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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.08.2007 La verità su Al Qaeda in Iraq
un intervento di Christopher Hitchens

Testata: Corriere della Sera
Data: 25 agosto 2007
Pagina: 41
Autore: Christopher Hitchens
Titolo: «I falsi miti (occidentali) su Al Qaeda in Iraq»
Dal CORRIERE della SERA del 25 agosto 2007:

Ho passato questi mesi a discettare di cattolici di rito romano che bisticciano coi confratelli ortodossi dell'Est sulla natura della Trinità, protestanti pronti a guerreggiare sui concetti di «elezione» e «predestinazione», ebrei che non riescono a digerire l'alleanza con Dio. Per arcane che tali dispute possano sembrare, e per sgradevole che lo spettacolo di fedeli in lotta perenne possa apparire ai miei occhi, i credenti rappresentano un modello di lucidità, dinanzi alla pedanteria dei laicisti incapaci di accettare che «Al Qaeda nella terra dei due fiumi» sia una costola della stessa Al Qaeda.
Le obiezioni al dato lapalissiano assumono due possibili forme. Si sostiene, anzitutto, che tale organizzazione non esisteva prima dell'intervento in Iraq. E, in secondo luogo, che il carattere della stessa cellula sia in un certo senso autonomo da Osama Bin Laden. Talvolta, ma non sempre, si vuole suggerire con tali obiezioni che la «vera» battaglia contro Al Qaeda sia (o debba essere) combattuta non in Iraq, bensì in Afghanistan. La concreta realtà che si offre ai nostri occhi, tuttavia, per nulla s'intona con tale diagnosi: non con la prospettiva «rigida» per cui il terrorismo di Al Qaeda è una forma di «resistenza» all'imperialismo dell'Occidente; non con quella «morbida» secondo cui il mostro iracheno è stato partorito tout court
dal nostro intervento nel Paese.
Fondatore di «Al Qaeda nella terra dei due fiumi» fu Abu Musab Al Zarqawi, che ormai possiamo con sollievo fregiare dell'aggettivo «defunto». Una prima osservazione s'impone: egli si trovava in Iraq già prima che noi arrivassimo. E una seconda: l'uomo si è rifugiato nel Paese soltanto perché stanato dall'Afghanistan. Ergo, a rigor della logica di chi sostiene che la «vera» guerra sia quella in Afghanistan, meglio sarebbe stato lasciare Zarqawi al suo posto. Chi legge avrà già individuato il banale errore di ragionamento che soggiace a tale convinzione. Che sottintende anche l'idea disfattista — leitmotiv dell'opposizione all'intervento in Afghanistan — per cui è inutile tentare di soppiantare individui di quel tipo giacché «ne spunteranno altri al loro posto». Ma chi abbraccia tale visione dovrebbe avere il coraggio della coerenza, senza indulgere alla fantasiosa retorica dello spauracchio.
Ora, come tutti sappiamo, si dà anche il caso che Zarqawi — il quale, probabilmente, si considerava al contempo complice e rivale di Bin Laden — scrisse a quest'ultimo e al suo luogotenente Ayman Al Zawahiri dall'Iraq per chiedere l'«esclusiva» locale e proclamarsi leader. Dubbia onorificenza che gli fu prontamente conferita. Ma sappiamo anche che egli pianificò personalmente la distruzione del nuovo Iraq: una semplice strategia per incitare la mattanza civile tra musulmani sunniti e sciiti.
Così, a volere distinguere tra il frutto e l'albero, andrebbe senz'altro chiarito che «Al Qaeda nella terra dei due fiumi» è, se mai, ben più virulenta e sadica e nichilista della sua casa madre. Rilievo che induce a una seconda considerazione. In province come quella di Anbar, e in alcune aree di Bagdad, persino i militanti sunniti si sono allontanati, disgustati e atterriti, dalle forze di «Al Qaeda nella terra dei due fiumi». Non è arduo immaginare il perché: basti pensare come sarebbe vivere, foss'anche un giorno, sotto la legge tribale decretata da soggetti a tal punto imbevuti di fanatismo e perversione.
Sostenere che, nell'assenza delle forze di coalizione, non vi si sarebbe stato alcun tentativo di «talebanizzare» l'Iraq, equivale a postulare due tesi pericolose, e una potenzialmente letale. La prima: gli avvoltoi non si sarebbero mai adunati per banchettare sulle marcescenti spoglie dello Stato saddamita, uno Stato già sulla via dell'implosione. La nostra diretta esperienza in Paesi quali Somalia e Sudan, e soprattutto in Afghanistan, grida all'idiozia di questa tesi. È in assenza dell'attenzione internazionale, difatti, che tali lugubri anomalie possono attecchire.
La seconda: più duro è il nostro impegno a debellare queste ultime, più il cancro metastatizza. Ciò che viene sconfessato en gros dall'esperienza irachena. Falluja e Baquba potevano già essere divenute i punti focali di un mini-Stato integralista talebano, come un tempo minacciavano; oggi, invece, non solo i sicari di «Al Qaeda nella terra dei due fiumi» sono stati eliminati a migliaia, ma anche l'opinione pubblica locale sembra avere preso decisamente le distanze e da tali individui. La terza: se le forze di coalizione si ritirassero, i sicari di «Al Qaeda nella terra dei due fiumi» non avrebbero più ragion d'essere. Non intendo neppure abbassarmi a raccogliere queste idee dal posto che è loro proprio: il piano fetido del lazzaretto che fa da ineluttabile ricettacolo al pensiero illogico e illusorio.
Se le mie parole contengono un pizzico di ragione, un prezioso tesoro è a portata di mano. Non soltanto, difatti, possiamo negare ai cloni del «binladenismo» una vittoria militare in Iraq: contemporaneamente, è possibile anche screditarli agli occhi — e con l'aiuto — di un popolo musulmano che ne ha fatta esperienza ravvicinata. Come nel caso dell'Afghanistan — dove diverse province si trovano attualmente in bilico tra un governo eletto che almeno tenta di diffondere istruzione e vaccini, e l'incognita di forze oscure la cui unica mira è negare tutto ciò —, la battaglia assorbirà tutte le nostre forze, fisiche e mentali. Chi può dire, però, che non si tratti della stessa sfida? E chi ardisce affermare che non vale la pena di raccoglierla?
 Distribuito da The New York Times Syndicate

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