Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Se il terrorismo è "resistenza", la propaganda è "resistenza musicale" nel linguaggio di Paola Caridi
Testata: Autore: Paola Caridi Titolo: «L'intifada musicale è un combattimento hip hop»
E' un articolo su gruppi musicali arabi e palestinesi, che utilizzano il genere hip hop per veicolare messaggi di propaganda (Israele è il vero "terrorista", quella palestinese è "resistenza"). Ne adotta di fatto il linguaggio e le parole d'ordine. Di Paola Caridi, dal RIFORMISTA del 27 settembre 2007:
Se n’è accorto anche il dipartimento di stato americano della potenza dello hip hop nei tanti orienti a maggioranza musulmana. Tanto da mandare dei singolari ambasciatori in Medio Oriente per il secondo tour in un anno, «incorporando gli insegnamenti dell’islam in canzoni che parlano di rispetto e umanità»,come recitano i comunicati ufficiali statunitensi. Gli ambasciatori si chiamano Native Deen, un trio nato nel 2000 nell’alveo del beatboxing, il rap che usa percussioni vocali, e che dunque è considerato halal, permesso dalle interpretazioni più rigide dell’islam in fatto di musica. I Native Deen, stavolta, saranno in concerto al Cairo, nel nuovo enorme parco di Al Azhar il 28 settembre prossimo,per poi spostarsi all’inizio di ottobre a Gerusalemme e in Cisgiordania. Il ragionamento, a Washington, dev’essere stato lineare. Se c’è un pezzo d’America che è stato assorbito senza tentennamenti e con piena adesione oltreconfine, nei tanti luoghi in cui si declina il Terzo e il Quarto mondo, è la rivoluzione hip hop. Un esempio classico di come il global, contaminato al punto giusto,possa tramutarsi in glocal. Nessun problema c’è stato, per i giovani inurbati delle periferie del pianeta, ad assorbire la musica nata nei ghetti neri americani agli inizi degli anni Ottanta, trasformando la più recente cultura di strada afro-americana nel grido ribelle di ragazzi asiatici, africani, latino- americani. O in uno degli strumenti della rabbia delle banlieu multietniche europee in ebollizione. Rapper di tutto il mondo unitevi, insomma, perché la cultura hip hop è una delle poche a canalizzare i nuovi pensieri senza far perdere la propria identità (locale) a chi ne fa “uso”. Il mondo arabo non fa eccezione, in questo caso. Anche sulle coste est e sud del Mediterraneo la cultura hip hop è diventata uno dei fenomeni più interessanti degli ultimi anni. Soprattutto nella sua versione musicale. Di rap arabi, insomma, è piena l’etere della regione.In alternativa alle canzonette che imperano sui canali satellitari arabi all music. E come nelle realtà occidentali, il rap e più complessivamente lo hip hop esprimono anche nel mondo arabo la rivolta, in gran parte politica,dei giovani urbanizzati. Con una differenza fondamentale, però. Che mentre oltre atlantico l’islam è diventato la religione predominante dello hip hop, e connota i messaggi musicali di alcune delle band nere più famose della scena statunitense - compresi i Native Deen - tra Medio Oriente e Nord Africa il rap conserva una dimensione laica. Semmai osteggiata, ma non sempre e non dappertutto, da alcune frange radicali dell’islamismo politico. Non è detto, dunque, che la mossa del dipartimento di stato americano possa incidere così tanto sulla scena giovanile araba, visto che la versione glocal del rap dall’Algeria alla Palestina è decisamente diversa dalla fonte alla quale i suoi seguaci si sono abbeverati. E sta sviluppando una identità precisa anche rispetto al rap della diaspora araba e islamica, negli States soprattutto,ma anche in Europa, dove il messaggio musulmano sembra prevalente rispetto alla sperimentazione musicale e ai proclami politici. Se fuori dai confini del mondo arabo - verso occidente - sta crescendo una ummah dello hip hop, una comunità musulmana del rap, all’interno della regione araba, la versione locale del rap è più simile a una intifada musicale. Lo hip hop sta diventando una delle zone di sperimentazione nella cultura delle generazioni arabe più giovani. Forse il rap potrebbe essere rivoluzionario come il rock, ma chi s’intende di musica araba fa notare che il rap è riuscito a far breccia nel pubblico della regione perché si è mescolato ad altre tradizioni popolari. L’esempio lampante si trova in Egitto, dove a rendere più semplice l’ingresso del rap sono stati due precedenti importanti: le canzoni popolari, la cosiddetta musica sha’bi,in genere leggera e macchiettistica; e la canzone politica, quella diventata famosa attraverso le performance del principe dei poeti di strada Ahmad Fouad Negm. Di politica, a dire il vero, non parla il gruppo rap più famoso d’Egitto, uscito vincente dal primo premio panarabo che si fondava sul voto del pubblico. Gli Mtm, anzi, hanno fondato il loro successo su temi leggeri o intimi, che hanno descritto secondo gli stili dei videoclip più famosi, tra i palazzi d’epoca del Cairo e la gioventù bene della capitale. Il caso degli Mtm, però, è la versione patinata di una scena - quella dello hip hop arabo - che invece è molto più influenzata dalle vene di riscatto identitario e di richieste politiche forti. Diversi dagli Mtm, insomma, sono i Jaffa Phonix, due fratelli palestinesi rifugiati al Cairo, che sono decisamente più in linea con la tradizione impegnata dello hip hop. Quella che unisce i Jaffa Phonix ai Dam, i Dam agli Arabian Knightz egiziani, i Rfm di Gaza City ai loro colleghi algerini del gruppo Mbs. Mbs è la sigla che significa Le Micro Brise le Silence. Ovvero i rapper più importanti di Algeri,protagonisti di un attacco senza precedenti al presidente Abdelaziz Bouteflika quando, alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2004, se ne uscirono con l’album Rabah President, in cui la faccia del leader del gruppo, Rabah Ourad, era stata “incollata” con un fotomontaggio sopra il corpo di Bouteflika, seduto sulla sua poltrona sotto la bandiera algerina. Sono loro a parlare di giustizia sociale,a chiedere opportunità per la massa di giovani che rappresentano la maggioranza della popolazione algerina. I portabandiera dell’impegno politico,comunque, sono ancora una volta palestinesi. Com’è già successo in altri cotè culturali, dalla poesia alla Mahmoud Darwish alla tradizione della vignetta satirica. Nonostante gli Mtm si siano portati a casa il primo Music Award regionale, insomma, la palma della band culto rimane salda nelle mani dei Dam Palestine, vere e proprie star non solo per i ragazzi arabi che vivono a ovest e a est della Linea Verde. I Dam sono ritornati a fare il pienone negli ultimi mesi, dopo l’uscita con un marchio tedesco del loro ultimo album, Ihda. E ormai diventato un tormentone è il brano principale, Mali Hurryie (Non ho la libertà), un mix di suoni tradizionali della musica araba, compreso l’oud, il liuto, e di rap - per così dire- ortodosso.Per i ragazzi della Palestina, i Dam sono ancora le star del rap di casa, nonostante siano passati poco meno di dieci anni da quando Tamer Nafar, suo fratello Suhell e Mahmoud Jreri decisero di dar vita al primo trio di hip hop arabo-israeliano. Di quei palestinesi che sono una minoranza consistente all’interno dei confini di Israele e di Israele hanno il passaporto.Da allora, la loro fama non ha fatto altro che crescere. Non solo su successi come Min Ihrabi, che nel 2001 scatenò polemiche a non finire per quella domanda implicita nel titolo «Ma chi è il terrorista?»: un chiaro attacco alla politica israeliana nei Territori Occupati e nei confronti della minoranza araba d’Israele. Il trio di Lod, una cittadina a due passi da Tel Aviv, è - appunto - il portabandiera di quella sorta di intifada musicale, di resistenza sui ritmi urbani dello hip hop che sta dilagando in buona parte del mondo arabo. Dall’Algeria all’Egitto,da Gaza agli Emirati Arabi. Anche senza l’aiuto dei potenti canali satellitari musicali che veicolano videoclip molto più anestetizzanti.
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