Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Per qualcuno D'Alema ha ragione: quelli di Hamas sono terroristi buoni rassegna di quotidiani
Testata:La Repubblica - L'Unità - Europa - Il Manifesto Autore: Alberto Stabile - Umberto De Giovannangeli - Janiki Cingoli - Michelangelo Cocco Titolo: ««"Troppe pressioni sui palestinesi così Hamas è tentata da Al Qaeda"- Quello che Fini non sa - Non si può fare la pace solo con Fatah - D'Alema-Hamas, la destra insorge - Quel manifesto targato Storace che mise in croce "D'Alemmah"»
Molti dei quotidiani del 18 luglio 2007 appoggiano più o meno apertamente le dichiarazioni di D'Alema su Hamas Da La REPUBBLICA del 18 luglio 2007, a pagina 23, un'intervista di Alberto Stabile Ismail Haniyeh, il golpista che però è "sempre più convinto d´essere il capo legittimo di un governo democraticamente eletto ". La sostanziale acriticità di Stabile permette ad Haniyeh di dare il massimo risalto al suo messaggio ricattatorio: le pressioni (per il riconoscimento di Israele e per la fine del terrorismo) potrebbero portare Hamas a cedere alle "tentazioni di Al Qaida". Una minaccia neanche tanto velata all'Europa e all'Occidente.
Ecco il testo:
GAZA - Se messi alle strette, anche i palestinesi potrebbero cedere alle tentazioni di Al Qaeda. Così, un Ismail Haniyeh sempre più convinto d´essere il capo legittimo di un governo democraticamente eletto, ha risposto alle preoccupazioni manifestate da Massimo D´alema verso l´approdo che movimenti come Hamas ed Hezbollah potrebbero trovare se la Comunità internazionale dovesse continuare nei loro confronti a battere soltanto sul tasto dell´isolamento. L´intervista che Haniyeh ci ha accordato nel suo ufficio di primo ministro, ufficio che continua ad occupare nonostante il presidente dell´Autorità palestinese, Abu Mazen, lo consideri alla stregua di un usurpatore, o di un golpista, fa parte di un´offensiva diplomatica che Hamas sta conducendo a tutto campo dopo la "conquista" di Gaza. La guerra civile è lontana. Dalle strade della Striscia sono scomparse le armi, tranne quelle, ovviamente, della Forza esecutiva. Neanche nei cortei matrimoniali, o nei funerali, è permesso sparare. E questo per Hamas è la dimostrazione delle sue capacità di tenere la situazione sotto controllo, anche se, per il resto, Gaza è una grande prigione di sabbia totalmente separata dal resto del mondo. Cominciamo dalla fine. Il presidente Bush ha annunciato una Conferenza internazionale sul conflitto israelo-palestinese e ha dato sostegno economico e politico ad Abu Mazen. Lei non sarà invitato alla Conferenza e non riceverà alcun sostegno. Non crede che si ci sia qualcosa di sbagliato nella sua politica, se ha portato Gaza a un punto di quasi totale abbandono? «Chi sbaglia è Bush che non osserva i principi di democrazia che va propagandando. Noi abbiamo vinto in un´elezione onesta e pulita, ma gli americani non rispettano la libera scelta del popolo palestinese. Il problema è loro, non nostro. È nella politica che hanno adottato in Iraq, in Afghanistan e in Palestina. Dovrebbero aver imparato qualcosa dagli errori commessi, e avrebbero dovuto correggerli, ma non lo hanno fatto». Lei rivendica a buon diritto di essere il capo di un governo democraticamente eletto. Vorrei farle presente che il compito principale di un governo è di migliorare le condizioni di vita degli elettori. Qui a Gaza, invece, da quasi due anni vediamo, uno stallo politico con la comunità internazionale e una grave situazione umanitaria. Potrebbe presentare una qualche nuova proposta per uscire da questa situazione? «Abbiamo formato un governo di unità nazionale con un programma che ha avuto il consenso di tutte le fazioni basato sull´accettazione dello Stato palestinese entro i confini del ‘67, la delega all´Olp di negoziare con l´Occupazione (Israele, ndr) e l´affermazione che le elezioni e la democrazia sono i mezzi per costruire le istituzioni palestinesi. Ma purtroppo alcuni paesi hanno rifiutato la nostra scelta, il che vuol dire che c´era l´intenzione di far collassare il governo di unità nazionale». Il suo governo, però, non ha riconosciuto Israele. Lei è pronto a farlo adesso? «Riconoscere, a quale scopo? Perché le vittime devono riconoscere gli aggressori? Che siano loro a riconoscere prima i nostri diritti. L´Olp, 15 anni fa, ha riconosciuto Israele e in cambio che cosa ha avuto? Dov´è lo Stato palestinese indipendente? Sono stati rilasciati gli oltre 11 mila palestinesi detenuti nelle carceri israeliane? Il riconoscimento c´è stato, ma ha conseguito l´opposto di quello che prometteva. E come se non bastasse, gli israeliani hanno anche costruito il muro, allargato gli insediamenti, ebraicizzato Gerusalemme, confiscato la Valle del Giordano, arrestato altri palestinesi e negato il diritto del ritorno ai profughi. Allora, dov´è il problema, dalla nostra parte o dalla loro?» Il problema è che la comunità internazionale ha posto delle condizioni precise e tra queste, il riconoscimento del diritto d´Israele ad esistere. Quindi, se volete far parte della comunità internazionale, sarebbe opportuno da parte vostra un atteggiamento più realista e pragmatico. «Guardi che l´Olp gode del pieno riconoscimento della comunità internazionale e, a sua volta, ha osservato tutte le condizioni poste, eppure il conflitto non viene risolto. Allora credo che il problema non sia nel riconoscimento dello Stato d´Israele da parte di Hamas». Hamas ha vinto a Gaza. Quale è adesso la vostra strategia? Rinuncereste alla Cisgiordania in una sorta di lottizzazione geopolitica dei territori palestinesi? «Assolutamente no. La Striscia di Gaza è parte integrante della Palestina, la Cisgiordania è ancora sotto occupazione israeliana, noi, come popolo, come movimento e come governo siamo responsabili anche verso la Cisgiordania». A quali condizioni permettereste il ritorno di Abu Mazen a Gaza? «Non poniamo nessuna condizione». Accettereste la presenza di una forza internazionale per garantire la calma? «I palestinesi a Gaza vivono in una situazione di sicurezza che non hanno mai avuto prima e potete andare in giro per vedere coi vostri occhi». Da un lato lei dice di rappresentare il partito della legge e dell´ordine, ma dall´altro da Gaza ogni giorno vengono lanciati razzi Kassam contro la popolazione civile israeliana. «Nel programma del governo di unità nazionale c´era l´impegno a raggiungere un consenso fra tutte le fazioni per stabilire una tregua generale. Noi stiamo ancora discutendo con gli altri gruppi della resistenza l´ipotesi di una tregua per prevenire qualsiasi azione aggressiva israeliana contro il nostro popolo». Il ministro degli Esteri italiano, Massimo D´Alema, ha messo in guardia l´Occidente dal «regalare ad Al Qaeda un movimento come Hamas». Al Qaeda è già a Gaza? «Prima di tutto mi lasci dire che apprezziamo la posizione del governo italiano di aprire un dialogo con Hamas. Il pericolo di un´infiltrazione di Al Qaeda è una manovra che viene da Ramallah allo scopo di provocare la comunità internazionale contro una parte del popolo palestinese. Tra Hamas e al Qaeda ci sono differenze essenziali. Ma se si accentuano le restrizioni economiche, geografiche e politiche la gente può essere tentata a percorrere altre strade». Lei vanta ottimi rapporti con il premier italiano, Romano Prodi, che, però, recentemente è andato a Ramallah ma non l´ha chiamata. «Se fosse venuto a Gaza gli avremmo riservato i massimi onori». Cosa si aspetta dal nuovo inviato del Quartetto, Tony Blair? «Che sia giusto e rettifichi i suoi errori politici nei confronti dei palestinesi».
Dalla prima pagina dell' UNITA' , l'editoriale di Umberto De Giovannangeli, che difende la rottura di D'Alema con la politica dell'Europa e del Quartetto assimilandola alla politica estera di Bernard Kouchner(ministro degli Esteri francese) , a quella di Mubarak e alle posizioni di un politico israeliano senza più responsabilità di governo, Shlomo Ben Ami. Ma per D'Alema trattare con Hamas è necessario per evitare che si allei con Hamas. Al gruppo islamista non deve dunque essere posta nessuna condizione inderogabile, nemmeno quella della rinuncia al terrorismo contro gli israeliani, vittime di serie b.
Ecco il testo:
Rivela Massimo D’Alema: «Il promotore della tanto contestata lettera dei ministri degli Esteri dei dieci Paesi euromediterranei al nuovo inviato speciale del Quartetto Tony Blair, non era stata predisposta da un pericoloso fondamentalista bensì dal ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, ministro del governo del tanto acclamato Nicolas Sarkozy». Il «nuovo corso francese» sperimenta la strada del dialogo anche sull’altro esplosivo fronte mediorientale: quello libanese. Mentre in Italia si polemizza sulla necessità del dialogo, un dialogo critico, anche con i movimenti islamo-nazionali, al castello di La Celle-Saint-Cloud, sotto l’egida della Francia, va in scena la conferenza per il dialogo nazionale libanese fra i diversi partiti del paese dei Cedri. Tra questi partiti, su espressa sollecitazione di Sarkozy (dichiarato modello politico per il leader di An Gianfranco Fini) e Kouchner, c’era anche Hezbollah, il movimento sciita che gli epigoni nostrani della fallimentare «guerra preventiva» vorrebbero trattare in un solo modo: con la forza. Ma torniamo alla «Lettera dei Dieci»; in quella lettera, ricorda D’Alema, c’era un punto, quello che sollecita un lavoro comune per la ripresa del dialogo tra Fatah e Hamas, che «viene sollecitato da leader arabo tra i più impegnati nel processo di pace: il presi- dente egiziano Hosni Mubarak». Massimo D'Alema svolge queste considerazioni davanti a mille persone, l'altro ieri alla Festa nazionale dell'Unità sulla politica estera a San Miniato. Riflessioni alla luce del sole. Che oggi il titolare della Farnesina riprenderà, puntualizzandole, nel suo incontro a Roma con il neo inviato speciale del Quartetto (Usa-Ue-Onu-Russia), l'ex premier britannico Tony Blair. «Hamas - rimarca D'Alema - si è reso protagonista di atti terroristici, ma è anche un movimento popolare. È una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese», e quindi, sarebbe sbagliato «regalare ad Al Qaeda movimenti come Hamas o Hezbollah». Dovrebbe essere «interesse della comunità internazionale evitare di spingere questi movimenti nelle braccia di Al Qaeda»: le considerazioni di D'Alema scatenano la reazione sdegnata del centrodestra e vengono «tritate» nello stantio minestrone delle polemiche interne. Vale invece la pena far parlare sull'argomento chi ha più esperienza diretta, e voce in capitolo. Come Shlomo Ben Ami, che fu ministro degli Esteri d'Israele nel biennio 2000-2001, durante il governo di Ehud Barak (Labour). In quella veste Ben Ami partecipò, con un ruolo di primo piano, ai negoziati di Camp David e alla conferenza di Taba. Riflette Ben Ami nel suo libro «Palestina. La storia incompiuta. La tragedia arabo-israeliana» (Corbaccio, 2007): «La reazione alla supremazia del governo Hamas non deve consistere negli sforzi a isolarlo e quindi a rovesciarlo, ma piuttosto in un serio tentativo di iniziare a valutare le ragioni profonde che conducono alle democrazie islamiche e, piu' importante, a trattenersi dal giudicarle attraverso i soliti cliché». E ancora: «Israele e Occidente - sottolinea Ben Ami, che è stato anche ambasciatore in Spagna, e come tale membro della delegazione israeliana alla Conferenza di Pace di Madrid, nel 1991 - devono dare una possibilità al nuovo governo Hamas. Fin dagli anni 90. Hamas si è imbarcato in un difficile viaggio dal jihadismo alla partecipazione politica, e va incoraggiato. È un errore vederlo come un'organizzazione fanaticamente monolitica e con una rigida visione manichea degli affari nel mondo...» Così un intellettuale e politico di primo piano dello Stato ebraico che, è bene ricordarlo, nel suo trascorso pubblico ha ricoperto anche gli incarichi di Capo della delegazione israeliana nei colloqui multilaterali sui rifugiati e di ministro per la Sicurezza pubblica. «Il modo più incisivo per rafforzare la leadership di Abu Mazen e circoscrivere l'influenza di Hamas, è di procedere con decisione ad un negoziato di pace che porti ad un accordo globale tra le parti»: un altro tasto sul cui il capo della diplomazia italiana ha piu' volte battuto, e che trova alimento nella riflessione di Khaled Hroub, intellettuale laico palestinese, direttore dell'Arab Media Project presso la Cambridge University, autore di «Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo della Palestina» (Bruno Mondatori, 2006): «Ritengo che Hamas sia la naturale conseguenza delle innaturali e brutali condizioni di occupazione. Il suo radicalismo dovrebbe essere interpretato come logico e prevedibile risultato del processo di colonizzazione messo in atto da Israele in Palestina». «I palestinesi - aggiunge Hroub - stanno dalla parte di qualunque movimento abbracci la causa della resistenza contro l'occupazione israeliana e prometta di difendere il loro diritto alla libertà e all'autodeterminazione. In questo momento storico, essi vedono in Hamas il garante di questo diritto…» Un diritto che nulla a che vedere con il Jihad globalizzato evocato, e praticato, da Al Qaeda. Il cui obiettivo resta quello indicato nella «Dichiarazione del fronte islamico mondiale per la Guerra Santa», firmata il 23 febbraio 1998, fra gli altri, da Osama Bin Laden e dal suo vice, Ayman al-Zawahri: «Chiamiamo, se Dio lo permette, ogni musulmano credente e desideroso di essere ricompensato da Lui a ottemperare all'ordine di Dio e a uccidere gli americani e saccheggiare i loro beni, ovunque si trovino e in ogni momento». Questo è il programma di Al Qaeda, che mira a fare di Palestina e Libano un'unica trincea jihadista, assieme all'Iraq. Se così è resta sul tappeto la questione cruciale posta da D'Alema: come evitare di spingere Hamas nelle braccia di Al Qaeda. La Francia di Sarkozy ha dato una risposta. Ma i fans italiani di «Nicolas l'innovatore» fanno finta di niente.
Da EUROPA, l'editoriale di Janiki Cingoli , secondo il quale Israele dovrebbe accettare da Hamas una tregua, in attesa della guerra per la sua distruzione. E' questo scenario che Cingoli intende per "pace" in Medio Oriente.
Sono sempre più numerosi, in Italia, coloro che sostengono sia necessario trattare con Hamas, ma sul come e sul perché le idee sembrano ancora poco chiare. Chi scrive ha sostenuto su questo giornale, sin dai primi mesi successivi alla vittoria dell’organizzazione islamica, ottenuta peraltro con mezzi legittimi e trasparenti, che era necessario coinvolgere Hamas nel processo negoziale. È stato un errore il boicottaggio contro i governi guidati da Ismail Haniyeh, compreso l’ultimo, un esecutivo di unità nazionale nato dall’accordo interpalestinese della Mecca. Non che Israele o la comunità internazionale dovessero riconoscere quei governi o Hamas in quanto formazione politica. Non si riconoscono i governi o i partiti, bensì gli stati o almeno gli embrioni statali, come l’Autorità nazionale palestinese. Con i governi democraticamente eletti si opera, senza boicottarli, attraverso contatti o incontri con i diversi esponenti politici. D’altronde, la questione del riconoscimento di Hamas da parte israeliana non è all’ordine del giorno, visto che è lo stesso Hamas che si rifiuta di riconoscere lo stato ebraico. Il quadro di riferimento possibile è un altro e fa riferimento da un lato al piano arabo di pace e dall’altro all’accordo interpalestinese della Mecca del febbraio 2007. Del testo dell’accordo va ricordato un passaggio chiave: la delega ad Abu Mazen, in quanto guida dell’Olp e non in quanto presidente dell’Anp, a condurre il negoziato con Israele sullo stato finale. L’esito della trattativa, se non approvato dal consiglio legislativo palestinese (controllato da Hamas), sarebbe stato sottoposto a referendum. Attraverso questa formulazione, Hamas si sfilava dalla partecipazione ai contatti preliminari con Israele, ma si impegnava a rispettare gli esiti della consultazione popolare. Nell’accordo vi era inoltre l’impegno a concentrare la lotta armata all’interno dei Territori occupati, rinunciando a iniziative terroristiche dentro i confini israeliani. Si ribadiva la disponibilità a una tregua bilaterale di lunga durata con Israele, purché fosse estesa anche alla Cisgiordania. L’accordo della Mecca impegnava inoltre le parti al rispetto degli accordi pregressi firmati dall’Olp, compresi quelli di Washington, e faceva riferimento alle risoluzioni dei precedenti summit arabi, compresi il Piano di pace votato a Beirut nel 2002 e recentemente rilanciato a Riyadh. Il riferimento al Piano arabo apre la strada al riconoscimento di Israele, che tuttavia il piano colloca alla fine e non preliminarmente al negoziato, come d’altronde è prassi normale tra paesi in conflitto. Nel Piano arabo e nella Mecca vi è quindi una sufficiente risposta alle tre condizioni del Quartetto: riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e rispetto degli accordi pregressi. Da parte del Quartetto, non aver preso in considerazione questi elementi e aver continuato a riproporre meccanicamente le sue tre condizioni è stato un errore fondamentale, a cui l’Europa e l’Italia si sono accodate, fino alla recente lettera dei dieci ministri degli esteri del Mediterraneo. La scelta di isolare Hamas ha indubbiamente contribuito a spingerla alla prova di forza – comunque ingiustificabile – facendo prevalere al suo interno le correnti più dure e intransigenti. La questione oggi non è tanto spingere per improbabili riconoscimenti di Hamas, ma chiarire che un ritorno a un governo di unità nazionale è necessario e auspicabile, e che esso troverebbe una nuova disponibilità da parte della comunità internazionale, che non rinnoverebbe il boicottaggio. Questo sì sarebbe un contributo importante a superare la crisi interpalestinese. Ciò non significa, naturalmente, rinunciare a rafforzare Abu Mazen o a collaborare con lui e il suo nuovo governo sulle questioni legate allo stato finale. Ma occorre che la comunità internazionale coinvolga l’intero schieramento palestinese, incluse le componenti islamiche più radicali. E la prospettiva del referendum concordato alla Mecca potrebbe tornare di attualità per superare la crisi interpalestinese. Anche nel caso dovesse essere convocata una conferenza internazionale di pace, come proposto da George Bush, questa non dovrebbe essere concepita come un’arma puntata contro Hamas. Non si può fare la pace solo con Al Fatah, anche per la stessa sicurezza di Israele, e non si può costruire uno stato palestinese senza Gaza, abbandonando la Striscia a se stessa, all’estremismo e ad al Qaeda.
Dal MANIFESTO, pagina 11, l'articolo di Michelengelo Cocco, che difende D'Alema dall'attacco "delle destre" :
D'Alema chiarisca. Con Hamas non si negozia. Così smentisce Prodi. Dichiarazioni improvvide. Con alla testa l'ex capo della Farnesina e leader di Alleanza nazionale Gianfranco Fini, le destre ieri sono insorte contro il ministro degli esteri Massimo D'Alema che il giorno prima aveva sostenuto la necessità di aprire al movimento islamico palestinese. «Le parole di D'Alema sono gravissime e irresponsabili. Hamas non ha mai ripudiato il terrorismo come strumento di lotta» ha tuonato l'ex delfino di Giorgio Almirante. Secondo Fini, Hamas il terrorismo «lo ha praticato e lo pratica tuttora e si rifiuta di riconoscere lo Stato di Israele». Prodi, ha concluso Fini, «ha il dovere di dire con chiarezza se le affermazioni di D'Alema sono condivise e sono la linea del Governo». «Hamas è un'organizzazione terroristica che figura sulla lista stilata dall'Ue e che chiede la distruzione dello Stato di Israele. Fino ad oggi non ha dato nessun segnale di cambiamento, per questo non vediamo nessuna ragione per un dialogo con i terroristi». Così il portavoce dell'ambasciata di Israele a Roma, Rachel Feinmesser. Oltre alla constatazione che «Hamas è una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese», il vice presidente del Consiglio aveva detto, tra le altre cose, che «è sbagliato regalare ad Al Qaeda movimenti come Hamas ed Hezbollah» e che «per l'Occidente non riconoscere un governo eletto democraticamente, magari mentre andiamo a braccetto con qualche dittatore, non è una straordinaria lezione di democrazia». Il ragionamento del ministro degli esteri, che ad inizio 2007, in un editoriale di Italianieuropei, scriveva che «la vecchia agenda nazionalista è ormai utilizzata strumentalmente da forze fondamentalista» e che bisogna «impedire che movimenti nazionalisti e movimenti islamici si saldino» e ancora che è necessario «appoggiare Fouad Siniora in Libano e Abu Mazen a Gaza nelle rispettive e difficili prove interne» ora manda in sollucchero la parte più progressista del centro-sinistra. «Grande D'Alema!» commenta da Bruxelles Luisa Morganitini, vice presidente del Parlamento europeo, indipendente eletta nelle liste di Rifondazione comunista. Secondo Morgantini la recente lettera a Tony Blair (che come neo ambasciatore presiederà la riunione di dopo domani del Quartetto di mediatori per il Medio Oriente e lunedì volerà nei Territori occupati e in Israele) di dieci ministri degli esteri europei, tra cui D'Alema, e l'uscita del leader dei Ds segnalano uno lieve spostamento della posizione dell'Ue, più disposta a rivedere il boicottaggio contro il parito vincitore delle elezioni palestinesi del gennaio 2006. «Bisogna favorire la ripresa del dialogo tra Fatah e Hamas e bisogna farlo subito - sostiene l'eurodeputata -. Il rischio è una situazione di stallo che non può che favorire la radicalizzazione delle posizioni». Anche Jacopo Venier, capo gruppo alla Camera e responsabile esteri dei Comunisti italiani, plaude alle dichiarazioni del vice premier: «L'unica via è convocare una conferenza internazionale che abbia come base le risoluzioni delle Nazioni Unite. Una pace separata con alcuni stati arabi rischierebbe di aprire la strada all'attacco all'Iran». Angelo Bonelli, leader dei Verdi a Montecitorio e responsabile esteri, sostiene che «non bisogna dimenticare che Hamas ha utilizzato il terrorismo, ma nemmeno che ha vinto le elezioni, e ora bisogna trattarci». Ma gli Stati Uniti - a un anno e mezzo dal voto presidenziale e impantanati in Iraq - accelerano in un'altra direzione, quella dell'isolamento di Hamas. Anche se, come avvertono analisti e politici mediorientali, la Conferenza annunciata da Bush per il prossimo autunno e il pacchetto di milioni di dollari diretto solo verso l'Anp del presidente Abu Mazen potranno portare a una rivolta contro Fatah, percepito da una parte degli arabi come «collaborazionista» degli occupanti. «Siamo pronti a restituire le istituzioni della Striscia di Gaza all'Autorità palestinese del presidente Abu Mazen» ha annunciato intanto dal Qatar Khaled Meshaal, leader in esilio del movimento islamico. Meshaal, considerato a capo dell'ala dura di Hamas, per la prima volta ha ammesso che «sono stati commessi errori», alludendo evidentemente alla presa di potere con le armi compiuta a Gaza il mese scorso dalle sue stesse milizie. Ma su un punto Meshaal non cede: la restituzione ad Abu Mazen del controllo degli organismi della sicurezza «che potrà avvenire - ha tuttavia aggiunto - quando queste strutture saranno riformate secondo un principio nazionale e non più basato sulle fazioni». Sia come sia un'apertura, ad Abu Mazen e al mondo che studia le mosse di Hamas. Il «gradualismo» resta una delle caratteristiche principali dei nipotini della Fratellanza musulmana.
In un breve trafiletto, il quotidiano comunista scrive addirittura di un D'Alema "crocifisso", "dalla destra al completo, dalla comunità ebraica romana e da qualche esponente dell'Unione". A parte la confusione tra le critiche e la persecuzione, eco dell'ingiustificato vittimismo dello stesso D'Alema, un ministro degli Esteri che parla spesso e volentieri di sé come di un coraggioso dissidente, si deve osservare che l'accostamento delle parole "crocifisso" e "dalla comunità ebraica romana " non fa certo un bell'effetto
Era il 23 agosto 2006 e Roma si svegliò tappezzata di manifesti, piazzati dai ragazzi dell'allora big di Alleanza nazionale Francesco Storace. Li firmava D-Destra, la corrente del governatore del Lazio. C'era la grande foto del ministro degli esteri Massimo D'Alema in Libano, scattata la settimana precedente, con le rovine di Beirut bombardata sullo sfondo, a braccetto con il deputato di Hezbollah Hussein Haji Hassan. E un titolo a caratteri cubitali: «D'Alemmah». L'efficace manifesto storaciano fu il culmine di una violenta polemica che accolse D'Alema al ritorno dal Libano, che vide il ministro degli esteri crocifisso dalla destra al completo, dalla comunità ebraica romana e da qualche esponente dell'Unione.
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