Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Col terrorismo non c'entrano le moschee, e non c'entra Al Qaeda per Tahar Ben Jelloun, Paolo Ferrero e Giuseppe D'Avanzo dobbiamo stare tranquilli e lasciarci ammazzare
Testata:La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica Autore: Mario Baudino - Gianna Fregonara - Giuseppe D'Avanzo Titolo: «Ma è Internet il vero pericolo - «Serve la legge sulla libertà di culto Sbagliato chiudere i centri religiosi» - L´abbaglio Al Qaeda e l´incubo terroristi»
Tahar Ben Jelloun, che proviene da un paese, il Marocco, dove un imam non può prnunciare un sermone che non sia stato preventivamente approvato dalle autorità, ci assicura che nelle moschee europee non avviene nulla di pericoloso. Ls commistione di "Islam, politica o addirittura terrorismo" è poco frequente, e non gradita agli immigrati.
In realtà, se è vero che non tutte le moschee sono luoghi di predicazione dell'odio, è falso che lo siano poche eccezioni. Le moschee gestite da gruppi fondamentalisti, che danno dell'islam un'interpretazione politica di tipo totalitario sono tutte luoghi di predicazione dell'odio e della violenza
Ecco il testo dell'intervista allo scrittore dalla STAMPA del 23 luglio 2007 (pagina 5):
Quello che si è scoperto a Perugia è molto grave, ma non demonizziamo le moschee. Non le si può certo considerare come centri di terrorismo islamico». Tahar Ben Jelloun, lo scrittore marocchino che ha ottenuto il grande successo in Francia con libri come Creatura di sabbia o Giorno di silenzio a Tangeri, che ha vinto quasi all’esordio della sua carriera di autore il premio Goncourt e, scrivendo in francese, svolge di necessità, da anni, il ruolo naturale di ponte tra le due culture, invita alla prudenza. A non generalizzare. A Casablanca, dove ora è in vacanza, gli sono arrivati gli echi della grave vicenda. Se la fa spiegare meglio. Le sue sono le reazioni di un intellettuale laico, qual è. «E’ incredibile, inammissibbile che un imam sfrutti la moschea per fini politici, e in questo caso terroristici. E’ terribile, sì, ma non è poi così frequente. Soprattutto perché gli immigrati non gradiscono affatto questa commistione di Islam, politica o addirittura terrorismo». Nel suo recente romanzo pubblicato per Bompiani, Partire, racconta la storia di Azel, un ventenne di Tangeri, che ha davanti a sé solo una possibilità: partire, appunto. Diventa un clandestino, deve assoggettarsi a ogni genere di umiliazioni, fino a perdere la propria dignità e a tradire. Gli restano i sogni, e l’inseguimento di una felicità che è sempre altrove. Ben Jelloun conosce bene il potenziale di rabbia di un immigrato. Forse proprio per questo insiste sul fatto che «l’Imam non deve fare propaganda», anche dal punto di vista della sua responsabilità verso i fedeli. Ma A occhi bassi (Einaudi) ha raccontato la storia di una pastorella berbera che si trova catapultata in Francia, dove a contatto con il nuovo mondo si trasforma in una donna moderna, cosmopolita, inserita nella cultura occidentale. Per lo scrittore questo è non solo auspicabile, ma possibile. Non c’è nulla nell’Islam che lo impedisca, di per sé. Siamo però, verrebbe da replicare, nel campo dei principi. Nella pratica ci sono moschee come quella di Perugia, Imam che predicano la violenza, gruppi che si organizzano. «Nella pratica, le rispondo, occorre sottolineare che il pericolo non sono le moschee. Le riunioni terroristiche avvengono ormai in altri luoghi, ben individuati almeno nella loro tipologia, come i piccoli caffé, le case private, e naturalmente lo spazio virtuale di Internet. In fondo, la moschea è un luogo facilmente sorvegliabile». Però i casi di religiosi che si pongono come «cattivi maestri», in modo esplicito o mandando messaggi molto ambigui ai fedeli, esistono. Come reagire? «L’Islam in Europa deve cercare la laicità, altro che perdersi in questi vicoli ciechi. C’è una piccola minoranza che ha posizioni inconciliabili con la nostra società». Quindi lei esclude che vi sia un problema di clero islamico? «Lo escludo». In un piccolo saggio di qualche anno fa, Il razzismo spiegato a mia figlia (Bompiani), ha fatto un appassionato elogio della tolleranza. E’ la sua bandiera, del resto. Gli è stato perdino conferito, a questo proposito, un premio delle Nazioni Unite, il «Global Tolerance Award». Episodi come quello di Perugia rischiano però di minare alle radici questo valore fondamentale per la nostra convivenza civile. «Infatti sono gravissimi ma, ripeto, sporadici. Se in Occidente il problema fossero le moschee, risolverlo sarebbe relativamente facile».
La cecità predicata da Ben Jelloun trova purtroppo, in Italia, entusistici adepti nel mondo politico. Nè è un esempio il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero. intervistato dal CORRIERE della SERA (pagina 5)proponeuno "scambio" con l'islam "diritto di culto in cambio del riconoscimento dello Stato italiano e del suo ordinamento costituzionale". Il diritto di culto è come noto già garantito in Italia. La proposta di Ferrero può solo rifersi alle organizzazioni fondamentaliste dell'islam politico, che secondo lui vanno legittimate in cambio del "riconoscimento dello Stato italiano". Una teorizzazione del suicidio dello Stato confermata da quest'altra afefrmazione: "le forme specifiche di controllo, che sono necessarie una volta che il culto sia riconosciuto, le deciderei con le comunità, altrimenti si tratterebbe solo di un'ingerenza dello Stato". Riassumendo: secondo Ferrero lo Stato deve riconoscere i fondamentalisti islamici per essere riconosciuto da loro, e poi deve accordarsi con loro su come sorvegliarli...
Ecco il testo:
ROMA — Prima la legge sulla libertà religiosa e subito intese con i Paesi di provenienza dei musulmani, «perché la strada contro il terrorismo estremista è quella della trasparenza, non della separatezza». Così Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale in quota Rifondazione, che a proposito delle indagini di Ponte Felcino ringrazia di cuore «l'intelligence e chi è intervenuto per fermare in extremis l'attività di quell'imam che faceva il piccolo chimico in moschea». Trasparenza vuol dire una scuola per gli imam o un registro per censirli? «Io credo che sia necessaria al più presto la legge sulla libertà di culto perché può aprire la strada a intese per regolare i rapporti anche con l'Islam proponendo uno scambio: diritto di culto in cambio del riconoscimento dello Stato italiano e del suo ordinamento costituzionale, della trasparenza nel meccanismo di finanziamento dei luoghi di culto e della formazione di chi predica». Insomma forme di controllo come già avviene in Francia? «Più le moschee sono aperte e meglio è. Le forme specifiche di controllo, che sono necessarie una volta che il culto sia riconosciuto, le deciderei con le comunità, altrimenti si tratterebbe solo di un'ingerenza dello Stato. Ma l'importante è coinvolgere, responsabilizzare le chiese, costruire una relazione tra queste e lo Stato. L'alternativa è far finta che gli immigrati non si debbano vedere, che chi è islamico venga ghettizzato e lasciato al suo destino, al brodo di coltura del terrorismo». Il problema del rapporto con l'Islam non è soltanto quello delle frange terroriste, ci sono anche distanze culturali, a partire dal ruolo della donna. «Se parliamo del velo, è un fatto di costume, nel quale uno Stato laico non deve mettere il becco. Per dirla brutalmente, mia nonna aveva il velo come tante contadine siciliane cinquant'anni fa e le loro nipoti girano in minigonna ». C'è stata una rivoluzione culturale in mezzo. «I costumi si modificano se l'identità delle persone non viene impiccata a una forma specifica di costume. La cosa peggiore sarebbe dire a una ragazza di vent'anni musulmana di scegliere tra velo e fedeltà allo Stato italiano. Dobbiamo occuparci di comportamenti che producono guai, dei piccoli chimici che fabbricano bombe nel retro delle moschee e devono essere messi in galera e possibilmente tenuti dentro. Chi mette il velo perché si sente più a suo agio, va semplicemente rispettato ». La legge sulla libertà religiosa è ferma in Parlamento. «Per gli immigrati in un anno e mezzo di governo non è cambiato nulla, purtroppo la destra in Parlamento fa un'opposizione ai limiti dell'ostruzionismo. E dire che su questo tema persino il testo presentato nella scorsa legislatura da Berlusconi, prima che la Lega lo rendesse peggio delle leggi del '29, era sostanzialmente condivisibile...».
Sulla REPUBBLICA , a pagina 1, Giuseppe D'Avanzo ci assicura invece che la cellula terrorista di Perugia non c'entrava nulla con Al Qaeda. Un'affermazione che contrasta con i fatti (vedi qui l'articolo di Guido Olimpio) Come è avvenuto in Inghilterra, dopo le bombe alla metropolitana di Londra il 7 luglio del 2005, l´arresto degli "apprendisti del terrore" a Perugia dovrebbe mettere in discussione molte certezze e pregiudizi, azzerare molta "propaganda". Dovrebbe soprattutto lasciar cadere la convinzione che tutto quel che si muove nell´orbita del terrore islamico abbia rapporti strutturali con gli ideologi e i gruppi jihadisti o addirittura con il "nocciolo duro" di Al Qaeda. Al contrario, c´è sulla scena italiana chi – in buona o cattiva fede; per un eccesso di semplificazione o per mediocre opportunismo – cede alla tentazione di sbandierare ancora il brand "Al Qaeda" per raccontare (e decifrare) l´attività di Korchi El Moustapha, l´imam arrestato. E poco vale se chi investiga esclude l´evidenza di un rapporto con l´organizzazione del terrore globale. Gettare ancora una volta e spensieratamente sul tavolo Al Qaeda è un errore. È, come è stato detto spesso in questi anni, una sgrammaticatura culturale e politica, piegata all´idea di Guerra al Terrore progettata da Washington alla fine del 2001. Un´idea figlia della Guerra Fredda che reinterpreta Osama Bin Laden come Lenin e Al Qaeda come una riedizione dei gruppi terroristici degli Anni Settanta e Ottanta, sostenuti dal Kgb. Questa visione del mondo dominata dal pensiero strategico del secondo Novecento, sotto la spinta dell´influente radicalismo neoconservatore, ha già provocato molti danni. Ha trasformato la guerra al terrorismo in «Quarta Guerra Mondiale». Ha convertito il violento scontro con il moderno Islam radicale in una «guerra ideologica quanto la Guerra Fredda». Ha spinto il lavoro di prevenzione e contrasto, più che verso la caccia dei terroristi, alla ricerca dei link dello jihadismo con i rogue States, gli «Stati Canaglia». Il paradigma è stato la ragione di un catastrofico insuccesso. Tempo, risorse e intelligenze sono state impiegate per tagliare i presunti legacci che stringono Al Qaeda all´Iraq, all´Iran, alla Siria e non a "penetrare" le comunità della diaspora islamica in Occidente dove oggi si nasconde la più angosciosa delle minacce. Evocare, ancora oggi, Bin Laden e Al Qaeda è un errore ancora più tragico del velenoso abbaglio che ha consigliato, appena qualche tempo fa, all´intelligence governata dal centro-destra di manipolare l´opinione pubblica con una «strategia della paura» che annunciava attentati nei metrò, avvelenamenti degli acquedotti, scuole di addestramento e «cellule» di Al Qaeda in Italia. Al Qaeda in Italia non ha mai avuto né una presenza militare né una base logistica. Non è una buona notizia. È una cattivissima notizia. È la peggiore delle notizie possibili perché ci presenta un nemico "invisibile" anche se vive dietro la porta accanto. Quel desiderio di jihad che ha attratto decine di migliaia di giovani nei campi di addestramento afgani e sui fronti bosniaci e ceceni negli ultimi venti anni - ci avvertono le cronache di Perugia - è diventato oggi accettabile - pure da noi - per i giovani della diaspora islamica anche se non hanno alcuna connessione palese con i gruppi tradizionali. Quanti sono? Decine? Centinaia? L´inchiesta di Perugia è la prova che il nuovo terrorismo transnazionale è dentro la comunità islamica ospite in Italia e la sua nuova dimensione di riferimento non è un polveroso e desertico spiazzo in Oriente, ma la città dove l´anonimato, la privacy, le attività di copertura e magari il passaporto europeo, la scuola, gli amici, un accettabile integrazione rendono senza rischi le comunicazioni, i movimenti, il reclutamento, la preparazioni di attentati a costo contenuto. Già visto in azione in Inghilterra, è un nuovo terrorismo così «nuovo» da non avere precedenti legami né con il terrorismo né con il radicalismo né con l´antica e moderna geografia qaedista (Afghanistan, Sudan, Pakistan). Non ha accesso alle risorse finanziarie o distruttive della vecchia Al Qaeda e non c´è bisogno di agitare quel marchio per dover temere il peggio. Contrariamente a quanto per vocazione ideologica vanno dicendo i Calderoli di casa nostra, non si muove nella moschea, nell´istituto di cultura islamica, nella madrassa, dove magari alligna anche un radicalismo ma "alla luce del sole". E´ attivo in "circoli" meno rumorosi e appariscenti, più defilati, pochissimo frequentati. Vi si raccolgono potenziali «operatori free-lance» che semplicemente condividono l´agenda di Al Qaeda e fantasticano o progettano attentati «nello stile di Al Qaeda», «come lo farebbe Al Qaeda». In Internet trovano tutto quel che occorre (le informazioni, le istruzioni, i luoghi, la dottrina). Si industriano alla conversione in armi di materie comuni, semi di ricino, carburante, fertilizzanti, polvere da cava o, come a Perugia, sostanze chimiche ad alta tossicità (cloralio idrato, idrazina solfato, potassio fosfato monobasico, magnesio solfato, solfato ammonio, acido ossalico), dalla cui combinazione è possibile, a quanto pare, realizzare «bombe sporche» miscelandole con altri elementi di facile reperibilità. Questo nuovo terrorismo pulviscolare è lo scenario che da tempo gli analisti definiscono «l´incubo». Presuppone che la situazione della nostra sicurezza è peggiorata dal tempo in cui Bin Laden lanciava la sua sfida all´Occidente. Lascia pensare, dopo Perugia, che la visione del mondo jihadista, la degradata ideologia radicale avvelenano la diaspora anche da di noi. Ci dice che, nelle aree urbane italiane, si radicalizzano individui che mai si erano mostrati interessati alla "jihad globale" creando, anche tra noi, quel «nuovo» terrorismo. Più tragicamente pericoloso perché mimetizzato dietro storie ordinarie di immigrati ordinari, anonimo e autonomo da ogni organizzazione e comando superiore. Sono queste le coordinate dell´incubo con cui dovremo fare, da oggi, i conti. Conviene, quindi, imparare a conoscerlo per sconfiggerlo. Attardarsi e confondersi le idee con la "propaganda", con Al Qaeda, con «le cellule» e «le scuole di Al Qaeda» vuol dire ancora una volta ideologizzare la Guerra al Terrore che ha bisogno, al contrario, di realismo, concretezza e politiche pubbliche per essere vinta.
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