Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Liberati i soldati italiani rapiti in Afghanistan questa volta non c'è stata trattativa con i terroristi
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Il Giornale - Libero Autore: la redazione - Guido Olimpio - Fausto Biloslavo - Davide Giacalone Titolo: «Viva il Sismi - Liberatori d'assalto - Commandos, aerei e spie La guerra segreta italiana - Così conquistiamo la tana del nemico - Otto ragioni e timori per dubitare di Prodi e C»
L'ediotriale a pagina 3 del FOGLIO del 25 settembre 2007:
L’operazione militare italo-britannica che ha permesso la liberazione degli italiani rapiti in Afghanistan e l’uccisione dei loro sequestratori è stata resa possibile, come ha spiegato il ministro della Difesa, dalla capacità dell’intelligence militare di individuare con grande tempestività la “prigione” nella quale venivano tenuti incatenati i nostri connazionali. La decisione di non cercare la strada delle trattative con i terroristi e i loro amici, ma di intervenire immediatamente in forze, esprime la considerazione di cui ancora gode il servizio di informazione militare, il Sismi, e che essa è ben riposta. Il ministro della Difesa e il presidente del Consiglio hanno resistito alle solite pressioni dell’estrema sinistra, ribadite nel dibattito parlamentare, che continua a preferire quel metodo di interlocuzione che, nel caso del rapimento di Daniele Mastrogiacomo, aveva portato alla liberazione di pericolosi assassini e al massacro degli accompagnatori del giornalista italiano. La questione tuttavia sul piano politico resta aperta, tra Romano Prodi che, giustamente, rivendica il carattere di monito anche per il futuro della dura punizione inflitta ai rapitori e le posizioni di chi, come il sottosegretario verde Paolo Cento, insiste a chiedere che il blitz non diventi “una regola”, cioè venga ripetuto in casi analoghi. L’efficienza dimostrata dal Sismi in queste difficili condizioni dimostra che la struttura è riuscita a mantenersi solida nonostante i colpi che ha subito, in patria, dalla magistratura e dalla politica sul caso Abu Omar, che ha comportato la decapitazione dei suoi vertici. Anche questo fatto, oltre all’evidente necessità di disporre di un’intelligence robusta e capace di agire in una situazione che vede truppe italiane dislocate in aree assai pericolose, dovrebbe pesare sulla discussione che è in corso sulla riforma dei servizi di sicurezza e di informazione. La tentazione, che pareva finora prevalente nelle forze di maggioranza, di accontentarsi di una sorta di servizio di polizia, privo delle prerogative tipiche di un vero servizio segreto, dopo gli ultimi avvenimenti, potrebbe essere ridimensionata. Se c’è un campo nel quale non si può certo risparmiare è il presidio della sicurezza dei cittadini insidiata dal terrorismo interno e internazionale e la protezione dei militari impegnati in missioni decise dal Parlamento. Smantellare ora il Sismi, o anche solo continuare a indebolirlo, sarebbe, come mostrano i fatti, un pessimo affare.
A pagina 1 del FOGLIO due articoli spiegano i retroscena del rapimento dei militari italiani, agenti del Sismi a caccia di armi iraniane per i talebani, e della loro liberazione, con un blitz che ha fermato anche la trattativa con l'Iran che D'Alema avrebbe voluto intavolare.
A pagina 2 e 3 del CORRIERE della SERA, un articolo di Guido Olimpio sulla "guerra segreta" dei militari italiani in Afghanistan:
WASHINGTON - Anche i soldati italiani combattono la loro «guerra segreta». Danno la caccia ai talebani, cercano di ostacolare il traffico di armi, proteggono le vie di rifornimento. Missioni nell'ombra perché la versione ufficiale preferisce parlare di assistenza alle autorità afghane. Di pozzi ricostruiti, di scuole messe in piedi, di addestramento di poliziotti. Il contingente in Afghanistan non dovrebbe partecipare a operazioni di combattimento ma la realtà sul terreno lo richiede. E ce lo chiedono gli alleati. Al Central Command di Tampa (Florida), il centro nevralgico che coordina gli interventi dall'Iraq all'Afghanistan, hanno disperato bisogno di forze speciali. La tattica adottata nell'ultimo anno dalle truppe Nato prevede un'azione preventiva costante. Non si aspettano più i talebani nelle «basi di fuoco» ma si prova a scovarli prima che possano attaccare. Dalla tecnica del pescatore, che getta la rete e attende, si è passati a quella del cacciatore che stana la preda. E' un'azione combinata di commandos e aerei. Che comporta un rischioso lavoro di intelligence sul terreno. L'humint. I bombardieri hanno bisogno di informazioni e le spie dal cielo (satelliti, aerei senza pilota) non bastano. Tocca allora alle special forces infiltrarsi in territorio ostile. E' ciò che stavano facendo i nostri due militari catturati dai guerriglieripredoni. L'episodio che li ha coinvolti ha rappresentato la conferma di quanto i media raccontano e il governo prova a nascondere per motivi di politica interna. E' da oltre un anno che in Afghanistan opera una nuova task force di corpi d'élite italiani composta da poche decine di elementi divisi in quattro distaccamenti. Ci sono i commandos del Comsubin (Marina) tra i migliori al mondo , i parà del Col Moschin, i ranger e i soldati del 185˚ reggimento per l'acquisizione di obiettivi. Partecipano, quando è necessario, a «missioni di combattimento», conducono le ricognizioni a lungo raggio (che prevedono infiltrazioni in aree non sicure), tendono agguati ai talebani. Cinque elicotteri d'attacco Mangusta dotati di razzi e mitragliatrice forniscono la copertura, alcuni elicotteri Chinook trasportano italiani e alleati, due velivoli senza pilota Predator svolgono le missioni di sorveglianza. Un apparato impiegato - secondo le dichiarazioni ufficiali - anche nel blitz di ieri. Sulla loro attività trapela poco. Le fonti sono restie a confermare qualsiasi evento, più liberi i portavoce stranieri. Da loro sono venute indicazioni interessanti. Agli inizi del 2006 le truppe italiane partecipano in modo diretto a un'offensiva anti-talebana. Quindi le troviamo insieme a americani, spagnoli e afghani nell'operazione «Wyconda Pincer». Nell'agosto di quest'anno i Mangusta tirano fuori dai guai un convoglio spagnolo caduto in una trappola: una trentina di ribelli restano uccisi sotto il fuoco degli elicotteri. La particolarità della «guerra segreta» è che mentre il contingente tradizionale - gli heavy metal nel gergo americano - può muovere dopo un meccanismo che richiede tempo, i commandos sono più flessibili. E vanno dove serve. Stesse regole per gli elicotteri da trasporto. Negli ultimi mesi i militari italiani hanno avuto l'ordine di intensificare l'attività nella regione di Farah e nelle aree verso il confine iraniano. Per due motivi. Bande talebane si sono spostate a est per sottrarsi alle incursioni alleate nelle tradizionali roccaforti del sudovest. Inoltre dalla frontiera iraniana arriverebbero rifornimenti di armi ed esplosivi. Le disposizioni del Comando centrale ai reparti sono chiari: individuare, bloccare, neutralizzare. Compito che può essere assolto da una squadra di 6-12 elementi ma anche da una coppia di incursori. Dotati di radio criptate, illuminatori laser, sono in grado di dirigere da terra un raid aereo o il fuoco dell'artiglieria. Un tiratore scelto del Col Moschin può centrare un comandante talebano nel suo rifugio. Un incursore del Comsubin piazzare una trappola esplosiva sul sentiero battuto dai ribelli. Gli scout, coperti da un telo mimetico, vestiti all'afghana, spiano con potenti binocoli i movimenti nemici. Ma tutto deve restare segreto. O perlomeno dietro una cortina fumogena di ambiguità. Persino le prime ricostruzioni della liberazione - poi corrette - collocavano i nostri parà qualche centimetro indietro rispetto ai Sas britannici. Non per prudenza ma per opportunità politica.
Dal GIORNALE,un' intervista di Fausto Biloslavo a un ex membro delle Sas, che spiega gli aspetti "tecnici" del blitz:
Lo chiameremo Mark, ma non è il suo vero nome. Gli ex commando delle Sas «Special air service» non amano parlare con i giornalisti. Mark e altri commilitoni hanno formato l’Ake group, una società di sicurezza inglese che fornisce servizi pure in Afghanistan. Inoltre gli ex Sas «addestrano» gli inviati dei grande media internazionali a sopravvivere in zone di guerra. Una parte del corso riguarda i rapimenti in zone ostiche. Mark ne sa qualcosa, perché ha partecipato ad un blitz per liberare degli ostaggi quando era in servizio. Per la prima volta la Nato interviene con un blitz per liberare degli ostaggi in Afghanistan. Cosa ne pensa? «Penso che sia stata una buona operazione. Gli ostaggi sono rimasti feriti, ma fa parte del rischio di questo tipo di azioni. La Nato ha inviato un forte messaggio dimostrando che è capace di reagire conducendo azioni del genere». Quali sono i metodi e le procedure utilizzate dalle Sas per la liberazione di ostaggi? «Prima di tutto bisogna raccogliere informazioni direttamente collegate al gruppo coinvolto nel sequestro. Il lavoro, non facile, è intrecciare informazioni di intelligence provenienti da più parti per ottenere un quadro preciso. Non sto parlando solo di fonti locali, ma pure di informazioni che arrivano da sistemi di sorveglianza aerea, oppure da intercettazioni di comunicazioni. Una volta creato un quadro preciso si passa alla pianificazione. Realizzare l’operazione in 48 ore, come in questo caso, è già di per se un successo, soprattutto tenendo conto che coinvolgeva forze di paesi diversi». Corpi speciali italiani e britannici sono un buon connubio? «Ho lavorato con le forze speciali dei carabinieri, in passato, simulando vari scenari. Penso che non ci siano problemi a condurre operazioni del genere assieme». Quanti uomini servono per un blitz come quello condotto in Afghanistan? «Vengono utilizzate molte risorse a cominciare dagli aerei senza pilota, gli elicotteri, le truppe in appoggio da far intervenire in caso di necessità. Poi c’è il nocciolo che condurrà l’intervento vero e proprio, gli strike element, solitamente non meno di trenta». Secondo lei chi è entrato nel covo per liberare gli ostaggi? «Non esistono regole precise in questi casi, ma una sorta di codice non scritto. Trattandosi di ostaggi italiani dovrebbe venire lasciata la precedenza ai corpi speciali italiani. Tutto però dipende da chi ha le migliori capacità operative sul terreno». Ha mai vissuto momenti così difficili? «Non in Afghanistan, ma sono stato coinvolto in un’operazione del genere. Non è così semplice entrare, ammazzare i cattivi e portarsi via gli ostaggi. Solitamente si fa saltare l’ingresso con dell’esplosivo e una volta dentro si viene avvolti dal fumo e dalla confusione. La tensione è altissima e devi prendere decisioni fatali in pochi attimi. Anche se ti addestrato a lavorare in gruppo tutto dipende dai singoli individui». Quali sono le maggiori difficoltà nel condurre dei blitz per liberare degli ostaggi in Afghanistan? «La rete tribale e le sue connessioni sul territorio, oltre alla morfologia. Se la squadra si avvicina mimetizzandosi in una fitta giungla è più facile non venir scoperti, rispetto all’ambiente afghano. L’effetto sorpresa è fondamentale, ma mantenerlo in Afghanistan è molto difficile».
Da LIBERO, un commento di Davide Giacalone:
Il peggio è stato evitato: il ricatto e la trattativa. L’incubo del caso Mastrogiacomo non si è reincarnato. Chi ha autorizzato l’intervento armato Isaf, con truppe speciali italiane ed inglesi, deve essere ringraziato. Guai, però, a sottovalutare gli elementi che, in queste ore, hanno provocato un brivido di terrore. Vediamone alcuni. 1. Il governo ha pasticciato nella comunicazione, talché i due sono passati dall’essere giornalisti a militari, quindi funzionari ed infine agenti segreti. I rapimenti non sono delle novità, la macchina politica deve essere assai più addestrata a fronteggiarli. 2. Il 9 settembre è stato annunciato, dal ministro della difesa, un incremento delle truppe italiane in Afghanistan. Il 23 uno dei capi della maggioranza, Diliberto, torna a volerne il ritiro totale. 3. Il 6 settembre i militari italiani intercettano una fornitura d’armi destinata ai talebani e proveniente dall’Iran. Il 23 il ministro degli Esteri si rivolge agli iraniani per chiederne l’aiuto. 4. Gli iraniani (sciiti) sono nemici storici degli afgani e dei pashtun (sunniti). Più sono governati da integralisti e più si odiano. Quelle armi, dunque, non servivano a sostenereunacausa condivisa, ma ad attaccare i militari stranieri. 5. Il ritiro dall’Afghanistan e dall’Iraq favorirebbe gli interessi iraniani, regalando alla loro influenza due Paesi massacrati dalla guerra. 6. Il governo italiano si è chiamato fuori dalla volontà, europea e statunitense, di imporre sanzioni più severe all’Iran e bloccare, in un modo o nell’altro, la loro corsa verso il nucleare. 7. Non è un mistero per nessuno che la sicurezza dei nostri militari in Libano dipende da terroristi al soldo di iraniani e siriani. 8. Gli israeliani, infine, hanno appena bombardato un’attività nucleare della Siria. Il disallineamento italiano è pericolosissimo, e fa del nostro Paese un sorvegliato speciale. Le forze armate che sono intervenute per liberare i due rapiti lo hanno fatto per solidarietà, per dovere, ma anche per convenienza. Nessuno voleva italiani ancora pronti ad indebolire il governo afgano pur di salvare dalla bufera quello italiano. Le partite afgana ed irachena sono legate, e la presenza in Libano non le sostituisce, ma integra. Da noi si nasconde la realtà, sperando di non farci i conti. (www.davidegiacalone.it)
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