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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera - Il Manifesto Rassegna Stampa
17.10.2007 I pregiudizi di Igor Man e Benjamin Barber, la tragicomica sottovalutazione di Uri Avnery
tre analisi sulla visita a Teheran di Vladimir Putin, che non convincono per nulla

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Manifesto
Autore: Igor Man - Ennio Caretto - Uri Avnery
Titolo: «Teheran, la mossa del piccolo zar - «L'abbraccio Mosca-Teheran? Colpa degli Usa» - Che ne facciamo dell'Iran? Israele, gli Usa, e la prossima guerra»

A pagina 28, La STAMPA del 17 ottobre 2007 pubblica un articolo di Igor Man sulla visita del presidente russo Vladimir Putin a Teheran.
Man definisce "intrigante" la circostanza che "Putin con la sua visita abbia legittimato la repubblica in turbante sparigliando così le carte."
"Intrigante" ? Si direbbe piuttosto pericoloso e destabilizzante.
Ma, sia pure in un articolo piuttosto confuso, che lascia un'impressione di reticenza, i pregiudizi di Igor Man, evidentemente molto forti, finiscono per emergere.
Definire ' "intrigante" sparpagliamento delle carte a favore di un regime che vuole cancellare Israele dalla carta geografica ne è appunto un esempio.
Che fa il paio con la tesi secondo la quale chi dia il minimo segno di essere disponibile alla trattativa con Israele e a combattere il terrorismo altro non sarebbe che "un  possibile Quisling". E' il caso di Abu Mazen.

Ecco l'articolo:


Il viaggio in Iran di Putin, Zar postmoderno partorito dalla costola del Kgb, è davvero storico, come un po’ tutti dicono e scrivono? Vediamo.
Nella copiosa antologia delle grandi ricorrenze, l’odierno viaggio di Putin storico certamente lo è, poiché cade più di mezzo secolo dopo quello di Stalin a Teheran (1943). Allora Stalin plagiò con ostentata bonomia da caserma il pragmatico Churchill o Roosevelt l’idealista. Ed invero quella «conferenza» chiarì gli obiettivi finali della seconda guerra mondiale. I tre grandi alleati decisero lo sbarco in Normandia, bocciando così il piano di Churchill teso a bloccare l’influenza sovietica nei Balcani (storico senz’altro, dolorosamente storico il successivo vertice di Yalta nel 1945, padre infausto del cosiddetto equilibrio del terrore atomico).
Il bulbo del vertice principiato ieri a Teheran ha un nome sinistro: nucleare. Come sappiamo l’Iran non intende rinunciare alla «bomba» che ovviamente definisce «pacifica». Ora sarebbe sbagliato pensare che Putin appoggi il conclamato «diritto» dell’Iran al nucleare.
Il fatto che la Russia si sia imposta come intermediario autorevole fra l’Occidente e la Repubblica Islamica del bombastico presidente Ahmadinejad non tragga in inganno. Putin non ha intenzione alcuna di battersi per il nucleare in turbante e diffida degli ayatollah. Nel febbraio del 2005 Mosca propose a Teheran di «lavorare» in Siberia (Angarsk), in territorio sovietico dunque, l’uranio destinato alle future centrali iraniane. La proposta era allettante ma Khamenei e il suo pupillo (sì, lui, Ahmadinejad) la rifiutarono. Per orgoglio nazionalista. L’offerta russa presupponeva l’arresto immediato, da parte iraniana, della «lavorazione» di materiale atomico, a fini pacifici.
Qualcuno ha scritto che questo viaggio di Putin ufficialmente dovuto alla Conferenza (per la sicurezza) dei cinque Paesi rivieraschi del Mar Caspio (Kazakhstan, Turkmenistan, Azerbaigian assieme a Russia e Iran) in verità ripropone la grandeur ch’è nel Dna dei russi il sogno dei Mari Caldi di Caterina II. La proposta, al vertice, l’ha formulata Ahmadinejad e sembra piuttosto retorica: creare, e velocemente, un’organizzazione per la sicurezza e stabilità dei Paesi rivieraschi. Nel fondo di questi mari «il petrolio, il gas si prendono con le mani». Con l’abituale foga, infine, Ahmadinejad propone ai suoi ospiti un patto di sicurezza che scoraggi «folli avventure istigate dagli apostati». Ma qui va detto che, pur avendo votato sanzioni all’Iran, la Russia rimane partner privilegiato di Teheran. Business is business.
Putin non ha intenzione alcuna di ritirarsi a vita privata quando, a breve, scadrà il suo mandato. Chiaramente il piccolo zar postmoderno sta cercando il pretesto per rimanere al Cremlino. Un pretesto plausibile. L’impresa è difficile, siamo solo agli antipasti. Con un’aggravante: il Medio Oriente, tornato ai terribili giorni della cosiddetta bomba a tempo. Il gran da fare che in queste settimane si sta dando in Medio Oriente la signora Condy Rice rivela una grave preoccupazione: incombono le elezioni presidenziali in Libano sul quale la Siria non rinuncia ad avere droit de regard, i miliziani di Hezbollah hanno rinserrato le fila, sono di nuovo una minaccia concreta. Di più: gli sforzi della Signora Condy, la sua coraggiosa dichiarazione: «E’ tempo che in Palestina ci siano due Stati» hanno ricevuto soltanto «attenzione di rito». Ancora: si consuma giorno dopo giorno la speranza di Abu Mazen: non essere più trattato come un possibile Quisling.
Se a tutto questo si aggiungono le provocazioni di Hamas e di Hezbollah, non riesce difficile ipotizzare un’improvvisa mazzata di Israele a chi vuole cancellarlo.
Quando si è visto in pericolo, ricordiamolo, Israele non ha mai chiesto il permesso a nessuno: improvvisamente s’è mosso e presto ha schiacciato il drago. Così stando le cose, appaiono francamente patetici gli sforzi (interessati) della Russia, di Condoleezza, dello stesso Putin, di D’Alema per una Conferenza negli Stati Uniti a metà dicembre. In agenda una anemica «dichiarazione di intenti» volti alla pace... Non c’è da scialare. Rimane il fatto, intrigante, che Putin con la sua visita abbia legittimato la repubblica in turbante sparigliando così le carte.

Ennio Caretto a pagina 17 del CORRIERE della SERA intervista il politologo americano Benjamin Barber, che non trova di meglio che dare la colpa dell'avvicinamento tra Russia e Iran all'amministrazione Bush.
Una visione assolutamente miope che trascura la continuità e la pervicacia con la quale Mosca e Teheran hanno perseguito i loro obiettivi geopolitici.
Ricordiamo soltando due circostanze, che riguardano l'Iran.
I recenti tentativi di dialogo tra Stati Uniti e Iran, intrapresi per stabilizzare l'Iraq sulla scorta dei suggerimenti della commissione Baker,  si sono risolti in nulla di fatto.
Precedentemente, l'Iran aveva rifiutato le scuse del segretario di Stato dell'amministrazione Clinton, Madleine Albright, per il sostegno americano al colpo di  Stato contro Mossadeq e al regime dello Scià. E assieme alle scuse, l'offerta di dialogo.

Ecco il testo:

ASHINGTON— Secondo Benjamin Barber, fondatore del «pensatoio» della sinistra moderata Democratic collective, Putin ha intrapreso una politica antiamericana: «Una svolta che causerà molti problemi». «Vi è stato costretto dagli Usa e in parte anche da Nato e Ue». Autore de «L'impero del male» e di «Consumed», Barber pensa che l'asse Usa-Ue abbia isolato la Russia.
Andando da Ahmadinejad, Putin rischia la reputazione?
«Più agli occhi dell'America che dell'Europa, perché siamo noi non voi a considerare l'Iran un nemico. Ma è un rischio calcolato, che ha l'appoggio della maggioranza dei russi e degli iraniani. I due leader hanno una cosa in comune: Bush li ha umiliati, entrambi si sentono esclusi, ci ritengono una minaccia. Certo il Cremlino ha sempre ambito a portare Teheran nella propria sfera, ci tentò Stalin ma fu bloccato da Truman.
E il Golfo Persico e il Medio Oriente sono sempre stati contesi come clienti dal Nord, cioè la Russia e l'Iran, e dall'Ovest, cioè Usa e Ue. Ma sono fattori secondari: oggi Mosca e Teheran mirano a rafforzarsi a vicenda».
Avvicinamento inevitabile?
«Siamo stati noi a farli avvicinare. Putin avrebbe continuato a cooperare con noi se la Nato non fosse arrivata alla sua porta e l'Ue non avesse assorbito i suoi ex Stati satelliti, e in particolare se Bush non avesse varato lo scudo spaziale. E Ahmadinejad avrebbe accettato il dialogo se Bush non avesse invaso l'Iraq e avesse mediato in Medio Oriente».
Conseguenze?
«Si può ancora evitare un Iran nucleare come si è evitata una Nord Corea nucleare: negoziando. Una guerra Usa-Iran è improbabile, non perché l'amministrazione Bush non ne sia capace, ma perché il Pentagono sa che non potrebbe sostenerla, e sa che anche solo un bombardamento scatenerebbe una crisi mondiale».

A pagina 13 del MANIFESTO, Uri Avnery commette un errore analogo sostenendo che Israele e Iran sono resi "alleati naturali" dalla geografia.
Un caso tragicomico di sottovalutazione del ruolo dell'ideologia al potere a Teheran.
Per il khomeinismo Israele è il "Piccolo Satana" che deve essere estirpato dal territorio dell'islam, non un possibile alleato, né un "pretesto" per raccogliere consenso nel mondo arabo.

Ecco il testo:


Qualche tempo fa uno stimato giornale americano ha messo a segno uno scoop: il vicepresidente Dick Cheney, Re dei Falchi, avrebbe escogitato un piano machiavellico per attaccare l'Iran. In sostanza: Israele inizierà bombardando un'installazione nucleare iraniana, l'Iran reagirà lanciando missili contro Israele, e questo servirà come presteso per un attacco americano all'Iran. Troppo arzigogolato? In realtà no. Il piano è piuttosto simile a ciò che avvenne nel 1956. Allora Francia, Israele e Gran Bretagna progettarono di attaccare l'Egitto per rovesciare Gamal Abd-al-Nasser (un «cambio di regime», si direbbe oggi). Fu deciso di lanciare paracadutisti israeliani vicino al Canale di Suez: il conflitto conseguente sarebbe servito da pretesto a francesi e britannici per occupare l'area del Canale, allo scopo di «garantirsi» quella via di navigazione. Il piano fu messo in atto (e fallì miseramente). Cosa succederebbe se aderissimo al piano di Cheney? I piloti israeliani rischierebbero la vita per bombardare le installazioni iraniane, difese con armi pesanti. Poi i missili iraniani pioverebbero sulle città di Israele. Centinaia, forse migliaia di persone sarebbero uccise. E tutto, per fornire agli americani un pretesto per andare in guerra. Il pretesto reggerebbe? Gli Usa sono tenuti a scendere in guerra al nostro fianco, anche quando la guerra è causata da noi? In teoria sì. Gli attuali accordi dicono che l'America deve intervenire in aiuto di Israele in qualunque guerra, chiunque l'abbia cominciata. Ha qualche sostanza l'indiscrezione del giornale americano? Difficile dirlo. Ma rafforza il sospetto che un attacco all'Iran sia più imminente di quanto comunemente si immagini. Bush, Cheney e compagnia. intendono davvero attaccare l'Iran? Non lo so, ma il mio sospetto che possano farlo si sta rafforzando. Perché? Perché George Bush si sta avvicinando al termine del suo mandato. Se questo dovesse finire così come le cose appaiono ora, sarà ricordato negli annali della repubblica come un presidente pessimo, se non il peggiore. La sua presidenza è iniziata con la catastrofe delle Torri Gemelle, cosa che non ha dato una buona immagine delle agenzie di intelligence, e si chiuderebbe con il tragico fallimento dell'Iraq. Gli è rimasto solo un anno di tempo per fare colpo sull'opinione pubblica e salvare il suo nome nei libri di storia. In situazioni come queste, i leader tendono a cercare avventure militari. Considerati i tratti caratteriali di cui ha dato prova, l'opzione guerra appare assai preoccupante. E' vero, in Iraq e Afghanistan l'esercito americano è impantanato. Neanche persone come Bush e Cheney potrebbero sognarsi, in questo momento, di invadere un paese quattro volte più grande dell'Iraq, con il triplo della popolazione. Ma probabilmente i guerrafondai stanno sussurrando nell'orecchio di Bush: non c'è bisogno di invadere l'Iran. E' sufficiente bombardarlo, così come abbiamo bombardato la Serbia e l'Afghanistan. Useremo le bombe più intelligenti e i missili più sofisticati contro circa duemila target, per distruggere non solo i siti nucleari iraniani, ma anche le loro installazioni militari e gli uffici del governo. «Li bombarderemo fino a farli tornare all'età della pietra», come disse una volta un generale americano a proposito del Vietnam, o «gli metteremo indietro l'orologio di vent'anni», come ha detto a proposito del Libano il generale dell'aeronautica israeliano Dan Halutz. L'idea è allettante. Gli Stati Uniti userebbero solo l'aviazione, missili di tutti i tipi e le loro potenti portaerei, già schierate nel Golfo Persico. Tutte queste cose possono essere attivate in qualunque momento, con breve preavviso. Per un presidente fallito che si sta avvicinando alla fine del mandato, l'idea di una guerra breve e facile deve avere un'attrattiva immensa. Sarebbe davvero una «passeggiata»? Ne dubito. Anche le bombe «intelligenti» uccidono le persone. Gli iraniani sono un popolo orgoglioso, risoluto e fortemente motivato. Sottolineano il fatto che in duemila anni non hanno mai attaccato un altro paese, ma negli otto anni della guerra Iran-Iraq hanno ampiamente dimostrato la loro determinazione a difendersi, se attaccati. La loro prima reazione a un attacco americano sarebbe di chiudere lo stretto di Hormuz, l'accesso al Golfo. Questo strozzerebbe larga parte della fornitura mondiale di petrolio e causerebbe una crisi economica mondiale senza precedenti. Per aprire lo stretto (ammesso che ciò sia possibile), l'esercito Usa dovrebbe conquistare larghe fette del territorio iraniano e mantenerle sotto il proprio controllo. La guerra breve e facile diverrebbe lunga e difficile. Che cosa significa questo per noi, in Israele? Possono esserci pochi dubbi sul fatto che l'Iran, se attaccato, reagirà come ha promesso: bombardandoci con i razzi che sta preparando a questo scopo. Ciò non metterebbe a rischio la vita di Israele, ma non sarebbe neanche piacevole. Se l'attacco americano si trasformasse in una lunga guerra di logoramento, e se l'opinione pubblica americana dovesse finire per considerare questo un disastro (come sta succedendo ora per l'avventura irachena), alcuni certamente darebbero la colpa a Israele. Non è un segreto che la lobby filo-israeliana e i suoi alleati - i neo-cons (soprattutto ebrei) e i sionisti cristiani - stanno trascinando l'America in questa guerra, proprio come l'hanno trascinata in Iraq. Per la politica israeliana, i vantaggi sperati di questa guerra potrebbero trasformarsi in gigantesche perdite, non solo per Israele, ma anche per la comunità ebraico-americana. Se il presidente Mahmoud Ahmadi Nejad non esistesse, il governo israeliano avrebbe dovuto inventarlo. Ha tutto ciò che si può desiderare in un nemico. Parla troppo. E' uno spaccone. Gli piace dare scandalo. Nega l'Olocausto. Profetizza che Israele «sparirà dalla mappa» (anche se non ha detto, come erroneamente riferito, che sarebbe stato lui a cancellare Israele dalla mappa). Ma Ahmadi Nejad non è l'Iran. Ha vinto le elezioni, ma l'Iran è come i partiti ortodossi in Israele: non sono i suoi politici a contare, ma i suoi rabbini. E' la leadership religiosa sciita a prendere le decisioni e comandare le forze armate, e questa non usa alzare i toni del discorso, né dare scandalo. E' estremamente cauta. Se l'Iran bramasse davvero una bomba nucleare, avrebbe agito nel massimo riserbo e tenuto il profilo più basso possibile (come ha fatto Israele). Le spacconate di Ahmadi Nejad nuocerebbero a questo tentativo più di quanto potrebbe fare qualunque nemico dell'Iran. E' estremamente sgradevole pensare a una bomba nucleare in mani iraniane (e, a dire il vero, nelle mani di chiunque). Spero che ciò si possa evitare offrendo incentivi e/o imponendo sanzioni. Ma anche se questo non dovesse succedere, non sarebbe la fine del mondo, né la fine di Israele. In questo campo, più che in qualunque altro, il potere deterrente di Israele è immenso. Anche Ahmadi Nejad non rischierà uno scambio di regine: la distruzione dell'Iran per la distruzione di Israele. Napoleone disse che per capire la politica di un paese, basta guardare la carta geografica. Se lo faremo, vedremo che una guerra tra Israele e l'Iran non avrebbe una ragione oggettiva. Al contrario, per molto tempo a Gerusalemme si è creduto che i due paesi fossero alleati naturali. David Ben-Gurion auspicava una «alleanza della periferia». Era convinto che tutto il mondo arabo fosse il nemico naturale di Israele, e che, dunque, gli alleati andassero cercati ai margini del mondo arabo: Turchia, Iran, Etiopia, Ciad ecc. (Egli cercò alleati anche nel mondo arabo, in comunità non arabo-sunnite come maroniti, copti, curdi, sciiti e altri.) Al tempo dello scià, tra l'Iran e Israele vi erano rapporti molto stretti, alcuni positivi, altri negativi, altri ancora sinistri. Lo scià contribuì a costruire un oleodotto che andava da Eilat ad Askelon, per trasportare il petrolio iraniano fino al Mediterraneo, bypassando il Canale di Suez. Il servizio segreto interno israeliano (Shabak) addestrò il suo famoso omologo iraniano (Savak). Israeliani e iraniani hanno agito insieme nel Kurdistan iracheno, aiutando i curdi contro i loro oppressori arabo-sunniti. La rivoluzione di Khomeini all'inizio non ha messo fine a questa alleanza, l'ha solo resa sotterranea. Durante la guerra Iran-Iraq, Israele riforniva di armi l'Iran, in base al presupposto che chiunque combatta contro gli arabi sia un nostro amico. Allo stesso tempo gli americani fornivano le armi a Saddam Hussein, uno dei rari casi di divergenza tra Washington e Gerusalemme. Questa fu colmata nell'affair Iran-Contra, quando gli americani aiutarono Israele a vendere armi agli Ayatollah. Oggi tra i due paesi sta infuriando una battaglia ideologica, ma questa è combattuta soprattutto a livello retorico e demagogico. Oserei dire che a Ahmadi Nejad non importa un fico secco del conflitto israelo-palestinese, lo usa per stringere alleanze nel mondo arabo. Se fossi un palestinese, non ci farei affidamento. Prima o poi la geografia dirà la sua e le relazioni israelo-iraniane torneranno quello che erano - si spera su una base più positiva. Una previsione di cui sono certo: chiunque farà pressione per una guerra contro l'Iran, se ne pentirà. Sia noi che gli americani potremmo presto avere la sensazione che il fango iracheno sia panna montata, in confronto al pantano iraniano. traduzione Marina Impallomeni

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