Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Trattare con i terroristi sempre o solo per liberare chi lavora al giornale giusto ? gara a chi propone la tesi più insostenibile
Testata:La Repubblica - Il Manifesto Autore: Giuseppe D'Avanzo - Mariuccia Ciotta Titolo: «Soluzione obbligata - Missione compiuta»
Per i giornalisti e i civili in genere si deve trattare con i terroristi, per i militari no. E' la tesi di Giuseppe D'Avanzo su La REPUBBLICA del 25 settembre 2007. Patetico tentativo di tenere insieme il sostegno alla trattativa per Mastrogiacomo e quello al blitz per liberare i due soldati.
Ecco il testo:
Al di là dell´intervento immediato in armi, anche a rischio della vita dei due ostaggi e delle loro "guide" afgane, non c´era un´altra accettabile opzione per chiudere, in poche ore e con il miglior esito possibile, la crisi aperta con il sequestro degli agenti segreti del Sismi. Potrà sembrare cinico sostenerlo, a fronte di un bilancio che segnala la liberazione dei due militari italiani e la morte di un loro collaboratore, ma non c´erano alternative. Ora che la nostra intelligence è tornata a svolgere un lavoro coerente con i suoi compiti istituzionali – e non con l´agenda personale dell´oligarchia che la dirigeva fino a ieri – il rischio della vita è in Afghanistan l´amaro pane quotidiano se si vuole dare un volto al nemico. Se si vuole distinguere il criminale dall´insorto, il ribelle dal terrorista; conoscere i talebani di ultima generazione di cui abbiamo informazioni spesso semplificatorie o insufficienti. Che cosa vogliono? Vogliono davvero combattere per il controllo del Paese? Ne hanno le risorse, ne hanno la determinazione? Preparano assalti al nostro contingente? Sono collegati con Al Qaeda o a quella "cosa" che ancora chiamiamo così? O i loro referenti sono in Iraq, in Iran, in Pakistan, in Arabia Saudita? Chi li finanzia e chi li arma? Dove transitano armi, chi muove il denaro? Ritornata a fare il suo benedetto lavoro, l´intelligence deve avventurarsi in quella pericolosa "terra di nessuno" che separa i combattenti per raccogliere, al di fuori di ogni cornice di sicurezza, notizie sul nemico, tracciarne il profiling, conoscere l´ostinazione o le debolezze dei signori della guerra e della droga, stringere qualche "patto segreto" con alcuni di loro, magari infiltrarli con "doppiogiochisti" prezzolati. Come è accaduto l´altro giorno, lungo queste arrischiate vie non sempre tutto fila liscio. E quando le cose vanno storte, con militari in ostaggio, per di più indicati subito dai media arabi come «agenti segreti», non c´è scelta: non è possibile seguire la linea politica della trattativa. La crisi attende una soluzione più coerente, anche se dolorosa, che non ha nessi con quanto finora abbiamo visto e vissuto. D´abitudine la prassi, condivisa da governi di segno opposto e da buona parte dell´opinione pubblica, è apparsa nel tempo quantomeno schizofrenica. Abbiamo affiancato agli alleati il nostro sforzo militare con un impegno ribadito nelle sedi internazionali, rafforzato da un maggiore sacrificio finanziario approvato dal Parlamento e logistico-militare deciso dal governo, per poi allontanarcene rapidamente, con l´ostaggio in trappola, nel momento in cui gli esecutivi erano sottoposti al ricatto dei terroristi e alla pressione dell´opinione pubblica. Con due militari prigionieri, il valore limite del compromesso con il nemico doveva necessariamente tenersi molto alto al contrario di quanto è accaduto finora con gli ostaggi civili. In questi casi, lo sappiamo, la «soglia di capitolazione», come direbbe il generale Fabio Mini, si è abbassata di molto fino a sollecitare anche procedure in contrasto con un´elementare logica di sicurezza (è il caso che ha deciso della vita di Nicola Calipari) o addirittura a imporre modalità opposte alle regole concordate con gli alleati europei o americani, che non hanno mai accettato di veder coinvolte le più alte istituzioni di governo in trattative con il nemico che trasformavano funzionari dello Stato in pubblici mediatori e una crisi tecnico-militare in quotidiano spettacolo televisivo e chiacchiericcio politico-parlamentare. Spingere verso il basso il valore limite del compromesso con il nemico – è inutile tacerlo – ci ha costretti, in cambio dell´inestimabile valore di una vita umana, a pagare costi politici molto alti e non previsti come gli impegni assunti con il debolissimo Karzai, gli attriti con l´amministrazione americana, i silenziosi dubbi dei nostri alleati europei, il sospetto calato sul nostro volontariato in servizio umanitario. Queste scelte hanno finito col mettere a dura prova la credibilità internazionale del Paese, apparso debole, tentennante, vanificando così anche il credito che i soldati italiani, nel sostanziale disinteresse nazionale, si andavano guadagnando sul terreno in situazioni molto rischiose e molto sottovalutate in patria. Quando è toccato a loro avere ostaggi nelle mani del nemico, i soldati – con il consenso del ministro della difesa che si è assunto le sue responsabilità, e gliene va dato merito – non hanno avuto dubbi che la sola opzione praticabile fosse l´azione militare immediata. Obbligata per salvare la vita dei due agenti, ormai pregiudicata. Ma anche necessaria per continuare a stare in Afghanistan alla pari degli alleati e non a mezzo servizio, non isolati dalle strategie e dalle operazioni, degni di avere – come oggi – il controllo di un´area di responsabilità. E´ la missione che è stata loro affidata dal Parlamento, alla fin fine, e anche in questa congiuntura hanno voluto onorarla. Altra cosa naturalmente è il discorso sull´efficacia delle operazioni e l´utilità di una strategia che, ogni giorno di più, svela l´incapacità di creare le condizioni affinché l´Afghanistan, ora sempre più dipendente dall´intervento straniero, faccia da solo costruendo in autonomia una prospettiva per il suo futuro. Questa è un´altra storia e, come si vede in queste ore, precipita nel cortile di casa dove protagonismi, fantasie politiche, disunione, ideologismi, mediocri tatticismi impediscono di ricordare anche soltanto per qualche ora il sacrificio di quei duemila italiani che abbiamo mandato laggiù in una guerra che continuiamo a chiamare ipocritamente pace.
Per Mariuccia Ciotta sul MANIFESTO coi terroristi si deve trattare sempre (ignorando il fatto che in questo modo si incoraggiano i loro misfatti) e fare un'eccezione per i soli militari è una pura e semplice discriminazione. Quest'ultima osservazione è vera, peccato però che il quotidiano comunista legittimi politicamente la "guerriglia" afgana o irachena che uccide e sequestra i soldati italiani. Ecco il testo:
La missione è riuscita. L'Isaf comunica che sono stati «tutti uccisi» i sequestratori dei due italiani presi in ostaggio in Afghanistan. Nove o forse dieci le vittime, e in più c'è un collaboratore afghano dei rapiti, morto anche lui, mentre l'altro è ferito. Politici e militari si congratulano a vicenda, anche se sono preoccupati per lo stato di salute di uno dei due ostaggi colpito alla testa e al torace, ferito in «modo meno lieve» dell'altro. È gravissimo. Però «nessun dubbio sull'opportunità del blitz» dichiara Prodi, che considera l'azione un «monito per il futuro». Si inseguono le dichiarazioni soddisfatte di maggioranza e opposizione (con l'eccezione di qualche voce della sinistra), anche perché l'azione militare «vittoriosa» ha disinnescato la bomba «fuori dall'Afghanistan» lanciata da Diliberto. Si sente odore di orgoglio militare, di risarcimento per un'Italia costretta a stare all'angolo, imbelle forza in armi obbligata a una «missione di pace» tra il fischiar delle pallottole. E già Fini chiede la modifica delle regole di ingaggio che «imbrigliano» i soldati italiani. Il blitz, ci fanno sapere, è stato possibile perché i due rapiti erano agenti del Sismi e non civili, legittimo perciò passare dalla trattativa per la liberazione all'azione militare. E, inoltre, «erano in pericolo di vita», come ha riferito Parisi davanti a un'aula scandalosamente vuota, 35 i parlamentari presenti. Non c'era alternativa. Eppure i banditi erano sotto controllo, e in «pericolo di vita» il sequestrato ci sta adesso. Il passaggio di stile è avvenuto sui corpi dei due sottufficiali, essendo di per sé segni di guerra, nonostante siano impegnati in una missione di pace. C'è qualcosa che non va. È la prima volta che l'obiettivo non è stato quello di salvare una vita, ma di impedire che gli uomini dell'intelligence finissero preda dei talebani. Meglio una spia morta che nelle mani del nemico. Il ragionamento non fa una grinza, secondo una logica di guerra e secondo i super-combattenti delle forze speciali, gli uomini della Sas inglese, mitici guerrieri «dotati di armi letali», che hanno materialmente condotto il blitz - con la collaborazione degli italiani - e il cui motto è «Chi osa vince». Lasciamola a loro, agli eserciti occupanti, la logica che ha ridotto in fin di vita quello che è stato impropriamente (per loro) definito un «ostaggio», una persona (era solo un «militare»). Noi invece sosteniamo le armi della diplomazia, della politica, della trattativa anche con i talebani, e dunque ci stanno a cuore le vite umane, in divisa o senza. È un po' imbarazzante sentir dire dal governo di centro-sinistra che ora «il senso e il ruolo della missione italiana non cambierà». Abbiamo sparato e ammazzato «tutti» nello spirito della ricostruzione e della pace? Qualcosa invece dovrebbe cambiare. Per essere coerente, l'Italia farebbe bene ad accettare fino in fondo i blitz, senza aspettare i supereroi, e seguire sempre e comunque la «linea della fermezza» invocata per Mastrogiacomo, il giornalista di Repubblica. Dichiariamo guerra. Tanto qualcun altro lo ha già fatto per noi.
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