente dell’Atlantico, poche parole e molta privacy. Da qui l’evidente invadenza dell’esercito di lunghe limousine nere, con targa diplomatica e le bandiere delle nazioni arabe invitate. Quelle più numerose sono saudite, si impossessano del largo di fronte al Market Place e fanno scendere principi e diplomatici, con un numeroso seguito di attendenti in evidente difficoltà non solo per la pioggia incalzante ma per le strette strade ciotolate lasciate in eredità dall’Impero britannico. I locali assistono indifferenti all’invasione delle auto degli sceicchi, come anche ai gipponi dai vetri anneriti dei servizi di sicurezza israeliani.
Se non fosse per il cartello «Don’t be chicken about peace» (Non abbiate paura della pace) esposto timidamente da un negozio di oggetti d’arte Annapolis sembrerebbe estranea, impermeabile a quanto vi avviene. Come nel caso delle volontarie in giubba rossa dell’Esercito della Salvezza che di fronte all’«HardBean Coffee & Bookseller» passeggiano fra la moltitudine di feluche mediorientali continuando a chiedere «un biglietto da 100 dollari dalle vostre tasche» con la mente rivolta più ai poveri da soccorrere in Maryland che ai futuri confini fra Israele e Stato palestinese. Nulla da sorprendersi dunque se il comandante della base della Us Navy si è imposto sul cerimoniale del summit ottenendo di lasciare in bella mostra nella Memorial Hall - la sala che ospiterà le oltre quaranta delegazioni - il drappo con il «motto immortale» dei cadetti: «Don’t give up the ship» (Non mollare la barca).
A Washington qualcuno aveva pensato che sarebbe stato opportuno rimuovere per qualche ora la bandiera con una frase tanto inadatta a favorire compromessi negoziali ma alla fine ha prevalso l’eredità granitica del ministro della Marina George Bancroft, che nel 1845 fondò con 50 giovani l’Accademia di Fort Severn che ora ne ospita oltre quattromila. Oltre al «pumpkin pie» ed al drappo dal granitico motto le centinaia di delegati stranieri devono convivere anche con il busto del capo indiano Tecumesh, eretto in omaggio ad un coraggioso guerriero sconfitto divenuto oggi mascotte della locale squadra di football. Se il contrasto fra ospiti e locali non potrebbe essere più evidente la Casa Bianca legge nello sbarco saudita la conferma di un rapporto privilegiato con Riad che si estende dall’Iraq al Libano fino a Medio Oriente, presentandosi come una scelta strategica di lungo termine in chiave anti-Iran. «E’ la Texas Connection» come riassume il «New York Times». \



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