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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Libero Rassegna Stampa
28.06.2007 La crisi demografica dell'Europa e l'avanzata islamica
le opinioni di Walter Laqueur e Martin Amis

Testata:La Repubblica - Libero
Autore: Amy K. Rosenthal - Martin Amis
Titolo: «L'immigrazione è un pericolo per l'Europa - Se in Europa nascono sempre più figli dell´Islam»
Da LIBERO del 28 giugno 2007 (pagina 15):

Walter Laqueur, 86 anni, è uno storico di origine europea dal curriculum impressionante. Ha scritto oltre una ventina di libri sulla storia europea, russa e del Medio Oriente nei secoli XIX e XX, fra cui "La repubblica di Weimar" e "L'età del terrorismo" (entrambi pubblicati da Rizzoli); ha insegnato nelle università di Georgetown, Chicago, Harvard, Johns Hopkins, Brandeis e Tel Aviv. Laqueur, che ha da poco lasciato la direzione dell'International Research Council del Center for Strategic Studies and International Studies di Washington, parla del suo recente libro "The last days of Europe: Epitaph for an Old Continent" (Gli ultimi giorni dell'Europa: epitaffio per un Vecchio Continente), un saggio che va alle radici dello sconvolgimento demografico e culturale che minaccia di cambiare il volto e il carattere stesso dell'Europa come oggi la conosciamo. Che cosa l'ha spinta ascrivere "The last days of Europe"? «[Ride] Beh, l'Europa è stata un campo di studio per tutta la mia vita, di certo almeno a partire dalla Seconda guerra mondiale. E poi avevo alcune speranze riguardo al Vecchio Continente». E cioè? «Vede, molte persone dopo la fine della guerra pensavano che l'Europa non si sarebbe più ripresa; eppure si risollevò e per certi aspetti in modo del tutto miracoloso. Comunque, la ripresa è proseguita fino agli anni '70 ma da allora non c'è stato molto progresso, bensì un lento declino. Io sospetto che la decadenza continuerà, resa precipitosa dal contesto mondiale sempre più irrequieto». Lei è nato in Europa: questo declino le dà fastidio? «Sì, è un peccato perché il contributo europeo alla civiltà occidentale è stato unico». Nel suo libro lei scrive: "Anche se l'Europa realizzasse l'unità e risolvesse le varie crisi interne che la fronteggiano, il suo ruolo di primo piano nella politica mondiale è una cosa del passato". Che cosa la conduce a questa conclusione? «Ci sono molteplici crisi, ma la principale è demografica - il semplice fatto che ci sono sempre meno europei. L'Europa, in seguito all'immigrazione, è diventata in qualche modo meno europea. Ora, l'immigrazione non è sempre una cosa negativa, salvo che nel Vecchio Continente ha creato finora molti più problemi che benefici. Si aggiunga a ciò la crisi del Welfare State, sempre più difficile da mantenere, e si avrà un quadro d'insieme - per usare un eufemismo - tutt'altro che ottimistico». Perché secondo lei l'assimilazione non ha funzionato qui come negli Stati Uniti? «Questo ha a che vedere con le diverse tradizioni. L'America, a differenza dell'Europa, è un Paese di immigranti e ha accolto con favore l'immigrazione di massa. L'Europa, al contrario, è culturalmente omogenea e non è attrezzata per accogliere milioni di stranieri. Inoltre, le persone che scelsero gli Usa come meta erano in qualche modo molto più intraprendenti e pronte ad assumersi dei rischi. Hanno accettato i valori e il modo di vivere americano, a differenza di chi oggi viene in Europa: nella maggior parte dei casi, gli immigrati non hanno accettato i valori dei Paesi in cui si sono trovati a vivere. Molti dei nuovi arrivati non sono interessati a contribuire al progresso dell'Europa , ma al contrario vogliono solo sfruttare quanto essa ha da offrire come lavoro e servizi sociali, o alloggi a prezzi controllati dallo Stato. È certo un'esagerazione perché non tutti gli immigrati sono così, tuttavia questo sembra essere l'andamento generale». È colpa degli immigrati o degli Stati europei? Cioè: l'integrazione non è un problema a due? «Questo è ciò che gli europei non si sono mai chiesti. L'immigrazione è iniziata perché negli anni '60 e '70 le industrie e i servizi avevano bisogno di manodopera. All'inizio, comunque, si pensava che questi stranieri sarebbero prima o poi tornati ai loro Paesi di origine. Cosa che non fecero. Così si creò una situazione imprevista sia dai governi sia dalla società». Nel suo libro lei mette in luce le significative differenze fra le diverse comunità musulmane d'Europa. «Tanto per cominciare, non parlano la stessa lingua. Ciò significa che, anche se vanno tutti in moschea, in Gran Bretagna i pachistani ascoltano gli imam salmodiare in urdu mentre in Germania gli islamici usano il turco o il curdo. E poi ci sono scontri intestini nelle varie comunità. Ad esempio in Olanda la maggioranza dei musulmani è o marocchina o turca, sempre in lotta di fra loro. In Francia si dividono invece fra marocchini e algerini. Non esiste un fronte musulmano unitario. L'unica cosa che hanno in comune - religione a parte - sono le loro richieste nei confronti delle autorità». Lei scrive che "per comprendere i musulmani in Europa uno studio sulla delinquenza giovanile spiega più del Corano". «L'unità sociale di base che un tempo era la famiglia ora è diventata la gang di strada. E anche questo è un fenomeno che non è stato studiato a sufficienza. Parlando di moschee, alcuni predicatori radicali hanno sì una certa autorità, ma la maggior parte non ne ha. C'è la tendenza a sovrastimare la religione come fattore di coesione, ma essa è solo un elemento fra i tanti. Come mi ha raccontato un importante predicatore islamico di Berlino, "la strada per la moschea è lunga e lungo la via si perde metà della gente"». Lei ha spesso dichiarato che il termine "Eurabia" è fuorviante. Perché? «Per la semplice ragione che la maggior parte dei musulmani in Gran Bretagna e in Germania non è araba. Gli arabi cercano di imporsi come blocco monolitico, cosa che non sono. Sinceramente, il termine Eurabia riflette il fatto che l'europeo medio sa ben poco di musulmani, islam o arabi». Ma gli Stati europei non concedono un po' troppo alle loro minoranze islamiche? «Dipende da cosa conta di più: interesse personale o nazionale. I politici europei sono assediati: da una parte c'è il crescente risentimento dei cittadini contro il tentativo di imporre valori estranei, dall'altro c'è il fatto che gli immigrati musulmani sono diventati un importante fattore politico, dato il loro alto tasso di riproduzione». Nel suo libro, lei delinea molti fatti specifici sull'Italia. Che cosa hanno da temere maggiormente gli italiani oggi? «Ci sono molte aspetti specifici. Il primo è che il tasso di crescita degli italiani è uno dei più bassi d'Europa. Si può certo ribattere che vivere con meno abitanti porta anche molti vantaggi. D'altro canto, gli italiani dovranno farsi carico di una popolazione di pensionati sempre crescente e nuovi contribuenti del welfare sarebbero benvenuti. La seconda questione è di natura culturale e qui entra in gioco l'immigrazione illegale. La pressione dei clandestini dal Nordafrica è tale che la società italiana e i suoi governanti devono chiedersi se vogliono davvero questi immigrati. Il paradosso è che l'Italia avrà bisogno di queste persone non solo per la sua economia ma anche per mantenere lo Stato Sociale. Ma la questione è: queste masse di immigrati senza istruzione provenienti dalle zone arretrate dell'Africa saranno in grado di dare un contributo all'economia della Penisola?». Che consiglio darebbe ai politici europei? «Direi loro di pensare al dopo e di non perdersi in questioni secondarie come la Costituzione della Ue. Inoltre dovrebbero davvero fare più attenzione ai flussi demografici in corso senza aver paura di essere accusati di razzismo. Lo studio dei dati della popolazione è stato scansato troppo a lungo e ora deve diventare la priorità assoluta». Da più parti arrivano professioni di fede multiculturalista. Ma questo concetto si può applicare al Vecchio Continente? «Prendiamo l'Italia, ad esempio. Che significato potranno mai avere il Rinascimento o il Risorgimento per qualcuno che viene da una cultura del tutto diversa? Io penso che se gli italiani vogliono preservare la loro identità nazionale o anche europea devono iniziare a prendere delle decisioni forti e difficili». CHI È LA VITA Walter Laqueur è nato il 26 maggio 1912 a Breslavia, oggi in Polonia. Nel 1938 si trasferisce in Palestina, allora mandato Britannico. Nel '53 lascia il Paese, diventato Israele, per andare in Gran Breatgna e poi negli Usa I LIBRI Ha diretto l'Istituto di storia contemporanea di Londra e la "Wiener Library". Ha fondato il "Journal of Contemporary History", "Survey" e i "Washington Papers". È stato visiting professor di storia ad Harvard, Chicago e Tel Aviv. I suoi libri tradotti In italiano sono: "La repubblica di Weimar" e "L'età del terrorismo" (Rizzoli). "The Last Days of Europe: Epitaph for an Old Continent" è uscito quest'anno presso Thomas Dunne Books.

Da La REPUBBLICA (pagina 1):

Il recente America Alone: The End of the World As We Know It, dello scrittore canadese Mark Steyn, si apre con una riflessione su un successo cinematografico di alcuni anni fa, Il mio grosso grasso matrimonio greco: «Molti di noi hanno visto [parecchie] commedie sentimentali sulle minoranze etniche… in cui il classico tizio compassato, dall´aria di bravo ragazzo americano, comincia a uscire con una fanciulla proveniente da una numerosa, amorevole, prolifica famiglia mediterranea, benedetta da una tale abbondanza di sorelle, cugini e zii che a malapena si riesce a entrare nella stanza. Si tratta, in realtà, del capovolgimento della verità. Il tasso di fertilità della Grecia non raggiunge 1,3 figli per coppia, ciò che i demografi definiscono il punto "di non ritorno" dal quale nessuna società si è mai ripresa. E la fertilità della Grecia è quella messa meglio in tutta l´Europa mediterranea…».
La «grande famiglia italiana», per esempio, «con il papà che mesce il vino e la mamma che serve la pasta» a una tavolata che pare estendersi all´infinito, presto non sarà che un ricordo. Nel 2050, secondo questa inquietante previsione, il sessanta per cento degli italiani non avrà più zii, zie, fratelli, sorelle, cugini. Con la sola eccezione degli Stati Uniti, le nazioni del Primo mondo sono in declino demografico. Nessuno dei paesi europei sta procreando al "tasso di sostituzione" di 2,1 figli per donna (la popolazione della Spagna, il cui declino è ancor più rapido di quello dell´Italia, si dimezzerà ogni trentacinque anni). Questo potrebbe sembrare l´ovvio destino delle società avanzate su un pianeta stressato: possiamo aspettarci crisi dovute a squilibri generazionali, sistemi pensionistici insostenibili, eccetera, ma è il genere di futuro previsto dai più sognatori tra i nostri verdi ed econauti.
Un´Europa spopolata e semplificata sarebbe difendibile in un mondo privo di ostilità e predatori.
Ma non è questo il nostro caso. In Somalia l´indice di natalità è del 6,76, in Afghanistan del 6,69, nello Yemen del 6,58. «Avete notato cos´hanno in comune questi paesi?» scrive Steyn. L´indice di natalità dell´Albania è un terzo di quello dell´Afghanistan, ma è il più alto d´Europa. «E perché mai? Perché è l´unico paese a maggioranza musulmana. Per il momento».
Dopo Irlanda, Danimarca, Finlandia e Olanda, la Francia è la nazione dell´Europa occidentale con il più elevato indice di natalità, 1,89. Ma «dai dati si evince che un terzo dei nuovi nati sono musulmani». Nel frattempo, «basta dare un´occhiata alla tendenza dominante in Europa, dove il numero di musulmani cresce quanto quello delle zanzare. Le donne occidentali dell´Unione Europea generano in media 1,4 figli. Le donne musulmane degli stessi paesi ne procreano 3,5». A dirlo non è Mark Steyn, né, tanto per fare un esempio, Jean Marie Le Pen, ma, dalla Norvegia, il mullah Krekar. Per citare il colonnello Gheddafi: «Molti segni mostrano che Allah assicurerà all´Islam la vittoria in Europa – senza spade, senza fucili, senza conquista. I cinquanta milioni di musulmani che la abitano trasformeranno l´Europa in un continente musulmano nel giro di qualche decennio».
Confessare la paura di un sorpasso demografico ci fa venire inevitabilmente in mente eugenetica, sterilizzazione forzata e affini; e molti buoni occidentali moderni, leggendo Steyn, si sentiranno invadere dal sacro fuoco della bontà che solitamente precede il grido di "razzista!". Come però, pazientemente, ribadisce Mark Steyn, «non è una questione di razza, bensì di cultura». Se tutti i cittadini di una democrazia liberale credono nella democrazia liberale, non ha alcuna importanza il colore della loro pelle; ma quando alcuni di loro credono nella sharia, nel califfato e via discorrendo, allora è chiaro che i numeri acquistano un´importanza cruciale. Più avanti nel libro, Steyn esprime il medesimo concetto ma dalla prospettiva opposta. Un ex fautore della supremazia della razza bianca ha cambiato il proprio nome da David Myatt ad Abdul-Aziz ibn Myatt; e adesso Abdul-Aziz è un fanatico sostenitore della jihad. «Molti dei suoi compagni nella rivendicazione della "supremazia della razza bianca"», scrive Steyn, «scopriranno che ad attrarli non è tanto la "razza bianca", quanto la "supremazia"». Il fondamentalismo islamico, naturalmente, attirerà i violenti, gli squilibrati e – inutile dirlo – gli antisemiti, in un´infinita Notte di Valpurga dell´irrazionalità.
Negli Stati Uniti, grazie al contributo della minoranza ispanica, l´indice di natalità è di 2,1. Osservando più attentamente la situazione, scopriremo che di questo dobbiamo ringraziare l´Alabama e il Wyoming, non la California e il Massachusetts; gli stati repubblicani sono del dodici per cento più fertili di quelli a maggioranza democratica. Secondo Mark Steyn, l´"agenda progressista", la cultura dei diritti e della solidarietà, del femminismo pragmatico, della "scelta", è «un binario, letteralmente, morto». L´implicito corollario, quindi, è che adesso le società hanno bisogno di essere più reazionarie: praticanti, maggioritarie, prolifiche e pre-femministe. America Alone è un libro piuttosto breve, e Mark Steyn non si diffonde sulle sue numerose e fosche implicazioni – compreso l´inatteso infiacchirsi dell´istinto riproduttivo umano. Maestro nel dire l´indicibile, Mark Steyn non riesce tuttavia a porre la domanda fondamentale: la cultura della scelta sarà costretta a cedere il passo alla cultura della vita?
In sé e per sé profondamente retrogrado, il fondamentalismo islamico potrebbe costringere tutti noi a diventare retrogradi. Già che ci siamo, potremmo seguire l´esempio del comunismo rivoluzionario: dopo l´allarmante censimento del 1936, Stalin abbandonò immediatamente il programma di riforme sociali; tra le nuove misure adottate, ci furono la massiccia creazione di asili, l´introduzione di medaglie alla fecondità, la legalizzazione della successione ereditaria, la solenne celebrazione del matrimonio, l´incremento delle lungaggini e delle pastoie burocratiche per l´ottenimento del divorzio, il ritorno all´aborto come reato. Per un po´ funzionò. Nel ventunesimo secolo, privata della vigilanza totalitaria, la Russia sta perdendo russi al ritmo di quasi un milione all´anno.
L´"assoluto" con cui abbiamo a che fare in questo caso è il fondamentalismo islamico: un´ideologia all´interno di una religione, un sistema di credenze all´interno di un sistema di credenze, un´illusione all´interno di un´illusione. Il fondamentalismo islamico offre ai propri seguaci le meravigliose attrattive di una combinazione di violenza e rettitudine – oltre alla promessa della vita eterna.
L´Islam, apparso mezzo millennio dopo il Cristianesimo, è il più giovane dei principali monoteismi. E se l´Islam sta seguendo le stesse tappe di sviluppo, dovrebbe essere prossimo alle proprie guerre di religione, cui seguirà, a tempo debito, la propria versione della Riforma. Dovremmo quindi aspettarci di assistere all´Illuminismo islamico intorno al 2200. Questo processo avrà naturalmente luogo su un pianeta traboccante di armamenti moderni. Certe volte non abbiamo forse la sensazione che la crisi odierna non sia altro che una crisi di armamenti?
Gli sconvolgimenti del mondo islamico provocheranno molte perdite di vite umane, ma questo non preoccupa il vero fondamentalista che, in ogni caso, vuole che la freccia del tempo sia puntata nell´altra direzione. Perché cos´è la vita, in fondo, se non "la feccia dell´esistenza"? Queste parole sono del massimo divulgatore del movimento, l´ayatollah Khomeini, il quale predicava che l´arco della vita umana acquista significato solo al termine del suo viaggio terreno.
La paura della morte, che rende necessaria la negazione della morte, è la causa prima e la pietra angolare della fede religiosa. È una specie di disturbo infantile, che la nostra specie, crescendo, deve faticosamente lasciarsi alle spalle. Ciò fu compreso con grande chiarezza da Freud – e dal poeta inglese Philip Larkin, che racchiuse questa intuizione con concisione quasi sprezzante in una poesia del 1977, Aubade ("Ode all´alba"). Il poeta, al risveglio, contempla «la morte che non ha mai posa, oggi di un giorno più vicina»: «Questa è una particolare forma di paura / Che nessun trucco può dissipare. / Ci provò la religione, creando il suo vasto / broccato musicale, ormai divorato dalle tarme, / per fingere che non moriremo mai…»
Ma l´incantesimo è rotto. Non possiamo, per così dire, convincerci con l´ipnosi a tornare al patriarcato e alla devozione; non ci resta altra scelta che di affidarci a due notevoli risorse come il buonsenso e la ragione. La "fede" è stata recentemente definita come "il desiderio di ottenere l´approvazione degli esseri sovrannaturali". La liquidiamo per ragioni d´ordine intellettuale, etico e, non ultimo, spirituale. Siamo d´accordo con Joseph Conrad: «Il mondo vivente contiene abbastanza meraviglie e misteri così com´è: meraviglie e misteri che agiscono tanto inesplicabilmente sulle nostre emozioni e sulla nostra intelligenza da giustificare quasi chi concepisce la vita come uno stato d´incanto. No, è troppo salda la mia coscienza del meraviglioso perch´io sia mai ammaliato dal puro Soprannaturale, che (consideratelo come volete) è pur sempre un prodotto affatturato, il parto di menti insensibili all´intima delicatezza della nostra relazione con la moltitudine infinita di ciò che è morto e di ciò che vive; una profanazione delle nostre memorie più tenere, un oltraggio alla nostra dignità. Quale che sia la mia naturale modestia, non scenderà al punto di cercare aiuti alla mia immaginazione in seno alle vane fantasie proprie d´ogni età e che bastano, di per se stesse, a riempire di tristezza indicibile tutti coloro che amano l´umanità».
Traduzione di Andrea Silvestri

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