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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.11.2007 Le aperture di Olmert in vista della conferenza di Annapolis
le analisi di Fiamma Nirenstein e Maurizio Molinari, la cronaca di Davide Frattini

Testata:Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Davide Frattini
Titolo: «Olmert promette: stop a nuove colonie e via alla liberazione di altri palestinesi - Si sta arenando l'incontro voluto da Bush per la pace in Medio Oriente -Le concessioni di Olmert «Basta avamposti illegali»»

Dal GIORNALE del 20 novembre 2007, l'analisi di Fiamma Nirenstein

Stentati ma volenterosi passi sulla via della conferenza di Annapolis nel Maryland mentre in coro l’opinione pubblica israeliana e quella palestinese seguitano a ripetere: ma che cosa ci andiamo a fare? Ogni giorno sembrano sorgere ostacoli sempre maggiori per qualsiasi accordo, eppure ieri il primo ministro Ehud Olmert si è incontrato con il Presidente palestinese Mahmoud Abbas, al secolo Abu Mazen, per vedere se alla fin fine si possa arrivare a un documento comune, così desiderato da Condi Rice come conclusione del summit. La risposta per ora, dopo 90 minuti di incontro, è sempre «no» anche se ogni tanto si fa balenare un qualche «ni»: gli sforzi per compiacere l’ospite sono veramente notevoli e la portavoce di Olmert Miri Eisen ha parlato di «progresso» e di un nuovo incontro per questa sera.
Olmert ha portato ad Abu Mazen il risultato immediato di altri cinquecento prigionieri palestinesi che verranno liberati nei prossimi giorni per rafforzare il raìs; su questo gesto è stato invece categorico il Capo di Stato maggiore Gabi Ashkenazi: è pericoloso e inutile, ha detto ieri.
Anche Bibi Netanyahu, il capo dell’opposizione, si oppone fieramente a qualsiasi concessione senza ottenere niente in cambio: «Vogliamo una pace seria, non surreale - ha detto -. Abbiamo un partner che parla ma non agisce». Olmert di fatto ieri ha ufficialmente confermato di fronte al Gabinetto che Israele non stabilirà nessun nuovo insediamento in Cisgiordania e comincerà a smantellare gli avamposti illegali. Lo fa, ha detto, perché così la Road map impone, e di nuovo ha così legittimato il documento del 2004 come base per ogni piano di pace e per la prosecuzione dei colloqui dopo Annapolis in cui, ha ribadito per l’ennesima volta, dovremo esser pronti a dolorose concessioni.
Il fatto è che la Road map parla anche della sicurezza di Israele come precondizione per stabilire la rotta verso lo Stato palestinese, e che Abu Mazen, invece, vuole chiudere su impegni per la consegna di territori, Gerusalemme, i profughi. E mentre si pensa che i conflitti territoriali, per quanto con difficoltà, possano tuttavia essere risolti, la vera questione si è presentata in tutta la sua drammaticità quando Sa’eb Erakat, il più classico fra i negoziatori palestinesi, ex sodale di Arafat, ha dichiarato, seguito da un cospicuo coro fra cui anche quello inaspettato degli arabi israeliani, che i palestinesi non riconosceranno mai Israele come Stato ebraico. Il tema viene sollevato con toni teorici, sostenendo che una religione non può fondare uno Stato: ma che gli ebrei siano una nazione e che solo in virtù di questo e con una vistosa maggioranza di cultura laica ed ebraica, sono rimasti in vita, lo sanno tutti. Questo punto di vista, però, funge da armonico accompagnamento alla questione dei profughi, la più problematica di tutte; Abu Mazen stesso ha di nuovo reclamato il diritto al ritorno ovunque vogliano, ovvero anche nel territorio israeliano, e non solo nello Stato palestinese prossimo venturo. Di fatto, dunque, si tratta di una negazione del diritto di Israele all’esistenza, una presa di posizione che sembra prendere coraggio, non essendosi mai espressa in termini così aspri e alla vigilia di una conferenza di pace, da un contesto internazionale influenzato dalla posizione dell’Iran che dichiara Israele illegittimo a ogni momento. Dunque: Abu Mazen è forse un partner per la pace, ma proprio la sua debolezza lo sospinge verso la ricerca di un consenso nel vecchio modo di pensare palestinese alla Arafat, che rende impossibile accordi ragionevoli sul tema di base: due Stati per due popoli.

Da La STAMPA, l'analisi di Maurizio Molinari:


Il summit sulla pace in Medio Oriente che dovrebbe celebrarsi ad Annapolis, in Maryland, il 27 novembre è avvolto in una nube di segreti e incertezze. A lavorare alla preparazione è il Dipartimento di Stato ma al momento non c’è un’agenda dei lavori né una lista degli invitati ed anche la data resta dubbia visto che alcune fonti parlano di 48 ore di colloqui fra Washington e Annapolis, il 26 e 27 novembre, e altre di un’unica giornata, il più breve possibile. Il padrone di casa sarà il presidente americano, George W. Bush, ma i due invitati sicuri fanno di tutto per non parlare pubblicamente dell’agenda: il premier israeliano Ehud Olmert dice da Gerusalemme che «i negoziati veri inizieranno solo dopo il summit» e il presidente palestinese Abu Mazen non conferma la redazione di un testo da approvare ad Annapolis.
In tale atmosfera nulla da sorprendersi se manca ancora la lista degli invitati. Ci sono, secondo fonti diplomatiche americane ed europee a Washington, almeno due nodi da sciogliere. Il primo ha a che vedere con la descrizione dello status finale della pace israelo-palestinese che dovrebbe essere messo per iscritto ad Annapolis, per affidarne poi la realizzazione pratica a seguenti negoziati fra le parti. Lo status finale ha tre grossi ostacoli: la definizione dei confini, la sorte di Gerusalemme e il ritorno dei rifugiati palestinesi. Quest’ultimo nodo continua a dividere Olmert e Abu Mazen, per via del fatto che i palestinesi non vogliono rinunciare al diritto al ritorno di tutti i profughi del 1948 e dei loro diretti discendenti, una massa che porrebbe fine all’identità ebraica dello Stato di Israele. Proprio sui profughi si interruppe nel 2000 il summit di Camp David fra Bill Clinton, Ehud Barak e Yasser Arafat e Bush teme di ripetere quel fallimento.
Il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, non ha mai celato la convinzione che se Arafat nel 2000 rifiutò le concessioni di Barak offerte da Clinton fu anche per la carenza di «sostegno regionale alla pace», ovvero di Egitto e Arabia Saudita. Da qui l’importanza per Washington che al summit di Annapolis siano presenti anche i principali Paesi arabi. Ma Riad tarda a dare il proprio avallo: i risultati del vertice di Annapolis potrebbero non essere talmente importanti da giustificare la rottura del tabù di sedersi per la prima volta in 59 anni allo stesso tavolo con lo Stato di Israele. A confermare le difficoltà è il fatto che la Rice non esclude una nuova missione in Medio Oriente.

Di seguito, la cronaca di Davide Frattini:


GERUSALEMME — La distanza sta nei numeri: 441 prigionieri palestinesi verranno rilasciati dagli israeliani, Abu Mazen aveva chiesto la liberazione di duemila detenuti. La distanza sta nelle parole: quelle non ancora scritte per il documento finale, da leggere insieme al vertice di Annapolis. Il premier Ehud Olmert e il leader della Mukata si sono incontrati a Gerusalemme per provare a superare gli ostacoli che hanno rallentato i lavori delle squadre di negoziatori. Sono loro due — spiegano gli analisti — quelli che vanno più d'accordo. Sono anche quelli che credono di più nel summit convocato dagli americani. «È stato un colloquio difficile? Sì. Le differenze rimangono? Sì», commenta Saeb Erekat, il veterano tra i negoziatori palestinesi. Più positiva Miri Eisin, portavoce di Olmert: «Non c'è un'atmosfera di crisi, c'è sufficiente accordo su abbastanza punti».
La conferenza è prevista per la fine del mese, tra il 25 e il 27 novembre. Fonti da Washington parlano di un possibile slittamento fino al 10 di dicembre. L'accademia navale di Annapolis, in Maryland, è pronta a ospitare i rappresentanti da una cinquantina di Paesi. Condoleezza Rice, segretario di Stato americano, non ha ancora spedito gli inviti ufficiali. Gli arabi decidono fra qualche giorno se e come partecipare. Tutti vorrebbero la presenza dei sauditi, con un diplomatico di alto livello. Da Riad, il principe Saud Al Faisal, ministro degli Esteri, manda segnali negativi.
Olmert vola oggi in Egitto per incontrare il presidente Hosni Mubarak e presentargli la posizione israeliana. Dal suo governo, ha ottenuto il via libera alla scarcerazione dei prigionieri, con il voto contrario di Avigdor Lieberman (del partito ultranazionalista Israel Beitenu), dei ministri religiosi e di Shaul Mofaz, ex ministro della Difesa passato ai Trasporti, che sfida Olmert dalla destra di Kadima. Gabi Ashkenazi, capo di Stato maggiore, è contrario al rilascio di sedici detenuti del Fatah che vivono a Gaza, è convinto che sia un premio ingiustificato ad Hamas.
Ai ministri, il premier ha anche annunciato un congelamento degli insediamenti e l'evacuazione degli avamposti illegali, come richiesto dalla road map. «Non possiamo ripetere che il processo di pace delineato dal presidente Bush è un elemento strategico per Israele e poi non rispettare quello che viene indicato». I palestinesi — e la road map — vogliono un blocco totale nelle costruzioni, compresa quella che viene chiamata «crescita naturale » in insediamenti già esistenti.
Olmert parte per Annapolis preoccupato dalle pressioni di Lieberman e dei partiti ultraortodossi nella coalizione. E da una nuova accusa di Micha Lindenstrauss, il Controllore dello Stato (carica paragonabile in Italia al presidente della Corte dei Conti): quand'era ministro dell'Industria, il primo ministro avrebbe aiutato un attivista del Likud a ottenere fondi per la sua impresa.
Seduto tra Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano, e Salam Fayyad, premier palestinese, Tony Blair ha annunciato una serie di progetti per far decollare l'economia palestinese, la sua prima mossa da inviato del Quartetto: da zone industriali a Hebron e Gerico al rilancio del turismo dei pellegrini verso Betlemme. Un piano, approvato dagli israeliani, prevede anche la costruzione di una rete di fognatura a Gaza.
Dialogo Il premier israeliano Olmert tra la Livni e il presidente palestinese Abu Mazen


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