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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - L'Unità - Il Mattino Rassegna Stampa
20.07.2007 Disinformano per difendere l'apertura di D'Alema ad Hamas
Alessandro Oppes, Umberto De Giovannangeli e Vittorio Dell'Uva

Testata:La Repubblica - L'Unità - Il Mattino
Autore: Alessandro Oppes - Umberto De Giovannangeli - Vittorio Dell'Uva
Titolo: «Blair sulla Palestina: creiamo due Stati - «Parliamo con Hamas per fermare Al Qaeda» - La diplomazia da usare con Hamas»
Il no di Usa e Ue al dialogo con Hamas viene ridotto, nell'articolo di Alessandro Oppes pubblicato da La REPUBBLICA del 20 luglio 2007 (pagina 22 ),  a una forma di scetticismo pessimista di Condoleezza Rice.

Ecco il testo, che disinforma gravemente, occultando il fatto che la posizione del governo italiano sul gruppo terroristico islamista è completamente isolata in Europa e in Occidente:


LISBONA Andare, ascoltare, riflettere. Tony Blair si presenta così al suo esordio come inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente. Riuniti in Portogallo, paese che ospita la presidenza di turno dell´Unione europea, i rappresentati degli Stati Uniti, Onu, Ue e Russia hanno garantito il loro sostegno all´indebolito presidente palestinese Abu Mazen confermando, come previsto, il pieno appoggio alla proposta avanzata la scorsa settimana dal presidente americano George Bush di rilanciare in autunno i negoziati per la creazione di uno Stato palestinese attraverso una conferenza che si svolgerà, si è appreso proprio ieri, a New York, in coincidenza con la sessione annuale dell´assemblea generale delle Nazioni Unite.
Nel corso della riunione nella quale, oltre a Blair, hanno partecipato il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, l´altro rappresentante della politica estera e di sicurezza dell´Unione europea Xavier Solana, il segretario "liberale" dell´Onu Ban Ki-Moon e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, è stato anche rivolto un invito a Israele e Palestina perché facciano progressi nell´adozione di misure di fiducia reciproca e lavorino per una pace duratura e «parlino» con uno Stato palestinese che possa coesistere con Israele e con i suoi vicini. «Cercherò di fare in modo che la soluzione basata sulla creazione di due Stati diventi realtà», ha promesso Blair, ricordando che alla questione mediorientale ha «dedicato» nel corso degli ultimi anni parecchi sforzi come primo ministro britannico.
Nonostante l´ottimismo generale emerso nella conferenza stampa finale, poche ore prima il segretario di Stato americano aveva presentato la sua visione molto più scettica sulla situazione mediorientale. «Quando non si è nemmeno capaci di riconoscere il diritto all´esistenza della controparte, non vedo come si possa parlare di pace», ha detto Rice in riferimento alla posizione dei duri di Hamas. Secondo il capo della diplomazia Usa, il movimento palestinese «è isolato perché è al margine delle norme internazionali relative alla rinuncia della violenza e all´accettazione degli accordi raggiunti dai leader palestinesi negli ultimi dieci anni».

Umberto De Giovannangeli nella sua cronaca, pubblicata dall'UNITA', enfatizza il dissenso della Russia dalla posizione euro-americana.
Il pezzo forte della sua difesa di D'Alema è però il cosrsivo nel quale cita un articolo dell'analista israeliano Eran Shayson, pubblicato dal Jerusalem Post.
Secondo  Shayson, i tentativi di rafforzare i moderati palestinesi da parte di Israele sono destinati a fallire (perché li delegittimano presso la popolazione palestinese), mentre Hamas incassa successi diplomatici come
"il ritorno della delegazione diplomatica egiziana a Gaza " e il   "rilascio del corrispondente della Bbc, Alan Johnston" che "ha garantito al gruppo un certo prestigio nell’area internazionale".
Si noti che Shayson nel suo articolo non scrive che Hamas è un interlocutore per Israele. Scrive che  "se Israele vuole restare rilevante, dovrà riconoscere in Hamas il vero indirizzo a Gaza" e che l'unica possibilità di avere un interlocutore per Israele consiste in autentico autogoverno palestinese.
Shayson sa perfettamente, però, che un "autogoverno" palestinese di Hamas può anchesignificare guerra.
D'Alema e l'UNITA', incvece, pensano che Israele sia tenuta alla pace con chiunque. Non hanno mai sostenuto, e non sosterranno mai, Israele quando si difende.
Tra il ragionamento di Shayson, che può essere giusto o sbagliato, e la posizione di D'Alema e u.d.g. c'è un abisso.
Mentre Shayson chiede a Israele di riconoscere una presunta situazione di fatto, cioè che Hamas domina Gaza e Abu Mazen è troppo debole per imporsi con successo in Cisgiordania, D'Alema e u.d.g. predicano l'obbligo per Israele di trattare e stipulare una pace con Hamas.
Inoltre, si deve notare che il comportamento della comunità internazionale è una delle premesse del ragionamento di Shayson. Poichè la comunità internazionale sembra appoggiare Hamas, argomenta l'analista, Israele deve riconoscere il consolidamento del suo potere. L'Italia, dunque, promuovendo il diaologo con Hamas, la rafforza, contribuisce precisamente a uno scenario
"che lascia Israele senza nessuna alternativa politica" .
L'articolo di Shayson, inoltre, è del 12 luglio, e la sua analisi andrebbe confrontata con gli sviluppi successivi degli eventi.
La comunità internazionale, Usa e Ue in particolare, ha nel frattempo preso con decisione le distanze da Hamas.
La posizione di D'Alema, dunque, è oggi in controtendenza. E non è certo un favore a Israele.
Un altro mutamento è stato la dichiarata rinuncia al terrorismo da parte di membri della Brigate Al Aqsa, riferita da tutti i giornali il 16 luglio,: Shayson, nel descrivere l'impotenza di Abu Mazen nella West Bank si concentrava invece sul fatto che alcuni membri del gruppo terroristico di Al Fatah avevano chiesto le dimissioni del premier Salaam Fayad ed avevano lasciato le Forze di sicurezza  dell'Autorità palestinese dopo il descreto presidenziale che chiedeva lo scioglimento della fazioni di Al Fatah.
Non è usuale che L'UNITA' citi il Jerusalem Post, nel quale vi sarebbero naturalmente molte notizie ed analisi utili a sfatare la disinformazione che il quotidiano italiano diffonde sistematicamente su Israele. La citazione  dell'analisi di Shayson è dunque palesemente strumentale. Si può aggiungere che è anche completamente ingannevole.
Ecco il link all'articolo del Jerusalem Post
http://www.jpost.com/servlet/Satellite?cid=1184168543788&pagename=JPost%2FJPArticle%2FShowFull

Ecco il testo di u.d.g. :

 
«La vera vittoria di Hamas è che lascia Israele senza nessuna alternativa politica a Gaza: Israele sa che l’unica alternativa politica al regime di Hamas a Gaza è Al Qaeda. Quindi, se Israele vuole restare rilevante, dovrà riconoscere in Hamas il vero indirizzo a Gaza». Più chiaro di così...Una riflessione realista, tanto più significativa perché a ospitarla è il giornale conservatore israeliano «Jerusalem Post». L’articolo è del 12 luglio scorso ed è intitolato: «Hamas ha vinto la battaglia e potrebbe anche vincere la guerra». A firmarlo è Eran Shayson, capo analista del prestigioso Reut Institute for policy planning.
Guardare in faccia il problema che si ha di fronte. Comprendendone la complessità ed evitando letture schematiche che non aiutano a individuare la via giusta per contenere il radicalismo islamico in Palestina. Per farlo, occorre sgomberare il campo da una equiparazione forzata: tra Hamas e Al Qaeda non c’è differenza alcuna. Concetto ribadito recentemente dall’ambasciatore israeliano a Roma Gideon Meir in una intervista al Corriere della Sera. In discussione non è il sostegno alla leadership di Abu Mazen. In discussione è: come gestire il problema di Hamas? Si può semplicemente sperare che l’isolamento di Gaza ne sancisca la fine politica? Realisticamente, Eran Shayson prende atto che le cose non vanno in questa direzione. Semmai, all’opposto. Un mese dopo la conquista di Gaza, riflette l’editorialista del Jerusalem Post, «sembra che Hamas abbia avuto la saggezza politica di colmare gli svantaggi. Il gruppo è riuscito a consolidare il suo controllo a Gaza, riconquistando il sostegno popolare, evitando la chiusura ermetica del confine tra Israele e la Striscia e portando avanti il dialogo con gli attori arabi e internazionali». Sotto questo profilo, annota Shayson, «il ritorno della delegazione diplomatica egiziana a Gaza è il risultato politico più importante per Hamas. Inoltre, il rilascio del corrispondente della Bbc, Alan Johnston, ha garantito al gruppo un certo prestigio nell’area internazionale».
Guardare in faccia la realtà. Non per subirla, ma per cercare di modificarla. Ed è ciò che stanno facendo gli esponenti di una democrazia vitale come è quella israeliana. Partendo da una constatazione «de facto»: il boicottaggio internazionale e il tentativo di strangolamento dei governi di Hamas, dopo la vittoria elettorale del gennaio 2006, non ha prodotto i risultati sperati. «La frustrazione israeliana nei confronti di Hamas - riflette ancora il direttore del Reut Institute for policy planning - è dovuta principalmente all’incapacità di influenzare l’equilibrio di potere interpalestinese. Israele è di fronte a un dilemma: qualunque gesto nei confronti degli elementi moderati di Fatah, indebolisce politicamente questi elementi, mentre un confronto con Hamas può perfino rafforzare gli estremisti». Al fondo del ragionamento di Shayson c’è un nodo cruciale: quale sia il modo migliore di rafforzare la sicurezza dello Stato ebraico di fronte alla spaccatura in due del fronte palestinese. Così il «Jerusalem Post». La domanda finale è d’obbligo: chi guarda in faccia la realtà è da arruolare a forza nelle schiere jihadiste?

Sul MATTINO  del 19 luglio ennesima presa di posizione di V. Dell'Uva su a favore della politica estera anti-israeliana del governo italiano, accompagnata dalla solita benevola e irreale descrizione di Hamas. Su quest'ultima il giornalista arriva a scrivere: "il movimento islamico Hamas caratterizzato, in alcune sue componenti, da una innegabile deriva terroristica appena tenuta a freno per qualche mese, ma al tempo stesso forza politica legittimata e catalizzatrice di molti consensi".Tutto ciò in spregio della realtà e delle ceninaia di morti ammazzati trucidati dagli assassini di Hamas.

Altresì l'analisi trascura molte verità storiche (ma ne tira dentro altre completamente estranee alla questione in oggetto), su tutte le conseguenze disatrose dell'illusione chiamata Oslo ( e sul ruolo distruttivo esercitato proprio da Hamas nei confronti del processo di pace) e gli ormai consolidati giudizi negativi sulla figura di Yasser Arafat.
Ecco il testo:


È da escludere che, agli inizi degli anni Ottanta, qualcuno pensasse davvero che un giorno Yasser Arafat sarebbe stato insignito, sia pure con qualche forzatura, del Nobel della pace. Il raìs, che non si era ancora pronunciato contro il «terrorismo in tutte le sue forme», veniva indicato - e non soltanto in Israele - come l’occulto regista di una politica aggressiva di matrice eversiva. Sulla sua Olp, pur legittimata dalla comunità internazionale, e su Al Fatah, piovevano regolarmente sprezzanti giudizi severi quale che fossero gli atteggiamenti da realpolitik assunti nel contesto del dramma palestinese. La politica del taglio netto con l’accetta, caro agli ambienti conservatori, rischiava in ogni momento di prendere il sopravvento. Se avesse prevalso non ci sarebbero stati probabilmente gli accordi di Oslo, voluti dalla parte riformatrice di Israele, nè sarebbe stato sancito, anche se con molta fatica, il principio di due «popoli e due Stati». Passo dopo passo, forze per loro natura intransigenti e rivoluzionarie sono state incanalate verso posizioni politicamente moderate. È a uno degli eredi del «terrorista» Arafat, il presidente Abu Mazen, che oggi Israele è chiamato a dare sostegno, tra il variegato compiacimento dell’Europa ed il beneplacito, rafforzato dai dollari, di George W. Bush. Ma sono anche i giorni in cui si rischia, in qualche misura, di tornare al passato con il tentativo di emarginazione di una delle forze in campo, applicando unilateralmente principi di compatibilità ed elasticità alla rappresentanza di un popolo. Dai nastri dell’ennesima annunciata partenza del processo di pace, si vorrebbe che fosse tenuto lontano il movimento islamico Hamas caratterizzato, in alcune sue componenti, da una innegabile deriva terroristica appena tenuta a freno per qualche mese, ma al tempo stesso forza politica legittimata e catalizzatrice di molti consensi. È arrivata al potere attraverso libere elezioni svoltesi sotto gli occhi di osservatori internazionali. Ha costituito l’alternativa ad una classe dirigente statica e corrotta. Da Hamas si sente rappresentata una buona metà, che non può essere ignorata, del popolo palestinese. Più che sulla intransigenza nei confronti di Israele il movimento ha costruito il proprio successo con la cura dedicata al sociale, prima di promuovere il recente processo armato della conquista di Gaza che può essere anche considerato effetto dell’isolamento internazionale che, come una sanzione, ha salutato il responso delle urne. L’elettorato che aveva «sbagliato» è stato nella sua globalità punito con la sospensione di aiuti che in molti casi garantivano la sopravvivenza. La reazione islamica è risultata caratterizzata da una contrapposizione ancora più violenta sponsorizzata da Teheran, tra il lancio di molti razzi Qassam sul territorio israeliano e l’attacco frontale ai moderati di Al Fatah. In maniera più o meno inconsapevole all’estremismo di fondo è stata data una nuova spinta fino, forse, a favorire le azioni promozionali di Al Qaida sempre pronta ad arare terreni fertili. «Se si accentuano le restrizioni politiche ed economiche, la gente può essere tentata di percorrere altre strade» ha appena ricordato, non senza ambiguità, il premier deposto Ismail Haniyeh. È consolidata abitudine per il contesto occidentale, applicare a fisarmonica, a seconda delle circostanze, i principi democratici di cui è indubbio portatore. Accadde in Algeria con il plauso ai golpisti che impedirono di andare al potere con le elezioni gli islamici del Fis dedicatisi con forza ad una lotta armata che ha fatto decine di migliaia di morti prima di essere attenuata dalla «politica del perdono» cui è stato costretto il governo. Si è scontrato con lo tsunami terroristico il tentativo di imporre con le armi in Iraq un modello democratico preconfezionato. Nè sono mancate molte interessate indulgenze plenarie in presenza di forti interessi economici. Rapporti declassificati della Cia raccontano del sostegno americano a Pinochet che con gli omicidi mirati si liberava dei suoi avversari politici dopo essere stato aiutato a far fuori Allende. Gheddafi è tornato ad apparire affidabile dopo aver pagato i danni per la strage di Lockerbie. Altri compromessi, nell’interesse della stabilità del pianeta non mancano e non mancheranno. Decidere che movimenti, a forte sostegno popolare come Hamas o Hezbollah, che nei parlamenti hanno trovato spazio, debbano restare prigionieri del proprio vulcanico estremismo può rappresentare il grande vulnus del processo di pace in Medio Oriente. Vittorio dell’Uva



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