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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Espresso - Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
06.07.2007 Israele, gli arabi, la guerra e la possibilità della pace secondo Abraham B. Yehoshua e David Grossman
interviste ai due scrittori israeliani

Testata:L'Espresso - Il Venerdì di Repubblica
Autore: Wlodek Goldkorn - Paola Zanuttini
Titolo: «La profezia di Yehoshua - Se io, ebreo, mi metto nei panni dei nemici di Israele»
L'intervista allo scrittore israeliano  Abraham B. Yehoshua pubblicata dall'ESPRESSO in edicola il 7 luglio 2007:

Un salotto di casa borghese al quinto piano di una modernissima palazzina bianca sul Carmelo, a Haifa. Dalle porte vetrate che danno su un'ampia terrazza coi graziosi tavolini e sedie bianche in ferro battuto arriva una fresca aria di mare mescolata a quella di mezza montagna. Pure i mobili nel salotto sono moderni e belli. In casa di Abraham B. Yehoshua regna un'atmosfera di pace, tranquillità, sicurezza borghese che allude a una salda fede di stampo illuministico nel futuro, come lo era quella di Johann Buddenbrook senior, prima che la catastrofe della modernità travolgesse i valori della famiglia e ogni illusione di onestà. Eppure l'ultimo romanzo 'Fuoco amico' dello scrittore israeliano, che ha appena compiuto i settant'anni, tratta di temi, sentimenti, situazioni, dove dietro un'apparenza di sicurezza e di benessere della coppia protagonista del libro, c'è un enorme spazio di disperazione, di un lutto male elaborato, e traspare la paura dell'avvenire. 'Fuoco amico', grande successo editoriale in Israele (in Italia è in traduzione da Einaudi) è un romanzo scritto in un modo chiaro e lineare, con una ricchezza di linguaggio che lascia di stucco (si va da parole della Bibbia allo slang di Tel Aviv), e che riesce a tenere una tensione narrativa degna di una telenovela. I temi sono la vita coniugale, la morte in guerra, i venti e i fantasmi (in ebraico le due parole sono sinonimo), le origini dell'uomo, il sesso, l'identità: il mondo, insomma, racchiuso in 375 pagine.

La trama è semplice. Un giorno Amotz Yaari, 60enne ingegnere, proprietario di una ditta che progetta ascensori, si congeda all'aeroporto di Tel Aviv da Daniela sua moglie, che va a trovare in Africa Yeremi, marito di sua sorella morta poche settimane prima. Yeremi è un pensionato che lavora agli scavi nella valle del Rift per portare alla luce i resti della scimmia, anello di congiunzione con l'uomo primordiale. Soprattutto, è un uomo che non è riuscito a riprendere la vita normale dopo la morte del figlio Ayal, ucciso per errore dal 'fuoco amico' durante un'azione militare nei Territori. Daniela arriva in Africa durante le festività di Hanukkah, quando a dicembre gli ebrei celebrano per otto giorni il miracolo e la resistenza dei maccabei che nel II secolo a. C. non vollero arrendersi ai costumi 'pagani'. Arrivata in Tanzania, in aeroporto la accoglie Sigin Kwang, una sudanese animista, pagana, collaboratrice di Yeremi. Poche pagine dopo, Yeremi getta nel fuoco i giornali e le candele che Daniela gli ha portato da Israele. Lui con l'ebraismo non vuole avere più niente a che fare. Da lì parte il romanzo che racconta anche una tenera storia d'amore dell'anziano padre di Amotz con un'altrettanto anziana psicanalista di Gerusalemme, e narra con maestria degna di un Balzac la quotidianità della gente comune.

Prima di parlare di questo romanzo, Yehoshua ci tiene a dire che alla Scala, a novembre dell'anno prossimo, verrà presentato il 'Viaggio alla fine del millennio', tratto dal suo omonimo libro. A suonare e cantare sarà l'opera di Tel Aviv. Poi lo scrittore comincia un discorso in cui, come in tutta questa intervista, intreccia il romanzo con l'attualità politica: "La catastrofe dei palestinesi è un problema nostro", dice, "più la loro situazione è grave, peggiore è la nostra. Sono disperato. C'è una sensazione di impasse che si è accentuata, quando, dopo il nostro ritiro da Gaza, come risposta abbiamo ricevuto i missili Qassam e quando Hamas ha preso il potere. A volte, gli scrittori anticipano i tempi. In questo romanzo che cominciai a scrivere nel 2003, ho riversato la mia disperazione: soprattutto nel personaggio di Ayal, il soldato ucciso dal fuoco amico".

Ce lo può raccontare?

"Non voglio svelare la trama ai futuri lettori italiani. Dico solo che Ayal viene ucciso per errore a Tul Karem, in Cisgiordania, mentre è appostato sul tetto di una casa. Muore perché, pur essendo un soldato delle forze di occupazione, vuole dare il seguente messaggio agli abitanti: io vi opprimo, ma non voglio portarvi sporcizia, cerco di rimanere pulito e fedele ai miei principi di uomo dei Lumi".

Il padre, Yeremi, che poi scappa in Africa, indaga sulla morte del figlio...

"Va più volte a Tul Karem in quella casa. E quando finalmente gli raccontano come e perché è stato ucciso il figlio, Yeremi non accusa l'esercito, cerca invece l'empatia dei palestinesi. Ho preso a prestito quest'idea da un racconto della scrittrice Shulamit Har Even (in Italia edita da Giuntina, ndr) in cui un soldato israeliano entra nel 1948 in una casa abbandonata di palestinesi, e porta con sé un libro di Shakespeare. Nel 1967 rintraccia il proprietario in un campo profughi e gli riporta il libro. Ma quello lo caccia via schifato: mi hai preso la casa e ora mi riporti un oggetto inutile".

Nel suo romanzo, un abitante della casa dov'è morto Ayal dice a Yeremi: o ci trasformate in cittadini a pieno diritto o ve ne andate via. In altre parole: non è possibile una occupazione pulita e illuminata?

"Esatto. Qui c'è anche la questione di uno Stato binazionale. Ha mai pensato cosa ci sia dietro ai Qassam sparati da Gaza? È un messaggio: noi non vogliamo un ritiro unilaterale, noi e voi siamo legati gli uni agli altri. Ma poi c'è il fattore tempo".

Ce lo spiega?

"Si tratta dell'idea del tempo che hanno gli arabi. La riassumo così: noi siamo parte di questa terra e abbiamo molta pazienza. Voi siete venuti da fuori, e un giorno ve ne andrete comunque, ecco perché è meglio che nel frattempo stiamo insieme".

Yeremi, protagonista di 'Fuoco amico', cosa pensa di tutto questo?

"Le confesso una cosa. Quando mi sono messo a scrivere questo romanzo avevo molta paura a raccontare il personaggio di Yeremi. Mi sembrava troppo radicale per essere credibile. Va in Africa, dove non ci sono sinagoghe né tracce di scrittori come Kafka o Bruno Schultz. Non piange l'etos dei pionieri perduto. Stacca la spina. Non ne vuol sapere di Israele. È una dimensione nuova e radicale nella cultura israeliana. E ho scoperto, con sorpresa, che con quella dimensione la gente si identifica. È una dimensione che i miei lettori conoscono bene, perché è presente nelle loro vite e nei loro sentimenti".

Yeremi porta il nome del profeta biblico Geremia e rilegge i testi a lui attribuiti dove erano previste la caduta del regno di Giudea e la vittoria di Nabucodonosor e dei babilonesi. A un certo punto lo gettarono in prigione per questa sua predicazione. Era disfattista, traditore, o invece genio di geopolitica, che sapeva che per gli ebrei non c'era posto in Palestina?

"Geremia della Bibbia ha capito bene la geopolitica, ma non è questa la cosa importante. Prima di tutto era il profeta dell'ira. Non diceva mica: non combattete i babilonesi, arrendetevi a loro, per ragioni di realpolitik. No. Aveva una mentalità totalitaria, era convinto di parlare a nome di Dio, contro il proprio popolo che avrebbe appunto tradito il verbo di Dio e di conseguenza avrebbe meritato la più severa delle punizioni: la distruzione. Quando una madre ripete al figlio, stai attento perché verrai investito da una macchina, il bambino finisce per essere investito. In modo analogo le profezie della distruzione del popolo ebraico si sono avverate, c'è stata la Shoah".

Dove vuole arrivare?

"Noi abbiamo interiorizzato il fanatismo e l'odio per noi stessi. Ne abbiamo fatto il fondamento della nostra identità. E anche qui in Israele sento gente che dice: siamo alla vigilia della catastrofe, Israele non sopravvivrà. È come costruire un'identità con dentro la catastrofe".

Perché succede questo?

"Lei ha mai provato a leggere la Bibbia? Nel mio libro io la faccio leggere a Daniela, la cognata di Yeremi, in inglese, non in ebraico, per costringerla ad affrontare il testo per quello che dice e non per come viene elaborato metaforicamente nella nostra tradizione. Daniela scopre come i libri dei profeti siano una scarica di odio contro il proprio popolo. È un'eredità pesante, di cui spesso non ci rendiamo conto".

L'unica persona che pensa positivo nel suo romanzo è la pagana infermiera Sigin Kwang. È sudanese, ha perso l'intera famiglia nella guerra civile. Però è serena. Parla coi venti, alberi, fantasmi. Voleva dire che il paganesimo è fonte di serenità mentre il monoteismo ha sempre un fondamento di fanatismo?

"Sigin Kwang dice a un certo punto di Yeremi: 'È un uomo viziato'. Mi sono sorpreso a leggere queste parole che io stesso ho scritto. Sì, il monoteismo contiene forti elementi di fanatismo: a partire dall'idea di un dio unico e quindi assoluto".

E allora, che fare con Gerusalemme?

"A Gerusalemme gli assoluti, per fortuna, sono tre: l'ebraico, il cristiano e l'islamico. Nella natura stessa di Gerusalemme è insita quindi la soluzione del problema. La retorica di 'Gerusalemme capitale eterna dello Stato d'Israele' è solo retorica, in realtà, questa città ci costringe ad accettare il pluralismo religioso e ad aprirci ad altre identità. Mica possiamo essere la Serbia del Medioriente. Quando incontro italiani o francesi, dico loro: intervenite nei nostri affari, Gerusalemme è anche vostra. E se ai cristiani si potesse aggiungere la Lega araba, i musulmani, si potrebbe aprire un vero processo di pace. Del resto l'Europa grazie a Prodi e all'Italia ha dimostrato in Libano di avere coraggio e immaginazione".

Nei suoi romanzi parla spesso dei confini. Cosa è per lei il confine?

"È il fondamento dell'esistenza. Il confine definisce chi sono. Prima del 1967, sulla carta d'Israele le città della Cisgiordania non erano neanche segnate. Dopo la guerra del 1967 tutto invece è cambiato e oggi nessun bambino in Israele è capace di disegnare la carta geografica del nostro Paese. Sono 40 anni che non sappiamo quali sono i nostri confini. Ma se non sai le dimensioni della tua casa, come fai a difenderla e ad amarla? Per me questa mancanza di identità territoriale è la negazione di ogni idea sionista, è il contrario della normalità auspicata da Herzl".

In 'Fuoco amico' scrive che l'ebraico nella bocca degli arabi è dolce. In 'La sposa liberata', gli arabi sono sinonimo della poesia. In 'L'amante' l'arabo è oggetto del desiderio. Per lei chi sono gli arabi?

"Dei parenti. Sono figli della stessa mia terra. Quando parlano l'ebraico li voglio bene. E spesso li trovo politicamente inconcludenti e quindi irritanti".

Nel romanzo parla molto di vita coniugale.

"È la cosa che più mi interessa nella vita e nei romanzi. Daniela e Amotz non possono vivere l'una separata dall'altro. Lei lo lascia per una settimana, ma mentre lei è in Africa, lui è sempre presente nei suoi pensieri, le sta accanto. Lui la lascia andare sola e le dice: 'Tu vai via per parlare della tua sorella morta, non ti voglio disturbare'. Ma poi la distanza, la lontananza trasformano i due in complici".

Il tempo annulla la distanza?

"Non è il tempo. È che i due fanno cose parallele. È il duetto. Lei torna e gli dice: 'Hai fatto una bella vita'. Lui risponde: 'Ti sei riposata'. Ma lei ribatte: 'No, io ho combattuto contro la morte'. In realtà, in sette giorni, lui ha creato la vita, mentre lei ha scacciato via la morte. Hanno lavorato insieme, nonostante la lontananza, hanno cantato insieme l'inno alla vita".

Il settimanale Il VENERDI'DI REPUBBLICA pubblica nella sezione Esteri a pagina 48 un’intervista a David Grossman di Paola Zanuttini intitolata “Se io, ebreo, mi metto nei panni dei nemici di Israele”.

 

Gerusalemme. Dall’aeroporto di Tel Aviv a Gerusalemme è un interrogatorio senza fine. Ragazzi e ragazze in uniforme, poco più che bambini soldato, chiedono, gentili ma fermi: “Da dove viene? Cosa è venuta a fare?” Alla risposta: “Un’intervista a David Grossman, lo scrittore”, la reazione è unanime. Arretrano con rispetto: “Lo conosco, ha perso un figlio nel Libano”.

 

Alle cinque del pomeriggio, in un ristorante dove basta un tavolo di avventori tardivi a turbare la quiete, David Grossman sfoglia la prima volta l’edizione italiana del suo ultimo libro, Con gli occhi del nemico, quattro saggi che raccontano la pace in un Paese in guerra e tentano un’impresa titanica, riuscita: far entrare i lettori nei sentimenti e nello sguardo dell’altro, anche se quest’altro è il nemico.

 

Con il suo tono basso e compreso, parla dell’indifferenza alla tragedia. Ma il vociare, il tintinnio di stoviglie del tavolo vicino, diventa fuori luogo, irritante. Lui se ne accorge: “Che c’è? Ha l’aria preoccupata. Vuole una fetta di torta?”. Evidentemente, sa entrare nella pelle dell’altro, anche se non è un nemico.

 

Ma la sensibilità e le parole, bellissime, di scrittori come Grossman, Abraham Yehoshua, Amos Oz non sembrano sufficienti per rompere la cortina di assuefazione calata sull’infinito conflitto israelo-palestinese, ormai deviato nella guerra civile palestinese: Hamas contro Fatah. Perché non è più una storia, ma solo un elenco di morti, attacchi e rappresaglie di cui si perde il conto?

 

“Quando viaggio, non c’è Paese in cui, accendendo la tv o sfogliando i giornali, non trovi notizia di questa guerra, ma è una situazione così complicata che è impossibile aspettarsi che qualcuno, da fuori, capisca cosa succede.

 

E poi la gente è stufa di Medioriente, di questa guerra fra due tribù, combattuta con armi sempre più sofisticate, ma primitiva nella sostanza. Il mondo la considera una malattia cronica, ma noi non abbiamo scelta, è la nostra tragedia. E quando la gente è stanca si arrende a pregiudizi e stereotipi, è difficile seguire la complessità se perdi interesse. E il linguaggio dei media si adegua, sempre più povero, rozzo, mistificante”.

 

Provi a riaccendere l’interesse, raccontando con le parole di uno scrittore perché questa guerra tribale è diventata l’ago della bilancia del mondo.

 

“C’è un piccolissimo pezzo di terra, forse più piccolo della Toscana, da cui gli ebrei furono cacciati duemila anni fa. E c’è il sogno, mai spento, di ritornarci. All’inizio del XX secolo quel sogno si è riacceso, gli ebrei hanno cominciato a tornare, comprando terreni dalle grandi famiglie palestinesi. Gli ebrei avevano l’idea che questa fosse una terra di nessuno, dove poter rifondare la loro patria, ma era sbagliata e accese la consapevolezza e le aspirazioni nazionali dei palestinesi. Che prima non c’erano e che noi abbiamo infiammato. Da allora non ci fu giorno senza spargimento di sangue. Ma questo racconto non si può fare, è impossibile sciogliere il passato, fare giustizia di tutte le ingiustizie, dire chi è più giusto e chi lo è meno”.

 

Come si chiude una storia che non si può neanche raccontare?

 

“Quando ci sarà la pace costruiremo un’università sul confine tra Israele e Palestina e gli studiosi siederanno per anni ad analizzare le origini del conflitto, ad attribuire le colpe. E forse, allora un giudizio definitivo sarà irrilevante. Ma oggi dobbiamo guardare solo al futuro, altrimenti è la paralisi. Ogni piccola questione scatena contraddizioni infinite. E la gente diventa sempre più indifferente perché è più consapevole dell’irresolubilità. Anche il carattere religioso preso dal conflitto, e non solo fra i palestinesi, nasce dalla disperazione. Se la gente non vede soluzioni, si affida al cielo. Avviene qui e nel resto del mondo, che si radicalizza sempre più: laici e integralisti, Nord e Sud, estremisti e moderati. Anche Israele è sempre più diviso, forse quel che ci tiene insieme è avere un nemico”.

 

Perché la cultura del nemico non ha avuto lo stesso effetto fra i palestinesi?

 

“Hanno visto che con la moderazione non ottengono nulla. In questo senso, il modo in cui, nel 2005, il governo di Ariel Sharon ha trattato il ritiro da Gaza è stato un grande errore. L’ha gestito unilateralmente, senza coinvolgere il presidente dell’Autorità palestinese, Abu Mazen. Poteva essere il segnale per far trionfare i moderati, invece ha acceso la miccia degli estremisti: oggi è opinione comune che il ritiro sia stato provocato dai missili dei fondamentalisti di Hamas. Non che io apprezzi Hamas, ma se Gaza fosse stata considerata il loro banco di prova per dimostrare al mondo che erano in grado di gestire la complessità, la disoccupazione, la fame, posso garantire che dopo sei mesi la maggioranza degli israeliani, stanca di guerra, sarebbe stata pronta a discutere sulla cessione dei Territori Occupati. Invece hanno continuato a spararci addosso missili. Contro il loro interesse”.

 

Ma qual è l’interesse di Hamas?

 

“Dimostrare che sono gli unici leader, gli unici difensori dei diritti della Palestina. E dimostrare che non sono corrotti come i dirigenti dell’Olp che girano vestiti in Armani e non danno l’idea di vedere la miseria del loro popolo. Mentre Ismail Haniyeh, il leader di Hamas, vive ancora in un campo profughi a Gaza”.

 

Anche il presidente iraniano Ahmadinejad ha una Peugeot di trent’anni e si porta il pranzo da casa. Solo immagine?

 

“Certo che lo è, ma ha il suo peso. E c’è un’altra immagine, allarmante, che si afferma in Israele come in Occidente: quella del popolo palestinese spaccato, diviso. Da una parte Gaza e dall’altra la West Bank. E’ una visione pigra, rassicurante, perché propone un panorama più ordinato, ma temibile, che contrappone i bravi ragazzi moderati delll’Olp ai terroristi di Hamas, fiancheggiatori dell’Iran e Al Qaeda. Tanti caldeggiano questa soluzione, ma non si divide un popolo per uno scontro di leadership. Molti governi, incluso il vostro, si impegnano a sostenere l’Olp, ma è come fare il pieno a una macchina e mandarla in folle. Hamas non mi piace, ma non si conclude nulla se non si tratta con loro”.

 

Anche se non rinasce Israele?

 

“Il dialogo può partire anche senza il riconoscimento. Dobbiamo cogliere tutte le occasioni di negoziato. Qualche settimana fa, il ministro degli Esteri siriano Walid Moallem ha dichiarato in arabo, non in inglese, che il suo Paese è più che disposto ad aprire i negoziati con Israele: consiglierei al nostro premier Ehud Olmert di organizzare direttamente, o con l’aiuto di Romano Prodi, che ha grande credibilità a Damasco, un incontro al confine con il presidente siriano Bashar al-Assad. Ma Olmert è andato da Bush, che gli ha detto di non aver nessun interesse al dialogo con la Siria e lui si è entusiasticamente adeguato”.

 

Cosa si può fare per assecondare questa vaga disponibilità al dialogo?

 

“L’America è sempre più assente, bisogna chiedere aiuto all’Europa. Ho fiducia nella Francia, nella Germania, nonostante i trascorsi storici, e nell’Italia. Perché Prodi non chiude per una settimana in una delle vostre belle ville, una delegazione di giornalisti, agronomi, scrittori, esperti di irrigazione siriani e israeliani? I primi due giorni non farebbero che rinfacciarsi le colpe, ma poi qualcosa succederebbe: i nemici si metterebbero per un attimo a nudo, permettendosi a vicenda di entrare uno nella pelle dell’altro, di intravedere le storie, le ragioni reciproche”.

 

Non ha citato i politici in questo incontro-verità. Come sono le leadership israeliana e palestinese?

 

“Serve la capacità di visione. Nel nostro attuale gruppo dirigente può riemergere l’ex premier Ehud Barak, ma lo stesso Olmert, che è un opportunista, può cogliere le opportunità”.

 

Non è screditato a sufficienza, anche per la gestione della guerra in Libano?

 

“Dopo quel che è successo alla mia famiglia ho un conto aperto con lui, però ha fatto un percorso: dalla destra più estrema è giunto a sostenere cose per cui Yehoshua, Oz e io vent’anni fa eravamo definiti traditori. Questo la dice lunga sul ruolo degli scrittori in Israele”.

 

Lei ha dichiarato che vedrebbe bene Marwan Barghouti alla testa dei palestinesi, se la giustizia israeliana gli condonasse i cinque ergastoli per terrorismo.

 

“Ogni leader israeliano potrebbe essere processato per lo stesso motivo. In questa situazione servono leader che hanno la fiducia dei loro popoli perché hanno combattuto. E Barghouti ce l’ha”.

 

Perché i giornali italiani continuano a definirla uno scrittore pacifista?

 

“E’ un mistero italiano, ho fatto il soldato quattro anni e, da allora, 44 giorni l’anno come riservista, ho combattuto tre guerre, i miei due figli maschi sono stati comandanti carristi e uno, Uri, è stato ucciso. Sono uno strenuo combattente per la pace, ma non un pacifista, perché non sono irresponsabile: come puoi essere pacifista in un’area così violenta?”

 

Un noto scrittore che perde un figlio in guerra acquista più diritto di parola?

 

“Io sono un romanziere che interpreta la realtà. Questo è molto ebraico: per sopravvivere, gli ebrei hanno sempre dovuto decodificare le realtà ostili in cui vivevano. Quattro anni fa, prima che Uri andasse sotto le armi, iniziai un romanzo, che è quasi finito, sull’impatto che ha su una famiglia un figlio in guerra”.

 

Nell’ultimo libro, pubblica un suo discorso del 2004 in cui cita un’intervista a una futura sposa che dichiara di volere tre figli “perché, se uno venisse ucciso in guerra, ce ne restano altri due”. E’ atroce, ma è quello che è successo alla sua famiglia.

 

“E a tantissime altre. Ma io non riesco a dire che ho due figli”.

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