Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La memoria profanata concerto rock in un lager, borsa di studio dedicata a un ufficiale di Salò, nel liceo dedicato a una vittima della Shoah
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica Autore: Francesco Battistini - Fabrizio Ravelli Titolo: «Belgrado, concerto rock nel campo di sterminio - Il repubblichino e l´ebrea, polemica a Mantova»
Dal CORRIERE della SERA del 2 novembre 2007:
BELGRADO — Se questo è un lager. Da qui partivano i vagoni piombati e si vedono ancora le rotaie: adesso c'è un'autofficina Nissan. Lì arrivava il camion che caricava i bambini, li gassava, li rovesciava nelle fosse comuni: hanno piazzato un chiosco che rosola cevapcici. Dentro la torretta di guardia della Gestapo, scalcinata e senza vetri, dormono barboni e pittori di strada. Nei blocchi dei prigionieri, corridoi bui e sbarre, abitano zingari e sfollati delle guerre balcaniche. Ogni cella è diventata un monolocale con lo zerbino, il gatto, il nome sulla porta, le scarpe fuori, la biancheria stesa. «La mia famiglia è qui da quindici anni — racconta Sara Jovanovic —. Veniamo dalla Krajina. Non abbiamo un contratto, non paghiamo niente. Eravamo senza casa, mio padre non sapeva dove portarci. Siamo entrati e basta». Se questo era un lager, non lo è più. L'unica parte restaurata è una palazzina bianca laggiù, verso la riva della Sava. Una volta era l'ospedale degli ebrei, quello raccontato nelle lettere di Hilda Dajc, l'Anna Frank della Serbia, dove i nazisti massacravano anche medici e infermieri. Ai tempi di Milosevic, fu venduto a una società privata amica del regime. Poi è passato di mano in mano. C'è voluto un po' di tempo, a risistemarlo. Ma finalmente la memoria è stata rimossa e quel vecchio, inutile ospedale abbandonato è diventato la sfavillante «Poseydon Hall». Una specie di discoteca. Ci hanno messo pure un'agenzia di viaggi, un bar, gli uffici. I muri delle torture, pieni di scritti e di graffiti, li hanno tirati giù. Parquet, poltroncine, luci stroboscopiche: i muratori hanno lavorato sodo. E domani sera, tutto sarà pronto: arriva da Bristol la band inglese dei Kosheen. Per il primo concerto rock in un campo di sterminio. Il lager dimenticato di Sajmiste è una vergogna d'Europa, ma questo Rocky Horror Show non scandalizza nessuno. «Ci sono morte 48mila persone, è l'unico lager che i libri non citano mai — dice Aleksandar Mosic, ex prigioniero —. L'hanno lasciato cadere a pezzi. L'hanno cancellato. Adesso ci vanno pure a ballare sopra: è come celebrare un matrimonio in un cimitero». Sajmiste, che i tedeschi chiamavano Zemlin, nacque sulla vecchia fiera campionaria di Belgrado e fu un campo di concentramento unico in Europa, così visibile e nel cuore d'una città: attraversi il ponte Brankov, che va a Novi Beograd, e le baracche dello sterminio le scambi per una delle tante baraccopoli lungo il fiume. Fra il '41 e il '44, furono internati 100mila fra ebrei, rom, comunisti. C'erano molte donne, schiave del sesso. C'erano i loro bambini. Niente Zyklon B nelle docce, né forni. Li caricavano su un camion a gas fatto venire apposta da Berlino, promettevano il trasferimento in posti meno disumani e per strada li sopprimevano. Voluto da Eichmann in persona, Sajmiste era amministrato dalle Ss che se ne vantavano: solo il 10 per degli ebrei serbi scampò al genocidio e la Serbia fu presto proclamata da Hitler «l'unico Paese europeo senza giudei». Prima di fuggire, i nazisti riempirono di fosse i boschi intorno a Belgrado. Molti cadaveri vennero bruciati, le ceneri gettate nella Sava. Il lavoro rende liberi, il libero mercato anche: di fare quel che si vuole. La speculazione a Sajmiste, 15mila metri quadri da ristrutturare, è appena iniziata. «Ma questa gente sa che cos'abbiamo passato lì dentro? », si chiede Mihailo Berberijan, 101 anni. No, non lo sa: «Sono tre anni che organizzo eventi — cade dalle nuvole Nenad Krsmanovic, 29 anni, manager della Poseydon Hall —. Che differenza c'è fra una gara di scherma o un concerto rock? È il sindaco che ci ha venduto l'area, è lui che deve pensare al lager». «È terribile che facciano un concerto lì dentro — si lava le mani Zeljko Ozegovic, il sindaco —. Ma io non posso farci nulla: ormai è una proprietà privata». I belgradesi sono tanto abituati ad averlo sottocasa, Sajmiste, da non farci più caso. Già sotto Tito se ne parlava poco: quell'orrore era cresciuto davanti agli occhi di tutti e nelle lettere di Hilda Dajc, che vi entrò e vi morì da infermiera volontaria, si legge un'accusa alla codardia del «mondo fuori». Nel 1987, prima di Milosevic, il governo dichiarò Sajmiste «eredità culturale della città di Belgrado», ma tutto finì lì. Oggi, qualche ex internato che non sapeva dove andare, ci abita di fianco. E l'unica lapide in memoria, scoperta nel 1995, non cita ebrei né rom, è incisa in parole gelide come il granito («Sull'area della vecchia Fiera, nel 1941 la Gestapo tedesca aprì un campo di concentramento. Vennero uccise più di 40mila persone, fra oppositori e persone provenienti da ogni parte del Paese ») e sta in un'aiuola per la pipì dei cani, fra bottiglie scolate di birra. La birra: lager o rossa, domani è compresa nel biglietto della serata rock. I Kosheen canteranno «Hungry », affamato, ma senza riferimenti alla fame nera di Sajmiste. Poi il loro successo, «Damage». La canzone perfetta, il giusto ritornello: «Guarda il danno che abbiamo fatto ».
Dalla REPUBBLICA del 1 novembre, un articolo di Fabrizio Ravelli:
Un caso segnato da qualche lettera ai giornali locali, dall´indignazione di pochi, e dall´impressionante silenzio delle istituzioni locali e dei partiti. Un caso nato pochi mesi fa, quando i nipoti di Ferruccio Spadini, maggiore della Gnr (la Guardia nazionale repubblicana, polizia militare fascista, ndr) istituirono una borsa di studio in memoria del nonno, destinata a uno studente del complesso che comprende la scuola "Luisa Levi". Il preside parlò di Spadini come di una «figura incolpevole». Il ragazzino vincitore della borsa disse che era «un martire fascista morto difendendo le sue idee». Ferruccio Spadini, professore mantovano, era il comandante della guardia repubblichina a Breno, in Valcamonica. Organizzava e dirigeva i rastrellamenti, arrestava i partigiani e li consegnava ai tedeschi, teneva come ostaggi i familiari dei renitenti e dei disertori. Pochi giorni dopo la liberazione tentò la fuga e venne arrestato in Val di Sole. Fu processato e condannato a morte per collaborazionismo e complicità nella morte di alcuni partigiani. Un suo ricorso in Cassazione venne respinto. La domanda di grazia non fu presa in considerazione dal Guardasigilli Palmiro Togliatti. Il 13 febbraio del 1946 Spadini venne fucilato, pochi mesi prima dell´amnistia. Nel 1960 i suoi familiari presentarono un nuovo ricorso in Cassazione. Le testimonianze di tre ex-partigiani (la più importante fu quella di don Carlo Comensoli) fecero sì che venisse assolto post-mortem dall´accusa di concorso in omicidio. Il reato di collaborazionismo (che da solo avrebbe giustificato la pena capitale) fu coperto dall´amnistia. La famiglia Spadini poté rientrare in possesso dei beni che erano stati confiscati. Quando l´istituzione della borsa di studio venne deliberata, racconta Gabriella Ramaroli, rappresentante dei genitori, «il dirigente ci disse che Spadini era un professore, amante delle Lettere, morto alla fine della seconda Guerra mondiale». Il caso esplose alla consegna del premio (800 euro), quando i giornali locali scrissero che era stata «riabilitata» la memoria di un «padre di famiglia e buon cristiano», nonché «martire fascista». Protestarono l´Anpi, la direttrice dell´istituto di Storia contemporanea Maria Bacchi, il presidente della Comunità ebraica Fabio Norsa, numerosi insegnanti e genitori. Protestarono, innanzitutto, i familiari di Luisa Levi: «Crediamo fermamente che con questa intitolazione si cerchi di far credere che il passato è passato, che bisogna dimenticarsi di quello che è successo... Noi pensiamo che la fucilazione del maggiore Spadini sia stata una cosa ingiusta. Ma il maggiore ha rappresentato una pagina vergognosa per l´Italia e per l´Europa intera...». Un solo esponente della famiglia, Leonello Levi, solidarizzò con gli Spadini. Poteva essere un´occasione per discutere. «Ho sempre pensato che servisse un confronto dentro la scuola - dice Maria Bacchi, direttrice dell´istituto di Storia contemporanea e autrice di un libro su Luisa Levi - ma era impossibile l´equivalenza fra una vittima e un carnefice, nell´ignoranza dei fatti storici». La Voce di Mantova, quotidiano che l´anno scorso pubblicò alcuni articoli antisemiti, l´ha derisa come «pasionaria sessantottina» e «capopopolo della morale». Fabio Norsa, presidente della Comunità ebraica, si stupisce del silenzio di istituzioni e partiti: «Un silenzio di tomba. Eppure, a parole, sono tutti antifascisti. E mi chiedo: perché, dopo 47 anni, questa iniziativa per riabilitare Spadini? Se volevano riabilitarlo, potevano contribuire alle ricerche della scuola Luisa Levi sull´antisemitismo». Continua la Bacchi: «Ma questo avrebbe significato assumersi una responsabilità storica. Invece gli Spadini mettono sullo stesso piano il nonno repubblichino e la bambina ebrea». La faccenda si è trascinata senza slanci. Il provveditore ha consigliato, pilatescamente, che la borsa di studio Spadini venisse dirottata al liceo classico. Alla fine, tre giorni fa, il Consiglio di istituto ha respinto, a maggioranza risicata, il progetto, e ha cancellato la borsa. Paolo Comensoli, dirigente regionale scolastico, era soddisfatto: «Democrazia e fascismo non sono la stessa cosa, e non si possono confondere». Lui è il nipote di don Carlo Comensoli, il prete partigiano che venne arrestato da Spadini, ma che in Cassazione testimoniò in suo favore: «I figli di Spadini vennero a chiedere aiuto a mio zio, per poter riavere i suoi beni. Mio zio era un prete, e si prestò a un gesto umanitario. Che, però, non interpretò mai come una riabilitazione». Barbara Spadini, maestra in una scuola elementare che fa parte del complesso Luisa Levi, annuncia che non si arrenderà. Promette una nuova battaglia per commemorare la figura del nonno. «Il nostro intento è stato di carattere culturale e memoriale. Ne è nato uno scontro ideologico e politico che non abbiamo mai cercato», dice. «Scriverò un libro su mio nonno. Bisogna saper dividere il fascismo, che può esser stato discutibile, dagli uomini che ne facevano parte». Si è persa l´occasione per convergere su un´unica memoria, e dire che tutti vanno rispettati perché erano figli del loro tempo». Del nonno dicono che «salvò la vita a molti partigiani». Insomma, un muro contro muro. Maria Bacchi dice: «E come se si volesse restare legati ai sentimenti famigliari, per cui ognuno si piange i suoi, e sono tutti uguali». Fabio Levi, docente di Storia contemporanea a Torino, che segue attentamente queste vicende mantovane, commenta: «Bisogna dire che la cancellazione della borsa di studio è stata una vittoria. Ma anche che questo caso esemplare dimostra come non bisogna essere tanto ottimisti. Si fa confusione fra soluzione giuridica e giudizio storico. C´è un unanimismo di facciata sulle questione della memoria, che nasconde in realtà grandi problemi». Viene di lì, con tutta evidenza, il silenzio con cui le istituzioni hanno accolto il caso del repubblichino e della ragazza ebrea, e delle loro memorie divise.