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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Europa - Avvenire - Il Messaggero - Il Manifesto Rassegna Stampa
13.06.2007 Cronache e analisi scorrette
sulla guerra civile interpalestinese

Testata:La Stampa - Europa - Avvenire - Il Messaggero - Il Manifesto
Autore: Igor Man - Janiki Cingoli - Barbara Uglietti - Eric Salerno - Michele Giorgio
Titolo: «La follia fratricida di Gaza - Non stiamo a guardare - Gaza è ormai sull'orlo della guerra civile - Gaza, è guerra civile tra i palestinesi -A Gaza è la guerra civile»

La STAMPA del 13 giugno 2007 pubblica un articolo di Igor Man. Apparentemente oggettivo, contiene in realtà numerosi passaggi che rivelano i pregiudizi del "Vecchio cronista".
" Un giorno, non certo vicino" scrive per esempio Man, "potrebbero esserci in Terra Santa due Stati: Israele (grande potenza atomica), Palestina («principato turistico» sul modello monegasco). " Una frase che contiene tutti gli stereotipi su Israele vista come potenza arrogante e aggressiva.
La verità storica è fatta a pezzi in una frase come "Abu Mazen non sarà uno statista né un animale politico della stazza di Arafat" . Arafat "statista" ? Arafat fu in realtà un terrorista che non seppe cogliere l'occasione di costruire uno stato palestinese, preferendo a questa prospettiva la prosecuzione della violenza..

Ecco l'articolo:

Il Vicino Levante? Un minestrone ribollente». La famosa definizione di André Malraux trova, una volta ancora, in questi giorni, preoccupante conferma. Vediamo. Nella striscia di Gaza si sta combattendo una piccola guerra civile. Palestinesi diremo storici, quelli di al Fatah, si scontrano con i «fratelli» di Hamas. Morti e feriti d’ambo le parti e, come da copione, scambio di roventi accuse.
Nel marzo scorso, dopo arrabbiate discussioni e in grazia di generose iniezioni di dollari promosse dall’Arabia Saudita - in forza, altresì, d’una vigorosa mediazione dell’Egitto -, si riuscì a varare un governo palestinese di unità nazionale. Nell’occasione, il presidente della cosiddetta Autorità palestinese, Abu Mazen, già ascoltato consigliere di Arafat, definì il governo di unità la dernière chance. Se saremo uniti, le nostre rivendicazioni avranno peso al tavolo della trattativa. Dobbiamo sottrarci alla spirale della violenza, della provocazione e ragionare. L’unica guerra che non prevede sconfitte si combatte col «realismo della ragione», col negoziato. Questo in fatto disse Abu Mazen. Le sue parole vennero lodate da amici e nemici tranne che dai «fratelli» di Hamas. Si deve al deciso intervento del primo ministro, Ismail Haniyeh, se il parlamento palestinese bocciò una mozione di maggioranza che sia pure con un tortuoso giro di parole accusava Mazen d’essere un Quisling, il servo del «sinistro duetto»: Usa-Israele. Con queste premesse è già straordinario che nonostante uno stillicidio di accuse, insulti, colpi di mano, sequestri di persona e via così si sia giunti allo sfascio soltanto in queste ultime ore. Si combatte oramai da giorni, non tralasciando, da parte degli irriducibili di Hamas che non ascoltano nessuno, di lanciare i rozzi ma devastanti missili Qassam su Sderot, sui villaggi israeliani.
La piccola guerra civile che sta svenando i palestinesi è frutto della frustrazione e del sogno. Quelli di al Fatah, orfani di quell’abile politico che fu Arafat, non capiscono come i «fratelli» di Hamas non capiscano che soltanto con un compromesso avallato dall’Europa, soprattutto dagli Stati Uniti, un giorno, non certo vicino, potrebbero esserci in Terra Santa due Stati: Israele (grande potenza atomica), Palestina («principato turistico» sul modello monegasco). Abu Mazen non sarà uno statista né un animale politico della stazza di Arafat, ma questo ricco palazzinaro per bene rifiuta la visione onirica della realtà ch’è, poi, il vero male che affligge gli arabi. Da sempre Mazen rimprovera ai suoi di non capire come la crisi del Sionismo sia fisiologica, che Israele ha gli anticorpi giusti per uscire dall’attuale vuoto politico scavato da una classe dirigente non certo brillante. È dunque pura follia pensare d’ottenere un minimo di giustizia combattendo. Ma alla radice della piccola guerra civile che s’accende di scontri casa per casa, tetto per tetto, troviamo il giuoco infernale di Hezbollah. Il Partito di Dio, creato nella Bekaa dai pasdaran subito dopo la vittoria di Khomeini, ha combattuto contro il vertice libanese per conto terzi (leggi la Siria); oggi, con le armi e le vesti di Hamas, è sceso in campo a Gaza per un golpe che tuttavia non sembra tale se non fosse per il disperato proclama di Abu Mazen, una mistura di retorica arafattiana e di disperazione vera. «Difendete la vostra dignità, il vostro onore», grida alla radio l’ex palazzinaro miliardario, invocando (per telefono) «l’intervento taumaturgico» di Mubarak.
Ma il raiss è in piena ansia elettorale, anch’egli deve affrontare una sfida pericolosa: i Fratelli Musulmani, ancorché falcidiati da arresti in sequela, sfidano «il faraone» brandendo uno slogan vietato dalla polizia: «L’islàm è la soluzione». In Iraq le cose vanno come sappiamo e notizie sempre più allarmanti vengono da Teheran. Quel presidente-pasdaran ha confidato ai suoi che il Mahdi (il Messia) in una delle periodiche visite che gli dedica, abbia garantito «la prossima fine di Israele. Il conto alla rovescia è già cominciato».
I guru di Zamalek nutrono invece un altro timore: che il fragile governo israeliano, prima o poi, mandi i suoi sofisticati carri armati a Gaza. Per evitare che la piccola guerra civile degeneri in un delirio terroristico. Un simile «atto di guerra», per altro grondante di giustificazioni, avrebbe fatali ripercussioni nel più indifeso dei paesi arabi: il Libano. Incrociamo le dita.

Janiki Cingoli su EUROPA tenta di dare a Israele e al blocco dei finanziamenti al governo di Hamas la responsabilità degli attuali scontri.
Dimentica volontariamente che i finanziamenti all'Autorità palestinesi sono continuati ad arrivare, consegnati direttamente ad Abu Mazen.
Dimentica anche altri particolari: per esempio che l'accettazione della creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza non significa per Hamas accettazione di Israele, ma accettazione del piano a tappe per la sua distruzione (formulato da Al Fatah)
Dimentica che chiedere che Israele accetti il piano di pace saudita senza condizioni significa chidere di accetatre diritto dei ritorno dei palestinesi, che distruggerebbe lo Stato degli ebrei.
Il forum toscano, che oggi sarà concluso da Prodi, ha approvato questa pessima idea all'unanimità, ci informa.

Barbara Uglietti su AVVENIRE difende il ripristino dei finanziamenti ad Hamas. Sostiene che lo vorrebbe l'Unione europea, in realtà sempre più scettica.
Ecco il pezzo:

Stesso Kalashnikov, stesse magliette, stessi pantaloni e passamontagna neri; qualcosa di verde (un cappellino o una fascia al braccio o una bandana) per quelli di Hamas; qualcosa di bianco per quelli del Fatah. Girano a gruppi di quattro-cinque per le strade di Gaza City: la sola presenza determina il controllo. Metro dopo metro, angolo dopo angolo, edificio dopo edificio. E si sparano addosso.
È qualcosa più di una guerra civile: è una guerra di posizione senza fronti è senza trincee. Dentro un'enclave minuscola, distrutta da un anno di embargo (internazionale), di raid (israeliani), di isolamento. È una faida lenta tra clan, tra famiglie. Ventun morti solo ieri, una quarantina da sabato, quasi duecento dall'inizio dell'anno. La Striscia ha di nuovo toccato il fondo. Proporzionalmente, i miliziani hanno puntato più in alto: la casa del premier Ismail Haniyeh (Hamas) a Gaza City è stata centrata con gli Rpg da quelli del Fatah; gli uffici del presidente Abu Mazen (di Fatah), sempre nel centro della città, sono stati presi a colpi di mortaio dagli uomini di Hamas. Solo danni, in entrambi i casi. Ma il segnale è chiaro.
Sono tutti armati, a Gaza, e tutti sono pronti ad ammazzare e farsi ammazzare per prendere il controllo del territorio. Il governo di unità nazionale, quello costruito tre mesi fa dopo lo storico (e ormai moribondo) accordo della Mecca dell'8 febbraio tra Hamas e Fatah, sembra ridotto a un fantoccio. Ieri Fatah ha minacciato di ritirare i suoi ministri se continueranno le violenze orchestrate «da una parte» di Hamas: il comitato centrale del partito si è riunito a Ramallah per prendere una decisione a riguardo. Ma con quello che stava succedendo pochi chilometri più a sud, a Gaza, la crisi politica è sembrata essere veramente l'ultimo dei problemi.
Gli uomini di Hamas hanno lanciato un attacco in grande stile, senza precedenti. Hanno imposto un ultimatum ai servizi di sicurezza fedeli ad Abu Mazen («collaboratori dei sionisti», come li de finiscono, per l'atteggiamento dialogante del presidente verso Israele e gli Stati Uniti) dando loro due ore per sgomberare le caserme a Gaza. Poi in massa, un "esercito" di 200 guerriglieri, cosa mai accaduta prima, hanno circondato il quartiere generale delle Forze del Fatah, alla periferia orientale del campo profughi di Jabaliya, e dato l'assalto con lanciarazzi e colpi di mortaio. Sembra ci siano state nove vittime, negli scontri, ma non è stato fornito un bilancio definitivo. Gli uomini di Hamas si sono mossi con "efficacia" anche nel sud di Gaza: a Khan Yunis i miliziani delle Brigate Ezzedin al-Qassam (il braccio armato del gruppo) sono schierati in tutto il centro della città e assediano gli ospedali. E che siano predominanti a Nord è stato annunciato dalla Tv di Hamas, al-Aqsa. Prima di essere chiusa da quelli del Fatah che hanno fatto irruzione negli studi di Ramallah, in Cisgiordania, e costretto l'emittente a sospendere le trasmissioni. Gli ingredienti per una miscela esplosiva ci sono tutti. Abu Mazen ha parlato di «tentativo di golpe» da parte di Hamas. «Tutte le informazioni e i fatti puntano il dito verso una fazione, cui appartengono leader politici e militari di Hamas, che stanno pianificando un colpo di Stato contro la legittimazione dell'Autorità nazionale palestinese», si legge in una nota dell'ufficio del presidente. Allo stato delle cose, solo il fatto che si parli di «una fazione di Hamas», e non genericamente di tutti i dirigenti del gruppo, lascia aperto un piccolo spiraglio per una riconciliazione. Ma con poca convinzione, ormai, lo stesso Abu Mazen, dopo aver parlato di golpe, si è ritrovato, insieme ad Haniyeh, a lanciare l'ennesimo appello per un immediato cessate il fuoco tra le parti. Proprio mentre un altro dirigente del Fatah, il segretario del partito in Cisgiordania, Hussein a-Sheikh, gli chiedeva di dichiarare lo stato di emergenza (prendendo il totale controllo della situazione). Proprio mentre il comando delle Forz e di sicurezza, con toni da resistenza, ordinava alle unità a Gaza di difendere le postazioni: «Avanti, Forze armate. Combattete i fautori del golpe. Difendete la la vostra dignità e il vostro onore militare».
La popolazione è stremata. Barricata in casa. Ci sono anche cinque italiani, cooperanti di tre Ong, bloccati in un edificio a Gaza City. Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha esortato le fazioni a porre fine agli scontri. I mediatori egiziani hanno parlato di «mani invisibili» che muovono le violenze inter-palestinesi. Il premier israeliano Ehud Olmert ha detto che l'Occidente dovrebbe «seriamente» prendere in considerazione l'invio di una forza multinazionale fra la Striscia e l'Egitto. L'Unione Europea, voce sempre più isolata, insiste sulla strada del ripristino degli aiuti all'Anp: una boccata di ossigeno, nell'aria avvelenata di Gaza.

Le richieste di Mustafa  Barghouti di finanziare il governo palestinese, la disponibilità della Siria a una pace con Israele "senza condizioni" (le uniche condizioni poste da Israele sono la fine del sostegno al terrorismo e del legame con l'Iran di Ahmadinejad) le esortazioni a Israele da parte di Mubarak e re Abdallah di Giordania sarebbero, secondo Eric Salerno, che scrive sul MESSAGGERO i segnali positivi provenienti dal Medio Oriente.
Inutile chiedersi con chi, nel caos palestinese, Israele dovrebbe stipulare una pace.
L'ideologia di Salerno è impenetrabile al dubbio e ai fatti.

Sul MANIFESTO Michele Giorgio si rammarica che i palestinesi si uccidano tra di loro invece di combattere "l'occupazione". Cioè di dedicarsi al terrorismo contro Israele.
Ecco l'articolo:

«Quei ragazzi sono la nostra salvezza» ci diceva due giorni fa il palestinese Nafez Kahlut riportandoci da Rafah a Gaza city, indicando un folto gruppo di studenti davanti ad una scuola. «Sino a quando non terminerà il tawuji (esami di stato) che impegna migliaia di ragazzi e ragazze, Hamas e Fatah non si combatteranno, vogliono evitare vittime civili, un bagno di sangue», aveva aggiunto con tono sicuro. E invece le certezze di Nafez sono crollate poche ore dopo, le sue previsioni si sono rivelate completamente errate. Ieri gli studenti alle prese con la maturità sono rimasti a casa, le scuole non hanno aperto e nelle strade di Gaza si è scatenato l'inferno. In poche ore almeno 20 palestinesi uccisi, tra cui alcuni civili, decine i feriti - in due giorni sono 43 i morti. E lo spettro della guerra civile che tutti esorcizzavano alla fine si è materializzato in tutte le sue orrende forme. Le strade si sono trasformate in un campo di battaglia, con i cecchini piazzati sugli edifici più alti pronti a far fuoco sui «nemici», ovvero su altri palestinesi. Una violenza inaudita, un disprezzo della vita dell'avversario che non esisteva a Gaza dove la popolazione si dichiarava fino ad un anno fa «unita nella lotta contro l'occupazione israeliana».
Ieri una granata rpg ha centrato la casa del premier Ismail Haniyeh (Hamas): il secondo attacco in due giorni nonostante la presenza in zona di decine di uomini della «Tanfisie» (Forza esecutiva). L'abitazione è rimasta danneggiata, mentre il primo ministro e la sua famiglia sono rimasti illesi. Poco dopo è stato sequestrato e trucidato in strada il cugino di Abdel Aziz Rantisi, il leader di Hamas ucciso in un raid aereo israeliano nel 2004. Atroce la vendetta di Hamas: tre donne e un ragazzo di 14 anni sono morti in un attacco compiuto da miliziani di Ezzedin al Qassam contro la casa di un alto funzionario della sicurezza di Fatah, Hassan Abu Rabie. Attacchi sono stati compiuti contro abitazioni di altri dirigenti di Fatah e il portavoce, Maher Maqdah, sa di essere finito sulla «lista nera» di Hamas e perciò vive barricato in casa. I miliziani delle due parti non risparmiano gli ospedali. Entrano nelle corsie e sparano con l'intenzione di eliminare gli avversari rimasti feriti negli scontri a fuoco. Lunedì era avvenuto nell'ospedale Shifa di Gaza city, ieri in quello di Khan Yunis. «E' una situazione gravissima, non riesco a credere ai miei occhi, la crudeltà reciproca non ha limiti», ci diceva ieri il dottor Muawiya Hassanin, dell'ospedale Shifa.
Come i palestinesi di Gaza siano giunti al punto di non ritorno, si potrebbe spiegarlo in mille modi. Il ministro dell'informazione Mustafa Barghouti ieri ha sollecitato l'Unione europea a riconoscere il governo di unita' nazionale e a riprendere gli aiuti finanziari diretti, attribuendo all'embargo internazionale il deterioramento della situazione. «Il nostro obiettivo è di convincere l'Ue a trattare direttamente con i palestinesi di tutte le fazioni che fanno parte del governo», ha detto. Giusto, ma non si può non tenere conto del ruolo svolto dall'ex ministro Mohamed Dahlan - che risponde ad ordini provenienti da Washington, Londra e forse anche da Tel Aviv - nel sabotare sistematicamente il governo di unità nazionale nato dagli accordi della Mecca (8 febbraio) perché «Hamas non deve governare, neppure assieme a Fatah».
Ruolo destabilizzante che anche ampi settori di Fatah condannano, a cominciare da quelli che a Gaza ruotano intorno ad Ahmad Helles, ex segretario generale che due mesi fa aveva criticato duramente la decisione di Abu Mazen di nominare vice presidente del Consiglio per la sicurezza nazionale (che supervisiona i servizi segreti) proprio Dahlan, il nemico principale di Hamas. Una scelta che si è rivelata benzina sul quel fuoco che sta ora riducendo in cenere il governo di unità nazionale.
«Chi e' il nemico?», abbiamo chiesto ad Abul Abed, nome di battaglia del comandante di Ezzedin al Qassam nel distretto di Sheikh Radwan. «Dahlan». è stata la risposta secca. Non sorprende ma, allo stesso tempo, rivela la visione ristretta di Hamas rispetto al gioco che sta avvenendo a danno di tutto il popolo palestinese. Dahlan è solo un burattino nelle mani di qualcuno. Il «nemico» è l'occupazione che dura da 40 anni, l'embargo internazionale che colpisce tutti i palestinesi, di qualsiasi colore, senza eccezioni, l'assedio, anche economico, che strangola Gaza, una enorme prigione in cui i detenuti ora lottano per un «potere» inesistente. Abu Mazen ieri ha accusato i capi di Hamas di preparare un «putsch», un colpo di stato. Il movimento islamico invece dichiara di voler chiudere i conti con Dahlan (che se ne sta al sicuro in Egitto) e i suoi alleati. E per farlo in effetti avrebbe bisogno di appena qualche ora. Il potere di Fatah, l'autorità della presidenza dell'Anp, il controllo dei servizi di sicurezza, sono ormai parte del passato. Si limitano a quattro edifici e caserme a Gaza city: il quartier generale di Abu Mazen, la sede centrale delle forze di sicurezza (Saraya), i palazzi della sicurezza preventiva e quelli della guardia nazionale. Potrebbero essere espugnati in breve tempo, ma a prezzo di un bagno di sangue. Hamas controlla tutta Gaza. Ieri migliaia di uomini della Tanfisie e di Ezzedin al Qassam si sono schierati a Khan Yunis e Rafah incontrando scarsa resistenza. Il nord della Striscia di Gaza è stato proclamato «area militare chiusa», interdetta ad agenti delle forze di sicurezza e ai militanti di Fatah legati a Dahlan. «Non vogliamo uno spargimento di sangue, per questo non abbiamo ancora chiuso la partita - ci ha spiegato Abul Abed - ma anche perché sappiamo che proclamando il nostro controllo totale del territorio, daremmo a Israele una occasione per attaccare e rioccupare Gaza. Ma Fatah in ogni caso è finito». E sta per «finire» anche il governo di unità nazionale.
Ieri il Comitato centrale di Fatah si è riunito a Ramallah per decidere l'uscita dall'esecutivo.

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