Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Tre cronache da Gaza Davide Frattini, Francesca Paci, Gian Micalessin
Testata:Corriewre della Sera-La Stampa-Il Giornale Autore: Davide Frattini-Francesca Paci-Gian Micalessin Titolo: «Hamas cerca nelle ville di gaza le prove del di Fatah-Tra le macerie di Gaza, < i corrotti sono fuggiti>- "Nel ventre di Gaza dove regna già l'ordine islamico"»
Sulla situazione a Gaza pubblichiamo tre articoli. Il primo, di Davide Frattini, dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/06/2007, dal titolo "Hamas cerca nelle ville di gaza le prove del
di Fatah":
DAL NOSTRO INVIATO GAZA — La camera da letto di Abu Mazen è in legno scuro. La foto della moglie guarda il muro, i miliziani integralisti hanno ordinato di voltarla per non sbirciare i capelli di una donna senza velo. Il televisore, schermo gigante, trasmette le prediche islamiche del canale satellitare Al Fajr: «l'alba » del dominio di Hamas sulla Striscia di Gaza dovrebbe sorgere anche da queste stanze vuote. La villa non è stata saccheggiata. I ritratti del presidente sono appesi intatti alle pareti, un paio di ciabatte da donna sta in un angolo vicino al comodino, in soggiorno non si muove più il tapis roulant che il raìs usava per irrobustire il cuore stanco. Un soldato di Hamas gioca con le poltrone del salotto, si siede e tira fuori il poggiapiedi. «Mai provato niente di così comodo». Sembrano le sale di un museo, dedicato a un potere che non c'è più. I palestinesi entrano e scattano foto ricordo con il telefonino. Un giornalista locale commenta «il mio editoriale comincerà: presidente sono stato nel tuo bagno». Lo dice e non sorride, la sua è un'ironia disperata: «La nostra causa è finita». Anche per i miliziani, entrare nelle camere del leader è quasi un sacrilegio. Solo sulle palme del giardino, hanno appeso i loro simboli, le foto dei caduti delle Brigate Ezzedin Al Qassam. I dirigenti del movimento ripetono di rispettare l'autorità del raìs. È per questo che la residenza a Rimal, uno dei pochi quartieri eleganti della città, non è stata toccata. A poche centinaia di metri, un altro simbolo della forza del Fatah a Gaza è ridotto a una carcassa. Dalla villa di Mohammed Dahlan sono state divelte anche le piastrelle del pavimento. Una casa di spettri. «Fantasmi», così i capi del partito laico fuggiti verso la Cisgiordania vengono bollati da chi è rimasto. «La responsabilità di questa disfatta ricade su Dahlan e il suo gruppo », dice Abu Walid. Con pochi altri, sta cercando di dimostrare che il Fatah lotta ancora. Non per le strade con le armi, come fazione politica. Accusa l'ex uomo forte della Striscia di «aver dirottato la strategia dell'organizzazione ». Chiede un'inchiesta del comitato centrale. E punizioni. Le Brigate Ezzedin Al Qassam controllano tutte le fortezze militari, quelle che hanno conquistato in sei giorni di scontri e 110 morti. «Qui siamo entrati senza sparare un colpo — racconta un miliziano —. I soldati della Guardia presidenziale hanno distrutto gli schedari e sono scappati». In uno stanzone sono ammucchiate le divise scure, nuove, ancora avvolte nei sacchi di plastica, per terra i distintivi della Forza 17. Fuggiti in fretta, lasciandosi dietro il pane da intingere nello hummus. «Hamas non voleva prendere il controllo di tutta la Striscia», assicura uno dei consiglieri di Ismail Haniyeh, il premier deposto da Abu Mazen. È un moderato, chiede di restare anonimo e prova a convincere che non esisteva un piano per un golpe. «L'ala militare ha iniziato un'offensiva contro le squadre di Dahlan. La struttura della sicurezza è caduta come un castello di carte, un pezzo dopo l'altro. Nessuno se l'aspettava». Adesso — ammette — non sappiamo come andare avanti. Gaza è isolata dal mondo, il tunnel che ha sempre fatto da valico verso Israele viene smontato dai ragazzini un tubo verde alla volta, metallo da rivendere al mercato per pochi dollari. Più che una galleria sembra ormai un canale dalle pareti di cemento, dove il sole picchia sui membri del Fatah che da giorni si ammassano ai cancelli per cercare rifugio dall'altra parte. I fondamentalisti li accusano di essere collaborazionisti, alleati degli israeliani. Cercano le prove del tradimento, nelle stanze annerite della Sicurezza preventiva, tra i documenti sparsi per terra: elenchi di pagamenti e soldi ricevuti, schede informative su militanti da controllare nei campi rifugiati. Un giovane, la barba lunga degli islamici, raccoglie i fogli, legge, scarta quelli non interessanti, cataloga le informazioni. Un altro, gli occhiali spessi degli spioni, apre gli schedari e appallottola ricevute e fotocopie, le getta via. «Ci sono ancora informazioni che vanno distrutte». Non spiega per chi stia lavorando. Ammette solo che una volta faceva parte dei servizi segreti. «Hamas dice di aver recuperato i computer, ma i dati erano stati cancellati. Diciassette tecnici ci hanno lavorato per tre giorni, prima che la base venisse conquistata». C'è stata battaglia, lo raccontano le carcasse nel piazzale e i buchi nei palazzi attorno alla caserma. Della fortezza è rimasto lo scheletro. Le uniche porte ancora sui cardini sono quelle di ferro, nelle celle sotterranee. Qui undici anni fa sono stati incarcerati i leader di Hamas, quando Yasser Arafat ordinò un'offensiva contro i fondamentalisti e Mohammed Dahlan eseguì. Per umiliarli tagliò loro la barba, per piegarli — dicono — li fece torturare. Nelle strade, i volontari del movimento fondamentalista sostituiscono i vigili. Berretto verde e panciotto fluorescente, si sbracciano e litigano con i guidatori. «La gente esce meno di casa — commenta un passante — e sembra rispettare l'ordine non perché ci creda ma perché ha paura dei miliziani». Hamas vuole dimostrare che sotto il suo controllo Gaza è un posto sicuro. Le guardie davanti alla villa di Arafat cercano di fermare i visitatori. Il Fatah ha accusato gli integralisti di averla saccheggiata, di aver rubato la medaglia d'oro del Nobel per la pace. Le sentinelle mostrano che le porte sono chiuse, «non è stato portato via niente», assicurano. Dentro non è possibile vedere. Il raìs che ha dominato la storia della Palestina per quarant'anni se n'è andato tre anni fa in un feretro trainato da sei cavalli neri. Nel giardino della residenza a Gaza, resta un cavallo a dondolo rosso.
Il secondo di Francesca Paci, dalla STAMPA, apag.14, dal titolo " Tra le macerie di Gaza, < i corrotti sono fuggiti>, un titolo infelice, come capita sovente al quotidiano torinese, e non bastano le virgolette per capire da che parte sta chi le ha messe.
INVIATA A GAZA
La voce del muezzin che richiama i musulmani alla preghiera si leva potente in una Gaza insolitamente silenziosa. Una coppia di ronzini trascina un carretto di cocomeri lungo Wahda street, le berline scure con i vetri fumé sfrecciano sul lungomare sotto le insegne spente del Beach Hotel, il Lido, l'Andalous, quattro ragazzini scalzi giocano a pallone su uno spiazzale sterrato tappezzato di manifesti con le foto dei martiri della jihad, gli shahid. La guerra civile tra le milizie di Hamas e Fatah è finita, i giorni dell'odio sono alle spalle. Niente più camionette militari e posti di blocco improvvistati, niente spari, gli uomini della Tanfshea, la guardia esecutiva di Hamas, piantonano il palazzo presidenziale della Muntada espugnato tre giorni fa come se fosse sempre stato il loro posto, fieri nelle mimetiche blu. «Gaza è tornata alla normalità», ripete il tassista Raed. Ma guida spedito tra le strade deserte di una città abituata a fare i conti con una densità di 38 mila abitanti per chilometro quadrato. La gente aspetta in casa che spariscano i fantasmi. Oggi sono dovunque. Tra gli stendardi verdi dell'islam che sventolano in cima ai palazzi al posto della bandiera palestinese, nella chiesa cristiana della Sorelle del Rosario devastata lunedì dalla furia islamista, in fondo al tunnel cieco del valico di Eretz dove da sabato sera, in un fetore nauseabondo, centinaia di uomini e donne aspettano che l'esercito israeliano apra la frontiera per scappare in Cisgiordania. Affiliati di Fatah in fuga dalla resa dei conti, ma anche Bashir Atallah Yaghi e sua moglie Mariam, 75 anni entrambi, seduti in terra tra pacchetti di sigarette Jamal e rifiuti organici con il permesso quindicinale per la chemioterapia della donna all'ospedale di Tel Aviv ridotto a carta straccia. Sono le due facce di Gaza. Quella disperata dei profughi per scelta o per necessità e l'altra amaramente sorridente dei vincitori. Lo scheletro della villa di Mohammed Dahlan, l'ex responsabile della sicurezza locale di Fatah, il nemico numero uno di Hamas, amato e odiato dai connazionali, è diventato un luogo di pellegrinaggio. Accanto al cancello divelto una scritta annuncia: «Questa casa verrà trasformata in una moschea e intitolata al martire Abu Mussab Abu Kharesh». Dentro, tra le macerie del colonnato dell'atrio, le tegole Cotto Primo made in Italy, le maioliche verdi della jacuzzi, una donna velata dalla testa ai piedi raccoglie una lamiera e se ne va soddisfatta. Non c'è più niente da recuperare, come nella vicina caserma Saraya, il quartier generale delle forze di sicurezza di Fatah. Eppure, da dietro il banco di pomodori e patate Mustafà spiega che «ogni giorno qualcuno passa a frugare e porta via qualcosa». Un pezzo di vetro smerigliato, la zampa di una sedia, un simbolo. «Dopo il bagno di sangue che ha voluto Hamas il dialogo politico è chiuso», afferma Zakaria Alagha, nominato ieri sera dal presidente Abu Mazen nuovo responsabile di Fatah nella Striscia. L'esperienza di governo comune è conclusa, ma i palestinesi restano lo stesso popolo: «Dobbiamo lavorare insieme a ricostruire la quotidianeità della gente». La guardia del corpo a bordo di un Honda Civic amaranto piantona il palazzo dove abita Alagha. Paura? «I nostri uomini sono stati uccisi, prelevati casa per casa, sequestrati, le loro famiglie intimidite. Ma io rimango qui, anche solo simbolicamente». A un paio d'isolati di distanza, piazza Abu Mazen, quattro ragazzi della Tanfeshea sorvegliano la residenza del presidente, risparmiata dalle razzie a differenza di quella di Dahlan e del leader illustre Arafat. Anche le buganville sono al loro posto, la scatola vuota dell'unità nazionale è salva. L'esercito invisibile di quelli che sono rimasti a Gaza per quanto sconfitti, i fedelissimi di Abu Mazen, con la testa e il cuore alla Muqata di Ramallah ma le radici saldamente qui, si cura nei corridoi dell'ospedale Shifa, 360 posti letto regolari e altrettanti d'emergenza esauriti da una settimana. Ieri da Eretz sono arrivati dodici camion di antibiotici, ma le scorte di sangue scarseggiano. Khemal, il braccio ingessato al collo e gli occhi scavati, faceva parte della sicurezza preventiva, la forza di Fatah sbaragliata da Hamas in poche ore: «Tutti adesso si chiedono perchè non abbiamo combattuto, ma che dovevamo fare? I nostri generali sono scappati dopo il primo giorno». E lui, uno stipendio da 2000 schekel al mese, circa 300 dollari, congelato da un anno e mezzo, demotivato, un soldato semplice senza più comandante, si è arreso senza resistenza: «Ho fatto dodici ore di carcere e poi i miliziani mi hanno lasciato libero». Gli uomini di Hamas, giovanissimi, scherzano sul piazzale davanti all'ospedale. «Hanno occupato tutto, anche qui», dice il dottor Abdullah guardando serio fuori dalla finestra danneggiata dai proiettili. «Almeno ci hanno riportato l'ordine» interviene il suo infermiere, Sami. Sono così oggi a Gaza vincitori e vinti, complementari, nessuno davvero trionfante. Si dorme la notte, si può uscire in strada senza paura dei cecchini, si mangia, sugli scaffali dell'alimentari Hasania, all'angolo con Omar Muktar non manca niente, biscotti, cioccolata, birra Beck analcolica, Coca Cola. Ma in giro per le strade libere dalle trincee ci sono solamente fantasmi.
Il terzo è di Gian MIcalessin sul GIORNALE a pag.1-13 dal titolo " Nel ventre di Gaza dove regna già l'ordine islamico", un buon titolo che rende l'idea della normalizzazione.
Gaza - Cigolio di cancello, scintillio rosso che si spegne, sbarre d’acciaio che inghiottono tutti noi. La bionda soldatessa agita la mano: «Salutatemi l’inferno». Il drappello di giornalisti lascia Israele, si infila nel labirinto di cancelli, reti e cemento. Il tunnel per Gaza è appena oltre. L’ultimo passaggio poi, d’improvviso, tre volti anneriti e sbigottiti, tre mitra spianati e caricati. «Che c... ci fate qui?». La pattuglia israeliana già si immagina il nemico alle spalle, abbandona i sacchetti di sabbia, salta in piedi, affronta, armi alla mano, gli sperduti intrusi. «Qui si spara, chi vimandaper questa strada? ». Lì, oltre i sacchetti di sabbia e le sbarre di ferro occhieggia il tunnel. Trecento metri di buio, fetore e disperazione. Il sergente urla alla radio, ci spinge fuori. «Se proprio volete passare, costeggiatelo. E occhi aperti ».
Fuori è il bianco abbacinante del mezzogiorno, il sole a picco su brandelli di cemento, tappeti di vetro, bossoli consumati. Duecento metri di galleria, vociare sommesso dietro un muro grigio. Poi una voragine, una volta aperta, un tappeto esangue d’umanità abbandonata. Stanchezza avvilita, reclinata sul letto d’escrementi, coperte accartocciate, valigie accatastate. Chiamano, afferrano, tirano, invocano: «Signore, giornalisti, aiutateci, scrivete che siamo qui, non abbandonateci ». Sono gli avanzi della vecchia nomenklatura. I più inutili. Gli ex armigeri di Fatah, gli ex duri della Sicurezza Preventiva. I più umili. Quelli senza passaggio e salvezza garantita. Gendarmi fuori tempo, condannati a marcire nel tanfo, a elemosinare compassione dal nemico. L’alternativa è una vita d’angoscia in una nuova Gaza senza troppa pietà per i loro irredimibili peccati. Gli uomini nascondono il volto, fissano il muro sbrecciato. Le donne interpretano il dolore. Una si solleva, avanza a quattro zampe. Una iena ferita abbrutita, spossata, scorata. «I capi ci hanno abbandonato, manoi non marciremo tra il fuoco di Hamas e quello d’Israele, li inseguiremo fino a Ramallah, racconteremo la loro infamia».
Dietro i persecutori dei relitti si dimena il girone dell’estrema infamia. Sono i reietti tra i reietti. I «collaboratori », le spie d’Israele o, peggio ancora, i contrabbandieri dei vizi, i venditori di alcol, donne e sesso. Sono fuggiti dalle galere sventrate, dalle celle liberate. Reietti senza posto nell’Hamastan duraturo, trascinati dalla risacca a questo angiporto dello Stige. Ieri sono venuti a cercarli. Si è sparato. Gli israeliani hanno risposto dal tunnel. Tra la sabbia sono rimasti i cadaveri di due vendicatori. Stamattina è successo di nuovo. Tre carri Merkava israeliani sono avanzati 300 metri dentro Gaza. Bloccano i giustizieri, chiudono reietti e derelitti in una morsa di cemento e acciaio. In mezzo ci siamo anche noi. Circondati dal branco disperato, inquadrati dal cannone da 105mm, scacciati dal soldato in torretta. L’urlo è ancora lo stesso. «Indietro, indietro. Chi c... vi manda qui?». Mezz’ora e la torretta gira, il tank fa largo.
Il taxi precipita nel ventre di Gaza, tra le rovine di Beit Hanun e la strada per Jabalya, nel consueto, desolato, intrico di cemento marcescente. La città è la stessa, mai volti incappucciati, i mitra spianati sono scomparsi. Agli incroci non più posti di blocco armati, ma studenti barbuti, cappellini verde Islam, giacche canarino. Regolano il traffico, impersonificano il nuovo ordine di Hamas. Il vero simbolo della vittoria è in via Jamat El Dowal. La polizia in divisa blu ha già assunto la barba d’ordinanza. Gira appollaiata sui furgoni razziati dentro la sede della Amnel Wikai, della famigerata Sicurezza Preventiva. «Con il sangue dei martiri e dei feriti - avvisa la scritta - abbiamo espugnato il covo degli scorpioni e dei serpenti». Ti aprono il cancello, ti scortano dentro. «Lì - indica il poliziotto barbuto - interrogavano e torturavano i nostri». Si ricorda che indossa la divisa, si corregge. «Lì torturavano i prigionieri di Hamas».
Quel che più colpisce sono le mura. Fuori dagli uffici e dai garage razziati le facciate sono linde, pulite, tinteggiate. Non con la brode di guerra, ma frontali appena macchiati da raffiche e rare vampate. Troppo poco per una battaglia, abbastanza per una resa concordata. Abdul, che in questa via ci abita, te lo racconta a denti stretti. «Macché vittoria, dentro saranno stati qualche decina e non hanno sparatoun colpo». Risali a nordovest, lì i palazzi di Al Maqussi Tower raccontano un’altra storia.Mura annerite, portoni sfondati, fondamenta sopravvissute a cento chili di plastico. Dieci piani di razzie e di incendi. Mamma Suad e Shadi, il figlio ventiduenne, s’arrampicano tra le scale di quel verminaio di cemento, trascinano acqua e candele per la loro tana di cenere e detriti. Lei scuote la testa. Lui la segue. «Mio padre era nella sicurezza di Fatah,ma è morto cinque anni fa... Loro ripetevano: pagate per i suoi peccati... Hanno preso i mobili, hanno bruciato tutto». Ti porta giù, all’entrata. «A loro è andata peggio». Loro erano sette. Sono una macchia di crosta vermiglia. Sette fedelissimi di Mahder Miktat, il capo della sicurezza fuggito vivo da quest’inferno. Loro no. Shadi mostra il muro. Naim, il vecchio portinaio, raccoglie un bossolo. Il dito disegna sette sagome a terra, sette crani squassati, sette rivoli di sangue fino a quella macchia incrostata. Shaim allarga le braccia, risale le scale. «Per loro è finita, per noi deve appena incominciare ».
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