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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - L'Unità Rassegna Stampa
06.08.2007 Intellettuali pentiti e giuristi che disprezzano le prove
mobilitati per la sconfitta in Iraq

Testata:La Repubblica - L'Unità
Autore: Michalel Ignatieff - Atonio Cassese - Toni Fontana
Titolo: «La mia autocritica sulla guerra in Iraq - 110 ANNI PER STUPRO MA NON BASTA - Iraq, per i soldati Usa crimini e immunità»

Michael Ignatieff si è pentito di avere sostenuto la guerra in Iraq, e chiede a Gerge W. Bush di cambiare anche lui idea, riconoscendo il proprio errore.
"Churchill e De Gaulle tennero fede alle loro convinzioni quando l´opinione pubblica pensò che fossero in errore. La loro determinazione ad attendere che un giorno la storia desse loro ragione pare oggi vera grandezza." scrive. Ma prosegue "nel caso dell´attuale presidente americano quella stessa fiducia nel fatto che la storia lo giudicherà positivamente appare invece una testardaggine bestiale".
Ma come appaia oggi la fiducia di Bush non è ancora, appunto, il giudizio della storia. Per quello, a Ignatieff come a tutti noi, toccherà aspettare.
La battaglia irachena è ancora in corso. E si sta decidendo ora se nel paese mesopotomaci sorgerà un modello di democrazia per tutto il mondo arabo o islamico, o se questo esperimento sarà travolto dal jihadismo.
Il senso di responsabilità degli intellettuali, in questo frangente, dovrebbe portare a non proclamare una sconfitta che ancora non si è verificata ( e che anzi è smentita da oggettivi progressi militari e nella sicurezza)

Ecco l'articolo, pubblicato da La REPUBBLICA del 5 agosto 2007 in prima pagina e a pagina 17:
 

LA CATASTROFE in corso in Iraq ha segnato la condanna del giudizio politico di un presidente. Ha segnato altresì la condanna del discernimento di molti altri, me incluso, che in qualità di commentatori avevano approvato l´invasione. Molti di noi credevano, come disse un mio amico esule iracheno la notte in cui scoppiò la guerra, che per quelli della sua generazione la guerra fosse l´unica chance per vivere in pace nel proprio Paese. Quanto remoto appare ormai quel miraggio!
Da quando nel 2005 ho lasciato la mia cattedra di docente a Harvard e sono ritornato in Canada, il mio Paese, per entrare nella vita politica, continuo a ritornare sulla débacle irachena allo scopo di comprendere esattamente in che modo i giudizi politici che ora devo formulare nell´arena politica debbano andare oltre ed essere migliori di quelli che ero solito avere dai margini della vita politica. Ho così appreso che si inizia ad acquisire un buon discernimento politico quando si sa a che punto è necessario ammettere di aver commesso un errore.
Il filosofo Isaiah Berlin una volta disse che il problema degli accademici e dei commentatori consiste nel fatto che più che avere a cuore che le loro idee siano veritiere, si preoccupano che siano interessanti. I politici vivono di idee tanto quanto gli uomini di pensiero, ma devono agire con quell´esiguo numero di idee che risultano essere vere e con quel numero ancor più esiguo di idee effettivamente applicabili alla vita reale. La responsabilità di un intellettuale, per ciò che concerne le proprie idee, è quella di controllarne le conseguenze, ovunque esse possano condurre. La responsabilità di un politico, invece, è di avere il controllo su quelle conseguenze, ed evitare che possano nuocere.
Ho capito che avere un buon discernimento in politica è qualcosa di diverso dall´avere un buon discernimento nella vita intellettuale
Tra gli intellettuali avere discernimento significa generalizzare e interpretare fatti ed eventi particolari alla stregua di esempi di idee importanti. In politica ogni cosa è ciò che è, e non un´altra cosa. I dettagli contano più delle generalizzazioni. La teoria è d´ostacolo. L´attributo che costituisce il presupposto fondamentale del buon giudizio nei politici è il senso della realtà. «Ciò che in uno statista chiamiamo saggezza» scrisse Berlin, riferendosi a personaggi quali Roosevelt e Churchill, «è saper capire piuttosto che sapere, avere una familiarità con i fatti che contano davvero tale da consentire a coloro che l´hanno di dire che cosa si rende necessario in una data circostanza, che cosa si può e non si può fare in una data situazione, che cosa funzionerà e in quale situazione e fino a che punto, senza necessariamente essere in grado di spiegare in che modo sanno ciò che sanno o addirittura che cosa sanno». I politici non devono confondere il mondo che è con il mondo che vorrebbero fosse. Devono considerare l´Iraq - o qualsiasi altro posto, se è per questo - per quello che esso è in realtà.
La decisione che gli Stati Uniti devono prendere in relazione all´Iraq è paradigmatica del discernimento politico nella sua accezione più difficile e complessa. Sia che si resti, sia che si vada via, i costi saranno enormi. Una cosa è tuttavia chiara: nel caso in cui si resti i costi saranno sostenuti dagli americani, mentre nel caso in cui ci si ritiri dall´Iraq i costi graveranno essenzialmente sugli iracheni.
Già questo lascia intuire in che modo è verosimile che i leader americani finiranno col dirimere la questione. Devono decidere, però. E subito. Procrastinare una decisione comporta un dispendio maggiore in politica che nella vita privata. Coloro che paiono prendere le decisioni migliori in politica sono gli stessi che non si esimono dalla responsabilità di prenderle. Nel caso dell´Iraq, decidere che linea d´azione perseguire in futuro presuppone di ammettere prima di tutto che tutte le linee d´azione seguite finora sono state un insuccesso.
In politica, imparare dagli insuccessi conta tanto quanto saper sfruttare i successi. «Fail again. Fail better» di Samuel Beckett riassume la tenacia interiore necessaria all´arte della politica. Churchill e De Gaulle tennero fede alle loro convinzioni quando l´opinione pubblica pensò che fossero in errore. La loro determinazione ad attendere che un giorno la storia desse loro ragione pare oggi vera grandezza. Nel caso dell´attuale presidente americano quella stessa fiducia nel fatto che la storia lo giudicherà positivamente appare invece una testardaggine bestiale. Machiavelli sosteneva che per essere utile il giudizio politico deve seguire principi più duri di quelli ammissibili nella vita di tutti i giorni. Egli scrisse che «è necessario che il principe desideri non demordere per sapere come si fallisce e farvi ricorso o meno a seconda delle esigenze». Roosevelt e Churchill sapevano come sbagliare, e ciò nondimeno non pretesero di essere giudicati in base a standard etici diversi da quelli con i quali erano stati giudicati i loro concittadini. Accettarono il fatto che i leader democratici non possono crearsi leggi morali su misura, restrizione che è valida sia in patria sia all´estero, a Guantanamo come ad Abu Ghraib e in qualsiasi altro posto.
I leader devono dunque vivere ed essere giudicati in rapporto alle stesse leggi di chiunque altro. Malgrado ciò, in alcuni ambiti il giudizio politico e il giudizio personale sono alquanto diversi. Nella vita privata, paghiamo lo scotto dei nostri errori. Nella vita pubblica gli errori di un politico sono pagati in primis dagli altri. Avere un buon giudizio significa capire in che modo essere responsabili nei confronti di coloro che pagheranno il prezzo delle nostre decisioni. I saldi principi hanno la loro importanza. Ma le idee fisse di tipo dogmatico sono di norma nemiche del buon giudizio.
Credere che la politica estera americana sia al servizio del piano divino mirante a estendere la libertà a tutti gli esseri umani è un evidente ostacolo alla limpidezza di ragionamento. Riflessioni ideologiche di questo tipo piegano quello che Kant definiva il «legno storto dell´umanità» per adeguarlo a un´illusione astratta. I politici che hanno buon giudizio piegano la politica per adeguarla al «legno dell´umanità».
Potremmo forse valutare le capacità di giudizio di un politico chiedendoci, per ciò che riguarda l´Iraq, chi ha preannunciato meglio ciò che sarebbe successo. Molti di coloro che di fatto hanno preannunciato correttamente la catastrofe in corso, lo hanno fatto però non perché abbiano esercitato giudizio, ma perché si sono abbandonati all´ideologia. Erano contrari all´invasione dell´Iraq perché credevano che il presidente avesse a cuore soltanto il petrolio, o perché credevano che l´America sbaglia sempre e in ogni circostanza.
Coloro che hanno davvero dimostrato di avere buon giudizio in relazione all´Iraq hanno preannunciato le conseguenze che di fatto si sono verificate ma hanno anche saputo valutare correttamente le motivazioni che spinsero a entrare in azione. Non necessariamente avevano informazioni migliori rispetto a noi tutti. Hanno riflettuto, come chiunque altro, sulla base delle medesime intelligence ingannevoli e con la medesima carenza di informazioni sulla compromessa storia settaria dell´Iraq. Ciò che non hanno fatto è stato confondere desideri e realtà. Non hanno presunto, come ha fatto il presidente Bush, che poiché credevano fermamente nell´integrità delle loro stesse motivazioni chiunque altro in quella regione ci avrebbe creduto. Non hanno presunto che uno Stato libero potesse sorgere sulle ceneri di 35 anni di terrore. Non hanno presunto che l´America avesse effettivamente il potere di forgiare la configurazione politica di un Paese molto lontano del quale la maggior parte degli americani conosce ben poco. Non hanno creduto che dal momento che l´America ha difeso i diritti umani e la libertà in Bosnia e in Kosovo dovesse necessariamente farlo in Iraq. Hanno evitato di commettere tutti questi errori.
Io ho commesso alcuni di questi errori, e qualche altro, mio particolare. La lezione che ho imparato e che mi gioverà in futuro è che devo lasciarmi influenzare meno dalle passioni delle persone che ammiro - gli esuli iracheni per esempio - e lasciarmi trascinare meno dalle emozioni. Nel 1992 mi ero recato nell´Iraq settentrionale. Lì avevo visto quello che Saddam Hussein aveva fatto ai curdi, e da quel momento in poi ho creduto che fosse necessario toglierlo di mezzo. Le mie convinzioni avevano tutta l´autorità dell´esperienza personale, ma proprio per questa ragione ho lasciato che l´emozione mi facesse sorvolare di prendere in considerazione le domande che contavano davvero, per esempio questa: «I curdi, i sunniti e gli sciiti potranno tenere insieme in pace ciò che Saddam Hussein ha tenuto insieme con il terrore?». Avrei dovuto sapere che in politica, come del resto anche nella vita, le emozioni tendono a non richiedere attenuanti e che per quanto riguarda il giudizio politico ultimo, mai niente, neppure i propri sentimenti, dovrebbero essere considerati immuni dall´onere di essere legittimati tramite il controllo incrociato e la discussione.
Si scopre così che il buon giudizio in politica dipende dall´essere giudici critici di se stessi. Non è che il presidente non si sia dato la pena di capire l´Iraq. Egli non si è dato la pena di capire neppure se stesso. Il senso di realtà che avrebbe potuto salvarlo dalla catastrofe avrebbe potuto prendere la forma di qualche campanello d´allarme che avrebbe suonato interiormente, mettendolo in guardia dal fatto di non sapere ciò che stava facendo. Ma è anche vero che è alquanto dubbio che un campanello d´allarme sia squillato dentro di lui in precedenza. Il presidente aveva condotto una bella vita, ha avuto tutto da essa e in questo tipo di vita i campanelli d´allarme non suonano mai. Le persone che hanno un buon giudizio ascoltano i campanelli d´allarme che sentono squillare dentro di sé. I leader previdenti si obbligano a prestare ascolto nello stesso modo sia ai sostenitori sia agli oppositori della linea d´azione che si ripromettono di perseguire. Non presumono che le loro buone intenzioni bastino a garantire buoni risultati. Non presumono di sapere tutto ciò che è necessario che sappiano. Se è vero che il potere corrompe, corrompe questo sesto senso di limite personale, preludio alla prudenza.
Un leader prudente salverà le democrazie dal peggio, ma leader prudenti non spronano la democrazia a dare il meglio che può. I popoli democratici in un leader dovrebbero sempre cercare qualcosa di più della prudenza: audacia, visione e - cosa che si accompagna a entrambe - una certa disponibilità a rischiare l´insuccesso. Ci si può fidare dei leader audaci fintanto che questi lasciano trapelare di avere un barlume di idea di ciò che significa fallire. Devono essere uomini che sanno cosa è il dolore e hanno familiarità con la sofferenza, come dice il Profeta Isaia, uomini e donne che non hanno avuto tutto dalla vita, che ci capiscono per quello che siamo in realtà, che non hanno mai rinunciato a sperare e che sono consapevoli di essere entrati in politica per rendere migliore il loro Paese. Questi sono i leader il cui giudizio, pur essendo di quando in quando sbagliato, si dimostra ciò nonostante meritevole di fiducia.

Le condanne per crimini di guerra ai soldati americani che li commettono non bastano ad Antonio Cassese, sulla base dell'assunto che tali crimini non sarebbero episodici, ma "sistemici".
Tutto l'apparato militare americano, in sostanza, vi sarebbe coinvolto.
Ovviamente non esiste nessuna prova per questa tesi, né nel suo insieme, né nel dettaglio (ad esempio, non viè prova che gli abusi di Abu Ghraib siano stati ordinati dall'alto)

Ecco l'articolo, da pagina 16 del La REPUBBLICA:

Il soldato semplice americano Spielman, che aveva partecipato con altri militari allo stupro e all´uccisione di una ragazza irachena e alla strage della sua famiglia, è stato condannato a 110 anni di carcere (l´accusa aveva chiesto la pena capitale). Spielman non è il primo: altri due suoi commilitoni hanno già avuto pene severe, e più di una dozzina di marines e soldati Usa implicati in altri crimini in Iraq sono sotto processo o già condannati. Si può dunque dire che le autorità statunitensi stanno imponendo a suon di sentenze il rispetto del diritto e la protezione dei civili ai propri militari? Direi di no, per due motivi.
Il primo è che, come insegnava il grande giurista olandese Röling (che fu anche giudice al Tribunale internazionale di Tokio), in guerra occorre distinguere tra "criminalità individuale" e "criminalità sistemica". La prima si ha quando un soldato commette atti illeciti per impulso personale o per "vantaggio" individuale: stupra una ragazza della popolazione nemica, ruba, uccide per mera crudeltà un civile ferito, ecc. La "criminalità sistemica" si ha quando vengono compiuti atti illeciti di violenza su larga scala, ordinati, istigati, sollecitati o tacitamente approvati dalle autorità: ad esempio, bombardamento sistematico di centri abitati (come fecero gli inglesi a Dresda verso la fine della Seconda guerra mondiale), attacchi contro militari nemici, che però causano altissime e sproporzionate perdite tra civili; tortura o gravi maltrattamenti di prigionieri (come ad Abu Ghraib); violenza sessuale su larga scala contro donne della popolazione nemica, con la tacita approvazione dei vertici militari (come avvenne dopo l´occupazione della Germania, quando le truppe sovietiche violentarono sistematicamente donne tedesche), ecc. Ora, nel caso di atti di "criminalità individuale", le autorità cui appartiene il colpevole intervengono subito a punirlo, perché quei crimini sono "gratuiti", non servono allo sforzo bellico e anzi discreditano le forze armate. Invece, quando vengono commessi atti di "criminalità sistemica", quelle autorità non intervengono, perché esse stesse sono implicate: se intervengono, lo fanno eccezionalmente e sotto la pressione dell´opinione pubblica, come avvenne in Vietnam, quando il massacro di civili di My Lai, scoperto dal giornalista statunitense Seymour Hersh, portò alla condanna del tenente Calley, il quale però fu subito graziato da Nixon.
I processi di cui parlavo all´inizio riguardano appunto atti di "criminalità individuale". Invece i crimini statunitensi "sistemici" contro prigionieri o contro civili (colpiti indiscriminatamente), vengono sottaciuti o negati, oppure (come nel caso di Abu Ghraib) portano solo alla punizione di quelle che vengono definite "poche mele marce". I vertici non vengono colpiti. Inoltre, chi ha scoperto quei crimini è ora messo alla gogna. E´ quel che capita a Joe Darby, il soldato statunitense che consegnò alle autorità le foto di Abu Ghraib, considerato ora in America un "traditore", e al Generale Antonio Taguba, che preparò per il Pentagono un rapporto su Abu Ghraib in cui mise coraggiosamente a nudo quel che si faceva in quel carcere, e si è così giocata la carriera.
Il secondo motivo per cui i recenti processi americani non inducono all´ottimismo è che le condanne, quando vengono inflitte, sono solo in apparenza assai severe. Basti dire che due dei soldati che hanno partecipato allo stupro e alla strage per cui è stato condannato Spielman, hanno avuto per questi orribili crimini una pena rispettivamente di 90 e 100 anni di carcere, ma potranno usufruire della libertà condizionata dopo soli 10 anni di prigione.

Secondo Toni Fontana dell' UNITA', per i soldati americani in Iraq vigerebbe addirittura un regime di impunità.
Derivante dal fatto che essi sono giudicati dalle corti militari americane e non dai tribunali locali.
Ma l'impunità non esiste affatto: i militari americani sono giudicati e anche condannati.
Operano in una situazione di guerra, sono bersaglio di un sanguinoso terrorismo che colpisce la popolazione civile e se ne fa scudo.
Nei processi e nei giudizi vi è certamente la volontà di tener conto di questi fattori.
Ma, di fatto, è insostenibile che vi sia immunità, ed'è chiara la volontà dell'America di scoraggiare gli abusi.
Ecco l'articolo (pagina 11):


Paul Bremer III°, il primo «proconsole» di Bush in Iraq, il diplomatico che guidò la Cpa, l’autorità provvisoria, che governò a Baghdad nella prima fase dopo l’occupazione, ha commesso tanti a tali errori che neppure gli americani amano citarlo quando parlano della guerra mesopotamica. Bremer, per fare un esempio, sciolse l’esercito iracheno ed ora, quattro anni dopo, il principale assillo degli americani in Iraq è quello di ricostruirlo. Un errore meno noto, ma non per questo meno importante, tra i tanti di Bremer, fu quello di firmare l’ordinanza N.17 del 2004, tutt’ora in vigore. Con questa legge Bremer stabilì l’immunità totale per i soldati della Coalizione, i civili integrati nelle forze di occupazione, i contractor cui gli americani hanno appaltato «un pezzo di guerra». Tutti costoro (compresi dunque i tre robot combattenti che da qualche mese operano in Iraq) non sono in alcun modo tenuti a rispettare le leggi locali e la giustizia irachena non li può incriminare. Questo è il «peccato originale» che ha ispirato i responsabili di tante e gravissime violazioni ed atti di violenza (tra i quali orribili stragi), tutti giudicati da corti marziali e tribunali americani che si sono dimostrati a dir poco indulgenti. Ciò fa dire ad Amnesty international che questa giustizia «non appare in linea con gli standard internazionali di imparzialità». Global Policy Forum, organizzazione non governativa di New York ha diffuso pochi giorni fa un Rapporto intitolato «War and Occupation in Iraq», ripreso in Italia da Osservatorio Iraq curato da Ornella Sangiovanni del Ponte per Baghdad, che appare uno degli studi più accurati e dettagliati sulla guerra. Vi si legge tra l’altro che pochi tra i militari che hanno commesso violenze sono stati condotti davanti ai giudici, molte sentenze sono state «leggere» e molti ufficiali superiori sono riusciti a sfuggire alle loro responsabilità. Global Policy Forum sostiene che sono almeno 600 i militari americani coinvolti negli episodi di violenza e smentisce dunque le argomentazioni di Bush, dell’ex ministro Rumsfeld e di alcuni generali che, ad ogni occasione, parlano di «episodi isolati». Di questo non si tratta. Anche il Washington Post ha «fatto i conti» e, in un bilancio pubblicato nel 2006 (che appare al momento il più aggiornato) fa notare che solo 12 dei 39 soldati americani accusati di omicidio in Iraq sono stati processati e condannati.
Basta ripercorre alcuni casi tra i tanti per trovare conferma del fatto che, mentre negli Stati Uniti venivano uccisi dal boia numerosi condannati a morte, la giustizia militare si è mostrata comprensiva verso i militari che si sono macchiati di orribili delitti in Iraq. I nove riservisti protagonisti dello scandalo delle torture nel famigerato carcere di Abu Ghraib se le sono cavata con 25 anni in tutto, dieci dei quali comminati al capo degli aguzzini, il caporale Graner. Lynndie England, accusata di maltrattamenti ed atti osceni, se l’è cavata con tre anni. Il sergente Jalal Davis è stato condannato a 6 mesi per aver usato i prigionieri come tappeti, saltando su di loro, schiacciando le loro mani. Il soldato Krol ha avuto 10 mesi: costringeva i detenuti a spogliarsi e strisciare per terra. E, soprattutto, nessun generale ha pagato per quanto è accaduto tra le mura del carcere.
La severità dei tribunali americani non si è vista neppure quando sono stati giudicati due dei cinque assassini responsabili della strage di Mahmoudiya (una famiglia sterminata, una ragazza stuprata ed uccisa). Il sergente Paul Cortez è stato condannano a 100 anni dai giudici militari di Fort Campbell nel Kentucky, ma la stampa spiega che, tra meno di 10 anni, potrà chiedere la libertà condizionata che certamente verrà concessa considerando altri casi simili. Il sergente Gary Pittman è stato condannato a 60 giorni di lavori forzati e degradato per aver sfondato il torace di un detenuto iracheno, morto due giorni dopo per i maltrattamenti. Il sottufficiale è stato però condannato per aver abbandonato il suo posto e compiuto abusi, ma non per omicidio.
I giudici militari non sono davvero severi come i loro colleghi dei tribunali che non esitano a pronunciare sentenze capitali per un solo omicidio. Il sergente Ray Girouard ad esempio era accusato di averne commessi tre. Secondo il pubblico ministero ordinò ai suoi soldati, durante un’operazione a Samarra, di liberare tre prigionieri iracheni che vennero poi falciati dalle raffiche mentre si allontanavano. Il sergente è stato condannato, ma per «omicidio colposo» e rimarrà in carcere pochi mesi. Uno dei suoi uomini se l’è cavata con 9 mesi di carcere dopo aver confessato, altri due sono stati condannati a 18 anni. E ancora si attende il responso del Pentagono sull’episodio più oscuro e tragico tra quelli che hanno coinvolto i militari Usa in Iraq: la strage di Haditha. Il 19 novembre 2005 un gruppo di marines, attaccato dai guerriglieri, reagì massacrando 24 civili disarmati, molti dei quali fatti scendere da auto di passaggio e pulmini. Tra le vittime 11 donne e bambini. Per molti mesi i vertici militari hanno tentato di nascondere l’accaduto, ma la testimonianza di una bambina, pubblicata il 27 maggio del 2006 dal britannico The Times, inchiodò i marines. «I soldati - raccontò la piccola Iman, di 10 anni - entrarono in casa sparando all’impazzata contro i miei familiari, tutti vennero uccisi. Io e mio fratello ci salvammo perché ci eravamo nascosti». Messo alle stette il Pentagono ordinò nel maggio del 2006 due inchieste che non si sono ancora concluse. Ed ancora in gran parte da accertare rimangono i fatti accaduti nella «Black room» di Camp Numa, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad. Qui operava, e presumibilmente opera, la Task Force 6-26, un’unità militare segreta dell’antiterrorismo Usa incaricata di scovare presunti terroristi. Il New York Times ha rivelato che molti sospetti sono stati torturati e che alcuni aguzzini, una volta scoperti, sono stati puniti con «misure amministrative». Questi episodi non sono nè casuali nè isolati, ma la tragica conseguenza di una guerra sbagliata e degli ordini impartiti ai generali dall’architetto dell’attacco contro Baghdad, l’ex segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld. Global Policy Forum spiega fin dal 2003 le forze della Coalizione hanno arrestato migliaia di iracheni. Nel gennaio 2004 i prigionieri della Coalizione erano appena 8500, nel marzo di quest’anno il loro numero ha raggiunto la cifra di 18mila in coincidenza con il nuovo «piano per la sicurezza». Le violenze avvengono nelle carceri segrete e inaccessibili. Gpf ricorda che i comando Usa hanno rifiutato l’accesso ai luoghi di detenzione a tutte le associazioni che ne hanno fatto richiesta ed anche alle organizzazioni dell’Onu.

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