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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.09.2007 Ucciso un deputato antisiriano a Beirut
un'intervista David Schenker, già consigliere di Rumsfeld, e un editoriale di Antonio Ferrari

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Antonio Ferrari
Titolo: «“Assad pronto a far scoppiare la guerra civile” - Le illusioni su Damasco»

Da La STAMPA del 20 settembre 2007:

«L’aggravarsi della crisi in Libano pone seri rischi per la sicurezza delle truppe dell’Onu e le minacce vengono dalla Siria, non dall’Iran». Ad affermarlo è David Schenker, fino al 2006 consigliere del ministro della Difesa Donald Rumsfeld su Siria e Libano ed ora in forza al centro studi Washington Institute.
Quali sono le minacce che possono pesare sulla missione dell’Unifil, a cui partecipa anche un numeroso contingente italiano?
«Il 25 settembre si apre il periodo di circa due mesi per l’elezione del nuovo presidente libanese. Ad eleggerlo sarà il Parlamento e Damasco vuole che sia designato un suo stretto alleato. Per questo continua a far assassinare i deputati della maggioranza anti-siriana come avvenuto a Beirut con Antoine Ghanem, il quarto ad essere ucciso in un attentato. Se la campagna di omicidi politici non dovesse riuscire Damasco è pronta a giocare qualsiasi carta, anche a fomentare una guerra civile che potrebbe investire le truppe dell’Onu schierate nel Sud, italiani compresi. Non a caso Damasco ha sempre detto di non volere l’Unifil rafforzata, ne persegue la cacciata sin da quando, poco più di un anno fa, arrivarono le prime unità».
Qual’è obiettivo dei siriani?
«La priorità per Damasco è non allentare la morsa sul Libano ed impedire la celebrazione del processo contro i responsabili dell’assassinio dell’ex premier Rafik Hariri, che si svolgerà sotto l’egida dell’Onu, perché Assad sa bene che venendo condannato subirà la stessa sorte di Gheddafi dopo il caso-Lockerbie: andrà incontro a un totale isolamento internazionale».
Vi sono pericoli concreti per le truppe Onu nel Sud del Libano?
«Il contingente Unifil ha una debolezza strutturale: non ha unità di intelligence. Per sapere cosa avviene sul proprio territorio, o nelle immediate vicinanze, deve contare sugli altri. Ha già subito due attacchi e i nemici non mancano: non solo i siriani, ma anche le milizie sunnite jihadiste di Al Qaeda che arrivano in Libano transitando dalla Siria».
E l’Iran?
«Teheran in questo momento non costituisce una minaccia per l’Unifil, non ha alcun interesse in una guerra civile in Libano e ha dunque interessi differenti dalla Siria, che resta comunque il suo più importante alleato regionale».
Come spiega la divergenza fra Damasco e Teheran?
«Con il fatto che per Teheran la priorità è il rafforzamento sul territorio, politico e militare, degli Hezbollah che si sono impegnati a non usare le loro armi contro altri libanesi. A ciò bisogna aggiungere che la roccaforte degli Hezbollah è in Libano del Sud, dove le popolazioni sciite stanno vivendo un boom economico proprio grazie alla presenza del contingente dell’Unifil. Una guerra civile porrebbe Teheran di fronte al rischio di veder molto indeboliti gli Hezbollah. Damasco invece ha l’interesse opposto, perché vede il Libano sfuggirgli di mano e l’Onu preparare il processo sull’omicidio di Hariri».

Dal CORRIERE della SERA :

Autobomba a Beirut, nove morti e tra le vittime il vero obiettivo della nuova strage: un altro deputato antisiriano, il cristiano maronita Antoine Ghanem, 64 anni, appartenente al partito falangista. Non un falco, però. Non un duro o un intransigente, ma un politico incline al dialogo, che tentava di raggiungere un compromesso con l'opposizione.
Antoine Ghanem era convinto infatti che vi fossero le condizioni per giungere alla riconciliazione nazionale e scongiurare il disastro. L'hanno fatto tacere.
È inevitabile, a questo punto, domandarsi quanti cadaveri bisognerà ancora contare prima dell'elezione del nuovo presidente, prevista fra cinque giorni ma sempre più improbabile, e prima che il povero Libano possa scegliere (o subire) un nuovo esecutivo. Sì, perché dopo la serie di stragi mirate a indebolire il fragile governo del premier filo-occidentale Fuad Siniora, ormai ci si abbandona a un cinico calcolo aritmetico. Sono appena tre i deputati a vantaggio di una maggioranza composta da esseri umani che ogni giorno giocano a scacchi con la morte.
Più che comprensibile lo sfogo del leader druso Walid Jumblatt, che non esita a indicare le responsabilità di Damasco. Ben più crudo il ministro Ahmed Fatfet, il quale denuncia: «La Siria è l'unico Paese a non volere che si tengano elezioni presidenziali». Amaro l'ex capo dello Stato, Amine Gemayel, che ha perduto suo figlio Pierre, che era ministro
del governo Siniora e fu ammazzato lo scorso novembre: «Più che la scelta del presidente è in gioco la sopravvivenza del nostro Libano ».
Parole quasi disperate, in un Paese dove la violenza politica uccide più delle peggiori malattie e dove non c'è luce in fondo al tunnel. L'estate relativamente tranquilla aveva illuso gli ottimisti. Come li avevano illusi gli ammirevoli sforzi dei moderati di entrambi gli schieramenti: il fronte antisiriano, nato dopo l'assassinio dell'ex premier Rafic Hariri, e composto da cristiani maroniti, musulmani sunniti e drusi; e l'opposizione filosiriana, composta da musulmani sciiti sostenuti dall'Hezbollah e da altri maroniti, guidati dall'ex generale Michel Aoun, che un tempo aveva dichiarato guerra a Damasco e oggi è pronto a dimenticare, con la speranza (evidente) di diventare capo dello Stato.
È proprio questo intreccio di strategie regionali, intrighi locali, interessi economici e invidie tra clan rivali a creare un clima mefitico e decisamente pericoloso. Con un presidente uscente, Emile Lahud, sostenuto dal regime di Bashar el Assad, che ha poca voglia di andarsene e che potrebbe essere tentato dall'idea di nominare un governo alternativo a quello di Siniora. E con una cornice mediorientale sempre più inquietante.
La Siria, alleata dell'Iran e sostenitrice dell'Hezbollah e di Hamas, ha condannato duramente l'attentato di ieri, sostenendo che «in Libano si cerca di impedire la riconciliazione nazionale». Ma analoghe condanne verbali avevano accompagnato tutte la stragi precedenti. Al solito, Damasco si muove su molti piani: dice d'essere pronta a negoziare la pace con Israele, però rafforza l'alleanza con Teheran; teme il processo internazionale (di cui si parla sempre meno) sull'assassinio di Hariri, però promette di impegnarsi a lottare contro il terrorismo. Ora, pensare che sia estranea alla strage di ieri è un'ingenuità. Anche perché la Siria può rinunciare a molte cose, ma non rinuncerà mai ai «diritti» che vanta sul Libano. Costi quel che costi.

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