giovedi` 15 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
02.09.2007 "Dialogare" con Ramadan e con gli islamisti "buoni"
il dibattito tra Paul Berman, Ian Buruma e Mark Lilla

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Dino Messina - Christian Rocca
Titolo: «Parlare con i «cattivi maestri»? - “Io Tariq Ramadan lo prendo sul serio, per questo lo critico”»
Il CORRIERE della SERA del 2 settembre 2007 pubblica un articolo di Dino Messina sulla polemica tra Paul Berman, Ian Buruma e Mark Lilla.
Buruma e Lilla sostengono la necessità di "dialogare" anche con una parte dell'islam fondamentalista, il cui rappresentante più noto e intellettualmente sosfisticato è Tarq Ramadan.
Per Lilla, un'evoluzione in senso laico del mondo islamico è impossibile, e l'Occidente dovrebbe dunque sostenere una "terza via", una sorta di compromesso tra modernità e islam. Ramadan, in questo quadro, diventa l'intellettuale di riferimento.

Questa ipotesi trascura evidentemente il ruolo che, nell'azione politica e culturale di Ramadan, gioca la dissimulazione. Ramadan teorizza e mette in pratica la leggitimità e la  necessità di un doppio linguaggio dell'intellettuale musulmano. Il suo progetto prevede la "modernizzazione dell'islam" quando parla ai laici occidentali, ma si trasforma nell'islamizzazione della modernità quando si rivolge aun pubblico  di musulmani.

Le sue proposte di "riforma" dell'islam non mettono per altro mai in discussione il ruolo della sharia, il potere dei giuristi musulmani, l'inferiorità della donna.

Anche la posizione di Ramadan sul conflitto israelo-palestinese dovrebbe indurre a seri dubbi sulla possibilità di considerarlo un interlocutore. Il rifiuto dell'esistenza di Israele, la "comprensione" per il terrorismo suicida, l'attacco antisemita agli intellettuali ebrei francesi che sostengono Israele dovrebbero averlo da tempo squalificato come possibile esponente  di un "islam politico" lontano dalle tentazioni della violenza e del totalitarismo.

Di seguito, l'articolo di Messina, piuttosto squlibrato, dato che, dopo aver riassunto il dibattito tra Buruma e Berman, si chiude con le tesi di Mark Lilla, che muove nuove critiche al concetto di islamofascismo proposto dall'intellettuale liberal americano

Ecco il testo: 


L' occasione è all'apparenza delle più noiose e accademiche, la pubblicazione di un libro sulla secolarizzazione, la divisione fra religione e politica. Ma la discussione è accesa, come non se ne vedevano da tempo, e divide alcuni tra i maggiori rappresentanti dell'intelligentia liberal americana. Da una parte il liberal Paul Berman, autore di Terrore e liberalismo e collaboratore della
New Republic edel Foglio, dall'altro due autorevoli esponenti del circolo intellettuale che ruota attorno alla New York Review of Books, l'anglo-olandese Ian Buruma, autore tra l'altro di Assassinio ad Amsterdam. I limiti della tolleranza e il caso di Theo Van Gogh, collaboratore del Corriere della sera eMark Lilla, saggista emergente che con il recente The Stillborn God («Il dio nato morto» edito da Knopf) ha dato fuoco alle polveri. Perché l'analisi della separazione tra teologia e politica comporta la discussione se il modello occidentale debba essere considerato valido anche per il mondo islamico. E con un passo ulteriore se abbia fatto il suo tempo il concetto di «islamofascismo » elaborato, dopo l'attacco alle Torri Gemelle, da Paul Berman. E ancora, in una discussione che a ogni tornata si fa più nervosa, se sia giusto dialogare con figure di spicco della nuova cultura politica islamica come Tariq Ramadan, residente in Svizzera e docente a Oxford, consulente di punta per i rapporti con l'Islam nella Gran Bretagna di Tony Blair, ma impedito a mettere piede negli Stati Uniti perché considerato soggetto pericoloso dal governo di George W. Bush.
Ramadan per la sua presenza in giugno al festival di filosofia a Roma e al Salone del libro di Torino ha diviso gli animi anche in Italia. E oggi continua a dividere la sinistra liberal negli Stati Uniti, dove Mark Lilla e Ian Buruma lo ritengono, con diverse sfumature, un modernizzatore e un innovatore con cui dialogare, mentre Paul Berman, che gli ha dedicato un lungo saggio tradotto dal Foglio il 4 luglio scorso, ne mette in luce soprattutto le ambiguità e contraddizioni. La polemica dagli Stati Uniti è rimbalzata sul giornale diretto da Giuliano Ferrara per merito dell'attento Christian Rocca. E ora i protagonisti continuano la discussione sul Corriere. Aprendo un nuovo fronte.
«Io non ho mai affermato né scritto — ci dice Berman — che Tariq Ramadan è un fascista o una persona con cui non si debba confrontarsi. Ho semmai sostenuto che suo nonno, Hassan Al Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, si ispirò in parte al fascismo europeo. Il nipote mantiene un'attitudine ambigua verso la democrazia: da un lato spende buone parole sui diritti umani, dall'altro parla con ammirazione di Yusuf Al-Qaradawi, il fratello musulmano che è il teorico teologico del terrorismo islamico.
Scrittori come Ian Buruma dicono che più che attaccare bisogna confrontarsi con Ramadan, e Buruma lo ha fatto in una intervista per la New York Review of books. Peccato che invece di dialogare con lui egli si sia sdraiato ai suoi piedi».
Non crede di esagerare il professor Berman. E incalza: «Il mio tentativo di dialogo è invece basato sul parlar chiaro. Nel giugno dell'anno scorso incontrai Ramadan in Svezia e gli posi due domande, una in pubblico e l'altra in privato. Durante un dibattito gli chiesi come mai non appoggiasse il governo democraticamente eletto dell'Iraq. Lui mi rispose che non considerava democratiche le recenti elezioni irachene. In privato poi gli chiesi conto di un passaggio contenuto in un suo saggio su Islam, occidente e modernità in cui citava il padre, sostenitore della legittimità della violenza contro tutti i sionisti.
Egli mi rispose che non ricordava di aver mai scritto o citato nulla di simile».
Ian Buruma e Mark Lilla secondo Berman sbagliano a considerare «Ramadan quanto di meglio l'Islam riesca oggi a esprimere dal punto di vista intellettuale. Preferisco di gran lunga musulmani laici come Orhan Pamuk, Salman Rushdie o Ayan Irsi Ali. Questi sì portatori di un pensiero che non desta sospetti di ambiguità ». L'autore di Terrore e liberalismo, pur non avendo «alcun motivo di ritenere che sia in qualche modo legato al terrorismo», tuttavia paragona Ramadan a «quegli intellettuali che negli anni Settanta in Europa esprimevano posizioni ambigue sul terrorismo in nome delle simpatie proletarie». La cosa giusta da chiedere a quei personaggi, dice Berman, «era di esprimersi con chiarezza contro il terrorismo al di là della cortina fumogena rappresentata dal proletariato ». Dunque Ramadan come gli intellettuali fiancheggiatori delle Brigate Rosse? «No — risponde Berman —, il confronto da fare è un altro. Fatte le debite proporzioni, il paragone è semmai con il filosofo Martin Heidegger, che non uccise mai nessuno ma sostenne il nazismo, o con Jean-Paul Sartre, cattivo maestro che appoggiò Stalin».
Ian Buruma, l'autore di Assassinio ad Amsterdam,
ama toni più sfumati: «Considero Tariq Ramadan qualcuno con cui confrontarsi seriamente perché è un musulmano ortodosso che vuol trovare un posto in Occidente per l'islamismo. È necessario parlare con gente come lui non soltanto perché egli ha una grande influenza nella comunità islamica ma perché sta cercando di lavorare seriamente per l'integrazione della sua comunità. Non esiste alcuna evidenza che egli sia un personaggio contrario alla democrazia e favorevole alla violenza. Lo possiamo criticare ma non ha mai sostenuto che il terrorismo sia giusto. Paul Berman ritiene che parlare con lui significhi dargli ragione; io invece, nella mia intervista per la New York Review of books, ho potuto constatare che è una persona diplomatica, a volte contraddittoria, ma non un fautore della violenza». Buruma non condivide il giudizio di Berman su Ramadan e non è d'accordo nemmeno con la sua categoria di «fascismo islamico »: Berman, secondo Buruma, fa di tutto l'Islam un fascio. Invece «all'interno del mondo musulmano bisogna distinguere vari tipi di radicalismo, quello a sfondo nazionalista della Tailandia è diverso per esempio dall'islamismo delle comunità londinesi». In conclusione, secondo Buruma, per favorire l'integrazione della vasta comunità islamica in Europa, almeno venti milioni di persone, «bisogna dialogare anche con i leader religiosi. Se parli solo ai laici non ti confronti con nessuno».
La parola infine a Mark Lilla.
L'autore di The Stillborn God schematizza in tre punti la sua posizione. Innanzitutto, precisa, «la democrazia è nata in Occidente dalla grande separazione della teologia politica dalla moderna filosofia politica. Non esiste democrazia senza questa separazione, in Occidente come in Oriente. Ma nelle democrazie liberali ci sono cittadini credenti. E questi credenti possono votare secondo il loro punto di vista teologico? Ciò è illegale? No, non lo è, a patto che riconoscano la legittimità del voto e ne rispettino i risultati». Secondo Lilla, poi, la categoria dell'islamofascismo non aiuta a capire davvero l'islamismo politico. Certo, «nel mondo islamico ci sono tiranni come lo erano quelli fascisti, ma l'ispirazione teologica delle loro ideologie ne fa un caso a sé stante. Le psicodinamiche della teologia politica sono molto differenti da quelle della secolarizzata ideologia fascista. La maggior parte delle persone ispirate dalla teologia politica vivono in una servitù volontaria. Non si tratta semplicemente di liberarli da un'oppressione. Io penso che sia questa la principale differenza tra la posizione di Berman e la mia: che egli non riconosce appieno la peculiarità del mondo islamico come se si trattasse dell'Europa orientale durante la Guerra Fredda. Sia io che Paul desidereremmo che la teologia politica allentasse la sua presa nel mondo musulmano e che si affermassero subito governi democratici. Per me non è un obiettivo raggiungibile nei prossimi decenni. Cosa fare allora? Secondo Berman bisogna appoggiare i pochi democratici e per il resto affidarsi alla speranza. Ma questo è puro romanticismo. Secondo me occorre una strategia più concreta».
Ecco che, a questo punto, interviene la questione Ramadan. «Questi — dice Lilla — è un teologo politico, non un democratico moderno. Ma considerato che l'Europa è diventata la casa di milioni di musulmani attaccati alla teologia politica islamica, e che non necessariamente riconoscono la moderna democrazia, il problema è come mettersi in contatto con questo mondo. Essi sono certamente raggiunti dalle teologie politiche apocalittiche provenienti dal Medio Oriente e dall'Asia meridionale. Non esiste altra risposta teologica possibile? Ramadan la pensa così e cerca di favorire un accordo tra la legge islamica e la democrazia occidentale. Questo è un passo avanti nel regno della teologia politica musulmana, sebbene la visione di Ramadan su alcune questioni a noi sembri una regressione. Ma noi non siamo la sua audience, lo sono invece i musulmani».

Dal FOGLIO del 31 agosto 2007, un articolo di Christian Rocca che riporta le risposte di Berman ai suoi critici :

New York. Paul Berman è l’intellettuale di sinistra che all’indomani dell’undici settembre, nel suo appartamento del quartiere musulmano di Brooklyn, ha scritto “Terrore e Liberalismo”, uno dei saggi più influenti sul fondamentalismo islamico e le sue articolazioni politiche nel mondo arabo. La tesi di Berman, ben nota ai lettori del Foglio, era che quei regimi dispotici fossero l’ultima eredità delle ideologie totalitarie del Novecento, il fascismo e il comunismo, ovviamente rivedute e corrette alla luce della tradizione e della cultura coranica. Da qui l’origine della definizione “fascismo islamico” che a poco a poco è entrata nel lessico politico globale, sia pure – con grande rammarico di Berman e dei suoi ormai sparuti compagni liberal – più grazie alla destra che alla sinistra. L’attenzione di Berman su questi temi non s’è mai fermata e, di recente, ha scritto un lungo saggio su Tariq Ramadan, prima apparso sul magazine liberal The New Republic e poi, il 4 luglio scorso, sul Foglio. Berman risponde alle critiche che ieri, su queste colonne, gli ha posto Mark Lilla, l’autore di “The Stillborn God”, un libro sui rapporti tra religione e politica. Intellettuale liberal, ma con precedenti e solidi flirt con l’ala straussiana dei neoconservatori, Lilla ha contestato a Berman sia la tesi di “Terrore e Liberalismo” sia, come la definisce lui stesso, la demonizzazione di Ramadan. Secondo Lilla, Berman sbaglia perché sostiene che il fondamentalismo islamico sia solo un’altra forma di fascismo, con una semplice foglia di fico teologica a coprire la sua vera essenza. Sicché gli imputa di “non riconoscere le specifiche passioni e motivazioni religiose che stanno alla sua base”. Berman risponde alla critica citando le primissime pagine del suo libro, dove scrive senza giri di parole di “non voler negare o ignorare nemmeno per un minuto le origini autenticamente musulmane e locali dell’impresa di Bin Laden”. Il punto di Berman, peraltro metodologicamente simile a quello del libro di Lilla, era che per comprendere a pieno il fenomeno islamista bisognasse guardare non solo a oriente, come si sono affrettati a fare tutti gli studiosi dopo l’undici settembre, ma anche a ovest, cioè a quelle culture, idee e filosofie, anche le più orribili, che in passato l’occidente ha malauguratamente esportato. “Non è la prima volta che mi rivolgono l’accusa di aver sottovalutato la base religiosa dell’islamismo – dice Berman al Foglio – ma è una calunnia. Un terzo, forse addirittura un quarto di ‘Terrore e Liberalismo’ è dedicato allo studioso islamico Sayyid Qutb e alla sua lettura del Corano”. La critica di Lilla, come ha riconosciuto lo stesso Berman, non è nuova. Da poco è uscito un libro del professor Stephen Holmes, “The Matador’s Cape: America’s Reckless Response to Terror”, in cui gli viene rivolta la stessa accusa, peraltro demolita da Peter Berkowitz sul numero in edicola di Policy Review. Berkowitz scrive che l’accusa a Berman di aver ignorato l’aspetto religioso del terrorismo non sta in piedi, visto che “il suo ragionamento è che l’estremismo islamico rappresenti una fusione tossica tra la fede religiosa musulmana e le idee europee derivanti dal pensi ro fascista ed esistenzialista”. Anche Bernard Henry Lévy nel suo libro “American Vertigo”, e molti altri intellettuali spesso accusati di essere degli apologeti di George W. Bush, hanno compreso perfettamente l’argomentazione di Berman, peraltro più che chiara già nella definizione di “fascismo islamico”. Berman ha una spiegazione: “I miei critici dicono questo perché se avessi detto che l’islamismo è una dottrina strettamente laica, avrei ovviamente detto una cosa ridicola e, quindi, non ci sarebbe alcun motivo di confrontarsi con la mia tesi. Ma se, invece, avessi detto qualcosa di un po’ più sottile, avrebbero dovuto affrontare la mia tesi e discuterla, cosa che invece non vogliono fare”. Lilla, infine, ha detto al Foglio che Berman ha “demonizzato” i cosiddetti rinnovatori islamici alla Tariq Ramadan. Berman rifiuta l’accusa: “Credo, invece, di aver preso Ramadan completamente sul serio, punto su punto. Lilla, Ian Buruma e altri dicono sempre che bisogna cominciare a discutere con Ramadan. Bene, ottimo. Chi ha cominciato questa discussione? Io l’ho fatto. Loro no. Cominciare a discutere non vuol dire sdraiarsi ai suoi piedi come un tappeto, significa prendere qualcuno sul serio sia per le cose buone che dice, sia per quelle cattive”.

Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera e del Foglio cliccare sul link sottostante

lettere@corriere.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT