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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - Il Manifesto Rassegna Stampa
02.08.2007 Incerta la pace con Abu Mazen ? Ricordiamo che quella con Hamas è impossibile
tre articoli che non dicono tutta la verità

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - Il Manifesto
Autore: Lorenzo Cremonesi - Carlo Jean - Zvi Shuldiner
Titolo: ««La Cisgiordania come Gaza» La minaccia dei fondamentalisti - Abu Mazen boomerang per Israele - Con Hamas non c'è pace, senza Hamas solo illusioni»
Gli articoli di Lorenzo Cremonesi sul CORRIERE della SERA, Carlo Jean sulla STAMPA e Zvi Shuldiner sul MANIFESTO del 2 agosto  avvalorano tutti la stessa conclusione: Israele non può arrivare a una pace stabile trattando con l'instabile potere di Abu Mazen.
Il reportage di Lorenzo Cremonesi dalla Cisgiordania avrebbe probabilmente dovuto includere voci discordanti, rispetto al coro di quanti sottolineano la debolezza di Fatah anche in questo territorio.
Ma è senz'altro significativo che sia i membri di Hamas sia quelli di Fatah interpellati attribuiscano alla presenza militare israeliana  nella West Bank il fatto che il corso degli eventi non abbia finora seguito anche lì  il copione di Gaza.
L'articolo di Carlo Jean contiene sorprendenti inesattezze (nel 1988 l'Olp non riconosceva il diritto all'esistenza di Israele e non fu certo Israele a "politicizzare" Hamas).
L'articolo di Shuldiner è come al solito carico di furori ideologici (i nazionalisti palestinesi di Abu Mazen sono
"una banda di Quisling") e sconcertanti  eufemismi (Hamas,s econdo lui è "una forza fondamentalista con elementi più che criticabili") e approda a conclusioni velleitarie e pericolose, sostenendo la necessità di un nuovo governo di unità nazionale palestinese.

Ma i rischi indicati da Cremonesi, Jean e Shuldiner sono reali. 
Solo che considerare questa parte di realtà,  ignorando il fatto, non meno vero, che Hamas non è disponibile a nessuna pace con Israele porta a formulare giudizi completamente errati.

Ricordando ciò che davvero è Hamas, Cremonesi,Jean e persino Shuldiner dovrebbero riconoscere che per  Israele, in realtà, le scelte si riducono a due:
sostenere  Abu Mazen per perseguire un'incerta prospettiva di pace, come sta facendo. O rinunciare per il momento alla trattativa.
Israele ha scelto la prima, con tutti i rischi che comporta. Qualcuno è disposto a dargliene atto ?

Ecco l'articolo di Cremonesi (pagina 13 del CORRIERE):

NABLUS — Se non fosse per le ragazze velate e il caldo secco che domina sulle colline della Cisgiordania d'estate, potrebbe sembrare una delle tante università europee assediate dalla polizia per reprimere le rivolte studentesche alla fine degli anni Sessanta. I cancelli di Al Najah, uno dei più frequentati atenei palestinesi (oltre 15.000 iscritti), sono sorvegliati dagli agenti delle squadre speciali in assetto antisommossa. Ogni studente deve mostrare la carta d'identità e la tessera di iscrizione. Gli ordini vengono ribaditi a lettere cubitali sugli avvisi appesi ai muri: vietati gli assembramenti, banditi i simboli politici, negati i volantinaggi, l'uso dei megafoni e qualsiasi tipo di attività che non sia strettamente accademica. «Anche i giornalisti non possono entrare. Meglio evitare le occasioni di scontro», spiega frettoloso Ala Yussef, il portavoce dell'ateneo che con fare evidentemente imbarazzato allontana i reporter stranieri (quelli locali non provano più neppure ad entrare). I motivi sono chiari per tutti. «Al Najah è tradizionalmente uno dei centri politici più attivi non solo a Nablus, ma in tutta la Cisgiordania. E oggi lavoriamo per evitare la ripresa della guerra civile », aggiunge chiedendo alle sentinelle di tenerci fuori dai cancelli.
Proprio in questo cortile assolato il 24 luglio era scoccata la scintilla potenzialmente in grado di precipitare la Cisgiordania nello scontro fratricida simile a quello che nella seconda settimana di giugno ha visto la vittoria manu militari di Hamas contro Fatah nella Striscia di Gaza. «Le autorità universitarie avevano permesso ad Hamas di effettuare un volantinaggio per denunciare l'arresto da parte israeliana dei suoi militanti in Cisgiordania. Ma ad un certo punto sono giunti gli attivisti della Shabibah (il gruppo giovanile del Fatah, ndr), il tafferuglio si è trasformato in battaglia, con spari e vandalismi. Trenta i feriti, tra loro un morto, decine gli arrestati», spiegano gli studenti. Guerra civile? La minaccia pesa come un macigno. E a Nablus si respira la tensione del conflitto irrisolto, la confusione degli slogan perduti, il sentimento di aver smarrito la strada, l'impressione che anni e anni di lotte contro l'occupazione israeliana siano improvvisamente vanificati dallo scontro frontale tra Fatah e Hamas, tra due visioni opposte dello Stato, della società, del rapporto con il mondo esterno, ma anche con la famiglia, la religione e Dio.
Per la strada i cinque o sei studenti con cui riusciamo a parlare sostengono apertamente che «i sentimenti della maggioranza della popolazione non sono cambiati. Hanno votato in massa per Hamas alle elezioni del 25 gennaio 2006 e lo rifarebbero oggi, se fosse data loro l'opportunità». Tanti lamentano la mancanza di sicurezza, i furti, l'arroganza dei funzionari dell'Olp. Il dottor Mohammad Amir Al Masri, proprietario del Nablus Speciality Hospital (la maggior clinica privata della città), accusa senza mezze parole «i dirigenti e i militanti del Fatah di farsi curare dai miei medici senza poi pagare il conto». Uno tra gli infiniti esempi degli abusi. E una delle accuse ricorrenti contro Abu Mazen è che non riesce neppure a controllare gli elementi più violenti tra i gruppuscoli armati del Fatah.
Una prova della situazione di caos arriva per noi verso le 14.30 in pieno centro città. Tre giovani con il volto coperto sparano a raffica  con i loro M16 rivolti al cielo. Improvvisamente è il fuggi fuggi, i negozianti chiudono le saracinesche, la polizia resta a guardare. «Sono due fazioni che si fanno la guerra per il controllo del campo profughi di Askar. Oggi si sono sparati contro per una questione di parcheggi di auto, ma capita quasi ogni giorno», spiegano alla sede locale dello Al Quds, il maggior quotidiano della Cisgiordania.
Anche episodi come questi aiutano a capire come mai ben pochi credano ai sondaggi diffusi in queste ore dal Centro studi della stessa Al Najah, per cui il 68 per cento dei palestinesi vorrebbe elezioni anticipate e tra loro solo il 15 per cento oggi sarebbe disposto a scegliere Hamas. «Tutta propaganda. I portavoce dell'Olp fornivano gli stessi dati alla vigilia del voto l'anno scorso. Poi vennero smentiti dai fatti. La verità è che il boicottaggio economico da parte di Israele, della comunità internazionale, e gli sgambetti voluti dal presidente Abu Mazen assieme ai vecchi dinosauri dell'Olp hanno impedito ad Hamas più che evidenti. La guerra civile è inevitabile anche qui. Gaza è diventata un'entità assolutamente separata. Come se fosse un Paese diverso. Ma presto Hamas prenderà il controllo anche della Cisgiordania», dicono.
Un timore che i militanti locali di Hamas cercano per il momento di sfatare. «Non siamo pronti. Sarebbe una follia avviare lo scontro armato come a Gaza per il semplice fatto che la Cisgiordania resta sotto lo stretto controllo militare israeliano. Hanno già arrestato migliaia dei nostri militanti, spesso in collaborazione con la polizia di Abu Mazen. Qui a Nablus hanno sbattuto in cella lo stesso sindaco, Adli Yaish, che pure era solo un indipendente con simpatie per il blocco islamico. Con lui hanno preso una cinquantina dei nostri compagni più noti. Ben 42 deputati di Hamas in Cisgiordania, sui 132 membri del parlamento palestinese, sono in carcere. Per noi scegliere la via dello scontro aperto sarebbe suicida», commenta Nasser Karraz, 22 anni, iscritto al quarto anno di ingegneria, e soprattutto rappresentante di Hamas tra gli studenti. Tanta cautela è condivisa anche da Jamal Kanadilo. Un nome noto tra i vicoli stretti della casbah di Nablus. Oggi ha 36 anni, nel 1988, ai tempi della prima Intifada, si faceva le ossa tirando sassate alle pattuglie israeliane tra i ranghi giovanili del Fatah. Ma la sua analisi è pessimista, quasi una confessione di sconfitta: «È ovvio che io sia perseguitato dalle immagini delle recenti violenze a Gaza. Sono fantasmi che mi accompagnano ogni notte. Ma dobbiamo essere onesti. Il Fatah è paralizzato da una lacerante crisi interna. Abbiamo perso i nostri leader. Arafat non è stato capace di creare una dirigenza in grado di succedergli. La nostra intelligence valuta che Hamas nella zona di Nablus possieda non più di 200 fucili. Noi ne abbiamo almeno 1.500. Ma i nostri uomini non pensano che ai salari, nessuno è disposto a morire per Abu Mazen. I combattenti di Hamas fanno invece del martirio una religione, sono pronti a dare tutto. Se non ci fosse Israele avremmo già perso anche in Cisgiordania».

Quello di Jean (pagina 35 della STAMPA):


Israele sta giocando col fuoco. Il sostegno anche militare che dà al presidente Abu Mazen potrebbe avere un effetto boomerang. Potrebbe indebolirlo e rafforzare Hamas, consentendogli di prendere il controllo anche della Cisgiordania. Sarebbe un disastro non solo per Israele, ma anche per la Giordania e l’Egitto. La situazione non è facile. Forse non vi è via d’uscita che una nuova occupazione di Gaza da parte di Israele, per eliminare Hamas. Ammesso che riesca, destabilizzerebbe l’intero Medio Oriente e delegittimerebbe i moderati di Al-Fatah. Sembra che Israele stia ammassando truppe verso Gaza. Il ricordo della resistenza degli Hezbollah dovrebbe però suggerire molta cautela. Né Giordania né Egitto sono in condizioni di contribuire a risolvere il caos palestinese. Sarebbe logico che intervenissero a restaurare l’ordine rispettivamente in Cisgiordania e a Gaza, per poi unificarle. Se lo facessero rischierebbero però la polarizzazione delle loro opposizioni radicali e delle diaspore palestinesi. Li blocca anche la crescita della potenza dell’Iran, cui Hamas è legato.
I territori palestinesi sono ormai divisi in due: Gaza, immenso campo con circa un milione e mezzo di profughi in meno di 500 kmq; e la Cisgiordania, con due milioni e mezzo di palestinesi e 250 mila coloni israeliani. A Gaza Hamas è al potere, dopo aver eliminato le forze di sicurezza di Al-Fatah. All’incompetenza dei comandanti, si è aggiunto il morale molto basso. Quasi tutti i soldati giovani di Al-Fatah si sono subito arresi.
Hamas è un partito religioso, con componenti umanitarie, paramilitari e terroristiche. È un’emanazione dei Fratelli musulmani. Pur essendo sunnita, riceve il sostegno di Iran e Hezbollah. Ha operato in Palestina sin dagli Anni 60 come organizzazione sociale e religiosa. Fu sostenuto da Israele, soprattutto dal presidente Begin, che lo politicizzò per indebolire Arafat, leader dell’Olp, che aveva fondato nel 1959. Israele ha così allevato un serpente ai suoi confini. Nel 1988 Hamas iniziò la resistenza armata contro Israele, il cui diritto all’esistenza era stato riconosciuto dall’Olp. Dichiarato organizzazione terroristica anche dall’Ue nel 2003, divenne la componente più radicale della resistenza anti-israeliana. Appoggiato da Siria, Iran e Hezbollah libanese, viene finanziato anche dai petro-dollari del Golfo e dalla diaspora palestinese. Ha sempre rifiutato di riconoscere il diritto all’esistenza di Israele. I suoi principi religiosi gli vietano di accettare che un territorio islamico rimanga sotto un’autorità straniera. Hamas gode di larga popolarità per le attività sociali e di prestigio per la ridotta corruzione e per l’efficienza negli attentati, effettuati spesso da donne.
Quando Hamas vinse le elezioni legislative del gennaio 2006 - conquistando 76 dei 132 seggi - e fu nominato premier un suo esponente, Israele, Usa e Ue subordinarono i loro aiuti alla cessazione degli attentati, al riconoscimento del diritto d’Israele all’esistenza e alla ripresa del processo di pace di Oslo. Però sobillarono Abu Mazen a sciogliere il governo e a nominarne prima uno di unità nazionale e poi uno tecnico di moderati indipendenti. L’operazione si rivelò un fallimento. Hamas conquistò Gaza. Israele e Usa si misero a sostenere anche militarmente Abu Mazen e a riprendere il versamento di fondi. Hamas ne aveva minor bisogno, poiché li riceveva da altre fonti e perché meno corrotto di Al-Fatah.
Per tentare di rafforzare Abu Mazen Israele ha deciso di liberare 250 prigionieri delle formazioni di Al-Fatah, sperando che diano una mano per combattere Hamas e riconquistare Gaza. La Palestina non ha spazio sufficiente per digerire due Stati palestinesi, oltre a Israele. Sarebbe il caos nel Vicino Oriente. Verosimilmente si estenderebbe alle diaspore palestinesi e ai Paesi vicini. Sta già avvenendo nel Libano settentrionale. Non si sa come uscirne. Il sostegno ad Abu Mazen manterrà la divisione dei palestinesi. Paradossalmente - ma non tanto - il sostegno dato ai moderati, anziché sbloccare il processo di pace, lo arresterà per anni. Sperando, beninteso, che il Medio Oriente non si infiammi nuovamente.

Quello di Shuldiner (pagina 2 del MANIFESTO):

Con l'arrivo di Tony Blair in Medio Oriente cresce nelle ultime settimane l'immagine di una possibile iniziativa di pace che possa cambiare la situazione esplosiva della regione. Con una copertura enorme dei mezzi di comunicazione internazionali e una gran quantità di incontri diplomatici, si profila a poco a poco un processo che nel fondo potrebbe essere il prologo non della pace ma di un aggravamento delle malattie che affliggono la regione. Il presidente americano Bush augura al suo ex alleato in Iraq negoziati positivi, però il mandato di Blair non è più ampio di quello dei suoi predecessori. Gli sforzi «di pace» americani si intensificano: adesso approvvigioneranno l' Arabia Saudita con un arsenale di armi da 20 mila milioni di dollari. Non preoccupatevi: per ristabilire l'equilibrio daranno all'Egitto 13 mila milioni nei prossimi 10 anni e Israele affronterà la minaccia con un pacchetto da 30 mila milioni nei prossimi dieci anni. Questo forse non consoliderà la pace però consoliderà un po' di più gli interessi dell'industria di armamenti americana. I «pacifisti» Bush annuncia la nuova-vecchia iniziativa. Blair arriva tutto ottimista, Condoleezza atterra in queste ore nella regione. Il premier Olmert ripete il suo compromesso con la pace e il presidente Abu Mazen cerca di apparire come l'architetto dell'indipendenza palestinese. I ministri degli esteri di Giordania, Egitto e altri vanno di capitale in capitale, il ministro degli esteri francese Kouchner arriva in Libano e numerosi inviati vanno e vengono. Analizzeremo brevemente alcuni di loro. Però è necessario premettere che per arrivare alla pace con i palestinesi non basterà la retorica abituale, ma che occorre smitizzare la propaganda assurda che si basa sulla presunta «fortificazione» di Abu Mazen. Bush e Blair hanno incendiato la regione con una guerra sanguinaria in Iraq che è costata decine di migliaia di vite. Quando il numero di vittime americane cresce e il malcontento in casa è enorme, Bush cerca di limitare il disastro con armi e dubbie iniziative che non porteranno né alla chiarezza né alla praticità di quello che gli hanno raccomandato l'ex segretario di stato Baker e Lee Hamilton. Blair si vuole ripulire dalla «macchia» irachena che lo ha costretto a lasciare Downing Street con una popolarità rovinata. In Medio Oriente è applaudito, è simpatico, ha saputo trattare in Irlanda e arriva con molto credito, anche se i suoi reali poteri sono messi in dubbio. Poche settimane fa, in una rivelatrice intervista su Haaretz, James Wolfson, predecessore di Blair, ha insinuato che il fallimento della sua missione era dovuto in parte ai freni posti al suo mandato dagli aiutanti di Bush e di Condoleezza Rice, i quali avevano limitato i suoi poteri a questioni pratiche relative al buon funzionamento delle istituzioni statali palestinesi. Tutto molto lontano dalle vere questioni legate alla pace. Il primo ministro Olmert continua nelle sue funzioni, però sa che la sua popolarità è più bassa che mai. Non ha altra alternativa che cercare nuove vie per riconquistare i cuori o le menti degli israeliani. La situazione economica è migliorata e non grazie a lui. Oggi potrebbe aiutarlo un'iniziativa di pace che cambiasse radicalmente l'atmosfera del paese. Con Ahmadinejad in Iran, Hezbollah nel nord, i missili nella vicina zona di Gaza, le analisi sul pericolo di una guerra imminente e Barak al timone del ministero della difesa e dell'esercito, l'unica via d'uscita è l'iniziativa di pace che lo aiuterebbe a recuperare il consenso perduto dopo la fallimentare guerra in Libano e dopo vari casi giudiziari in cui è messa in dubbio la sua onestà. Barak, inoltre, consolida le sue posizioni chiuso in un eloquente silenzio, insinuando nei fatti la correttezza della sua teoria, secondo la quale la storia ha dimostrato che non c'è nessuno con cui parlare. Barak, infatti, quando era il primo ministro, fu il primo a sostenere la teoria secondo la quale non esiste un reale partner palestinese per la pace, ben prima che Sharon la vendesse con grande successo all'Occidente . I piani di Olmert si rivelano in «atti» non importanti come la liberazione di 250 palestinesi e la concessione di più armi per le forze leali a Abu Mazen. I piani di pace suonano molto astratti e confluiscono nella necessità di fortificare Abu Mazen nella lotta contro il terrore. Condizione: non parlare con Hamas. E in questo il buon Olmert concorda con una buona parte degli attori internazionali che accettano la linea attuale. La maggioranza degli attori coinvolti nell'attuale processo di pace vuole Hamas fuori dai negoziati. D'Alema è stata una modesta eccezione alcune settimane fa e negli ultimi giorni il ministro degli esteri Lavrov ha reso noto che si sta sforzando di portare i palestinesi in una discussione unitaria. Giordani, egiziani e altri rappresentanti arabi, anche se temono allo stesso modo il fondamentalismo islamico e non gradiscono il trionfo di Hamas a Gaza, sembrano comprendere meglio dell'Occidente che non capire Hamas è un errore. E' chiaro che alcuni rappresentanti arabi velatamente già parlano con Hamas.  Poco dopo che Hamas ha distrutto la base della banda di Dahlan a Gaza e le forze di Fatah si sono rivelate come una malattia infettiva, Fatah e Abu Mazen hanno iniziato la controffensiva. Il presidente palestinese ha formato un governo di emergenza - dopo aver dichiarato sciolto il governo di unità di Ismail Hanyia - e sembrava che le forze di Fatah si stessero preparando a uno scontro sanguinoso in Cisgiordania. Le voci palestinesi che hanno fatto appello alla moderazione sono prevalse mettendo a tacere la retorica forte di Abu Mazen e dei suoi alleati israeliani e internazionali. Anche se le forze palestinesi si sono riavvicinate, la debolezza di Fatah, corroso dalla corruzione di molti suoi dirigenti, si è fatta patente. Bisogna ricordarlo: la presa di Gaza da parte di Hamas è stata crudele e sanguinaria. Alcuni assassinii e saccheggi sono stati visti come esagerati anche dagli occhi della gente di Hamas. Però comunque, il golpe è stato organizzato proprio nel momento in cui il governo di unità nazionale stava cominciando a godere di una qualche legittimità che avrebbe consentito alla comunità internazionale di negoziare con Hamas, anche se in forma indiretta. Adesso Gaza gode di una relativa tranquillità, però rimane completamente isolata e la politica americana, israeliana, occidentale e di una parte di Fatah sta strangolando la popolazione dall'esterno. Anche se Abu Mazen gode del suo nuovo status di «uomo forte», questo non può renderci ciechi di fronte a Olmert e Bush. Non può toglierci quello che non pochi palestinesi seri attendono: l'unità palestinese. Anche quando si oppongono a Hamas e considerano criminale ciò che è successo a Gaza. Perché sanno allo stesso tempo che non possono giocare la carta israeliana e che devono cercare l'unità, il dialogo, i negoziati interni. L'unità palestinese Non si tratta di un'unità semplice o livellatrice di differenze, si tratta semplicemente di intendere che nessun passo serio dei palestinesi potrà disconoscere una questione di legittimità interna che non passi attraverso la ripresa del dialogo interno. Pochi giorni Haled Mashal ha dichiarato al ministro russo Lavrov la sua disponibilità a negoziare con Abu Mazen e a riconoscere la sua autorità. Mashal, così come altri leader di Hamas - anche quando rappresentano la linea dura ma non estrema - sa che l'isolamento di Gaza non porta a nessun reale successo palestinese e capisce che l'unica via d'uscita seria è l'unità. Le intenzioni israeliane e americane di impedire il dialogo sono il seme di un vero disastro. Chi crede nella pace fittizia con una banda di Quisling, non crede in una soluzione seria. L'unità palestinese è l'unica base seria per dare forza al movimento nazionale palestinese e a coloro che cercano una pace reale fondata sul riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Una formula puramente territoriale che arrivi a questa o a quella mappa, basandosi sulla divisione della Palestina e sull'isolamento di Hamas, genererà solo un'altra guerra e più spargimento di sangue. Hamas è una forza fondamentalista con elementi più che criticabili, però è una forza autentica, nella quale si vedono rappresentati molti palestinesi stanchi della corruzione e dell'inefficacia di Fatah, e in quanto tale Hamas non può essere lasciato fuori da nessun reale processo di negoziati. Quando gli americani, gli israeliani o il «quartetto» pretendono di seguire il processo di pace senza cercare l'unità palestinese, senza includere Hamas, per cecità e stupidità o per ragioni coospirative peggiori, stanno elaborando la ricetta per perpetuare il conflitto e non per risolverlo. Per arrivare a un vero processo di pace occorre abbandonare alcune delle consegne che sono diventate tanto popolari in Occidente negli ultimi anni. Fare il contrario creerà solo illusioni irrealistiche dalle quali ci sveglieremo solo con più fiumi di sangue.

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