Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Contro la minaccia siriana e iraniana Israele prova la deterrenza cronache e analisi
Testata:Il Giornale - Il Foglio - L'Opinione Autore: la redazione - Dimitri Buffa Titolo: «L’Iran minaccia: il 12 ottobre «risposta definitiva» a Israele - Il gas nervino di Iran e Siria - Le sanzioni non vengono applicate»
Dal GIORNALE del 20 settembre 2007:
Se Israele attaccherà l’Iran, le forze armate di Teheran hanno già pronti piani di attacco di rappresaglia contro lo Stato ebraico. Lo ha dichiarato il comandante dell’aeronautica iraniana citato dall’agenzia Fars. L’Iran ha minacciato una «risposta definitiva» - verosimilmente militare - a Israele e ai suoi amici, in occasione della Giornata di Gerusalemme, che le autorità della Repubblica islamica celebreranno il prossimo 12 ottobre. A formulare la minaccia è stato ieri il portavoce del governo Gholam-Hossein Elham, nel corso di un incontro con la stampa a Teheran. Secondo il resoconto fornito dall’agenzia Irna, quella di Teheran sarebbe una risposta alla visita nella regione del segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice. La Giornata di Gerusalemme (Al Quds in arabo) è stata istituita nel 1979 dall’ayatollah Khomeini e viene celebrata l’ultimo venerdì del mese sacro del Ramadan. Ogni anno la celebrazione offre lo spunto ai governanti iraniani per evocare la distruzione di Israele, definita dalla Guida suprema, l’ayatollah Khamenei, «l’unico modo per risolvere tutti i problemi del Medio Oriente». «Abbiamo un piano che prevede, nel caso di un eventuale attacco di pazzia» del governo israeliano, «che i cacciabombardieri iraniani colpiscano per rappresaglia il territorio israeliano», ha detto il vice comandante dell’aeronautica, Mohammed Alavi. Gli aerei iraniani sono già puntati contro lo Stato ebraico, ha aggiunto. «La gittata dei nostri missili copre l’intero territorio di quel regime. Questo piano non è una vana minaccia, perché tutto quello che facciamo è basato su un programma. Israele dovrebbe togliersi dalla testa ogni follia». «Israele non è in grado di lanciare nessun attacco aereo contro l’Iran, ma se il regime fosse così stupido dal farlo, abbiamo definito un piano per un attacco aereo contro il territorio di Israele come risposta», ha quindi dichiarato Alavi, che fa parte dell’apparato militare tradizionale, non dei guardiani della rivoluzione. Il ministro della Difesa iraniano, Mustafa Mohammed Najar, ha precisato, usando la stessa retorica degli Stati Uniti, che Teheran «mantiene aperte diverse opzioni per rispondere alle minacce... e a cui fare ricorso se necessario». La Casa Bianca ha subito replicato alle dichiarazioni di Alavi: «Credo che questo tipo di commenti non aiutino, non siano costruttivi e sembrano quasi provocatori», ha affermato la portavoce di George W. Bush, Dana Perino, spiegando che «Isreale non vuole la guerra con i suoi vicini», e ha esortato la Repubblica islamica a bloccare le attività di arricchimento dell’uranio. Israele, dal canto suo, prende «sul serio» le dichiarazioni del vice comandante dell’aeronautica iraniana, che ha parlato dell’esistenza di un piano per colpire Israele, nel caso in cui lo Stato ebraico attacchi Teheran. «Sfortunatamente ascoltiamo troppo spesso dichiarazioni bellicose, estreme e detestabili dalla dirigenza iraniana», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Mark Regev, il quale ha sottolineato che lo Stato ebraico «prende queste minacce molto seriamente, così come fa la comunità internazionale».
Dal FOGLIO:
Roma. “Abbiamo ristabilito la deterrenza nei confronti della Siria e dell’Iran”: con questa frase Amos Yadin, capo dei servizi segreti militari di Israele, ha spiegato alla Knesset il senso dell’ultima scossa impressa da Israele agli equilibri mediorientali. Una frase un poco criptica, che però ha in sé anche la spiegazione della ridda di dichiarazioni e smentite che occupano i giornali in questi giorni. Il senso delle parole di Amos Yadin è tutto riassunto in alcuni fatti. Il primo: la Siria, che ha rinnovato il 21 luglio scorso a Damasco il patto militare che lega il presidente siriano Beshar al Assad a quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad, sta tentando di dotarsi di armamento nucleare comprato dalla Corea del nord e di installarlo su uno dei suoi 60 Scud-C. Sta anche tentando di dotarsi di armi chimiche letali a lunga gettata, come dimostra l’esplosione del 23 luglio scorso – rivelata lunedì dalla rivista militare Jane’s Defense – in cui dozzine di ufficiali iraniani e 15 ufficiali siriani sono morti mentre tentavano di armare alcuni Scud-C con gas nervino in una base di Aleppo. Il riequilibrio della deterrenza a favore di Israele è stato conseguito con l’azione dell’aviazione di Gerusalemme che il 6 settembre ha fatto alzare otto Raam F151 e un Elint da ricognizione, che hanno percorso indisturbati tutto lo spazio aereo siriano senza essere intercettati dai modernissimi sistemi russi Pantsyr e hanno distrutto la caserma di Dayr ar Zawe, in cui era custodito l’armamento atomico sbarcato giorni prima a Tartus. Va notato che in termini di “deterrenza” il successo israeliano non riguarda solo l’eliminazione delle atomiche, ma anche e soprattutto la dimostrazione di una straordinaria capacità operativa. Tutte le illusioni islamiste sulla crisi militare di Israele, dopo le difficoltà riscontrate nel 2006 in Libano, sono state spazzate via. Con l’azione del 6 settembre, Ehud Barak ha dimostrato che Israele può ripetere quando vuole l’exploit del giugno 1967, quando distrusse al suolo le flotte aeree di Egitto, Siria e Giordania. In questa luce vanno lette le minacciose dichiarazioni di ieri di Mohammed Alavi vicecomandante dell’aviazione dell’Iran: “Abbiamo un piano che prevede, nel caso di un eventuale attacco di pazzia del governo israeliano, che i cacciabombardieri iraniani colpiscano per rappresaglia il territorio israeliano: la gittata dei nostri missili copre l’intero territorio di quel regime. Questo piano non è una vana minaccia, Israele dovrebbe togliersi dalla testa ogni follia”. In questo contesto di deterrenza riequilibrata, vanno infine collocate le dichiarazioni di Simon Peres che martedì ha affermato: “Il nervosismo nelle relazioni tra noi e la Siria è finito”. Il tutto mentre Ehud Olmert, dopo la dimostrazione di forza data il 6 settembre, apriva cautamente una disponibilità di trattative con Damasco, nel chiaro intento di arrivare con un clima migliore all’imminente conferenza sul medio oriente. Le stesse parole di Bernard Kouchner sulla possibilità di una guerra con l’Iran, sono state palesemente ispirate dalla scossa che la diplomazia occidentale ha ricevuto nel constatare che la Siria – lungi dal disporsi alla trattativa invocata dai democratici di mezzo mondo – sta addirittura tentando di dotarsi di armi atomiche. Notevole, peraltro, lo straordinario silenzio dei paesi arabi e della Turchia (che sicuramente monitorava l’azione aerea israeliana ai suoi confini e non ha minimamente protestato per il sorvolo del suo territorio nazionale). Le denuncie siriane contro l’atto di guerra israeliano sono cadute nel vuoto totale, non una capitale araba ha pronunciato una parola contro Gerusalemme, segno evidente del sollievo – soprattutto del Cairo, di Amman e di Riad – per il pieno successo di un’azione che le ha liberate dalla nuova minaccia dell’asse Damasco-Teheran. Con eccellente sintesi, ieri Condoleeza Rice ha posto il sigillo a due settimane di convulsioni: “Siamo convinti che a fronte del programma nucleare iraniano, la via diplomatica possa funzionare soltanto se accompagnata da una serie di incentivi, ma se è capace anche di mostrare i denti”.
Da L'OPINIONE:
Forse ci saranno degli attacchi americani contro le postazioni dove l’Iran di Ahmadinejad si illude di potere arricchire l’uranio per farsi l’arma atomica che vorrebbe usare contro Israele. E sicuramente avverranno prima che finisca il mandato di George W Bush. Però, per quelle burocratiche contraddizioni cui l’America ci ha da tempo abituato, gli Stati Uniti stentano a colpire quelle aziende o quei singoli, anche americani, che si sono resi colpevoli di avere violato l’embargo con lo stesso paese che si vorrebbe colpire con i missili. Che evidentemente arrivano a bersaglio sempre prima della carta bollata. E’ di ieri in tal senso un articolo dell’International Herald Tribune: gli Stati Uniti vanno a rilento nel punire gli iraniani, ovviamente con le sanzioni.
La situazione viene così inquadrata da Steven R. Weisman: “nei sei mesi da quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha agito per congelare i beni iraniani e proibire i viaggi dei diplomatici e delle autorità di Teheran oltre oceano, compresi i membri della Guardia Rivoluzionaria, un imbarazzante ostacolo è saltato fuori: gli Stati Uniti non hanno i numeri dei passaporti e altri dati che potrebbero servire a sorvegliare i movimenti della maggior parte di queste persone nella black-list“. Sono un po’ i paradossi di questa guerra al terrorismo che spesso non si riesce a condurre né con le buone, perché la burocrazia intralcia non poco, né con le cattive, perchè la Cia si fa puntualmente beccare, come nei casi di “extraordinary renditions” tipo quella di Abu Omar.
E gli Stati Uniti sono anche costretti ad ammettere che proprio ora che Bush e Cheney fanno giustamente il pressing per mettere l’Iran con le spalle al muro, l’amministrazione americana non è ancora riuscita nemmeno a trascinare in tribunale e a punire le ditte che sono state già segnalate dallo stesso Consiglio di sicurezza dell’Onu per avere violato l’embargo. Insomma, un po’ un disastro per l’immagine di questa amministrazione, che però la storia probabilmente rivaluterà in un secondo momento, come ha già fatto con quella di Ronald Reagan. Dove (ovviamente) se la ridono, su tutto questo stato di cose, è in Europa, continente che non ha mai nascosto la propria ostilità alle scelte dell’attuale amministrazione statunitense, sanzioni comprese.
Ma dall’America le accuse vengono ribaltate, secondo il fedele reportage di Weisman: “il problema è come ottenere informazioni anche di intelligence dagli alleati europei e da quelli mediorientali”. Un qualunque errore nel congelare i conti o nell’identificare persone e società diventa un impedimento procedurale da gioco dell’oca: quello in cui si torna sempre alla casella di partenza. Delle 25 entità citate sinora in giudizio dal Consiglio di sicurezza Onu, gli Stati Uniti sono riusciti a bloccare i beni solo di due. Gli accusati di inefficienza ovviamente tentano di scagionarsi e dicono che gli agenti federali americani passano il tempo a bussare a porte chiuse che mai si aprono... che poi sarebbero quelle dei servizi di sicurezza teoricamente alleati. Dove sarà al verità? Forse nel mezzo. Di certo per risolvere quello che i paesi arabi chiamano il “milaf“, ossia il dossier, iraniano, l’opera di qualche missile intelligente risulterà sicuramente più decisiva e determinante di quella di tante sanzioni non mirate.
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