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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Libero - La Repubblica - Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
13.06.2007 Guerra civile interpalestinese
rassegna di cronache e analisi corrette

Testata:La Stampa - Libero - La Repubblica - Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Francesca Paci -Silvia Guidi - Arturo Zampaglione - R.A. Segre - Antonio Ferrari - Rolla Scolari
Titolo: «A Gaza è guerra civile - Hamas attacca Fatah - Pipes: "scontro inevitabile l'Occidente non s'immischi" - Nei territori ci salva solo Israele - Faida tribale - Palestinesi, la vittoria dell'odio - A Gaza finisce la guerra per bande e comincia il golpe mi»
Dalla STAMPA del 23 giugno 2007, riportiamo la corretta cronaca di Francesca Paci:

DA GERUSALEMME
Due sere fa Najwa Sheikh ha controllato che i suoi bambini di 5 e 8 anni non fossero a rischiare la vita giocando nello sterrato davanti casa, nel campo profughi di Nusseirat, al centro della Striscia di Gaza, ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al quotidiano israeliano Haeretz: «Non credo più nel premier Haniyeh e neppure in Mahmoud Abbas, i nostri politici si ammazzano uno con l’altro, ci hanno abbandonato. Mi ritrovo a piangere con voi perché solo con il nemico si può fare la pace». La popolazione di Gaza City, Rafah, Khan Yunis, si tiene lontana dalle finestre e segue in tv la resa dei conti fra il partito islamico Hamas e al Fatah. Negozi chiusi, le quattro maggiori università (compresa quella islamica) in sciopero contro la violenza, i liceali alle prese con l’esame di maturità costretti a un’azzardata gimkana tra gli edifici meno esposti alle sparatorie. In serata negli ospedali in prima linea si parlava di almeno 26 vittime.
«Stavolta i miliziani hanno la copertura politica, siamo davvero alla guerra civile, Hamas ha deciso di combattere per dimostrare chi comanda a Gaza» dice Ahmed, un insegnante di matematica. Vive nella zona di Nasser Street, vicino al quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ieri pomeriggio, in risposta al raid contro l’abitazione del primo ministro Ismail Haniyeh, gli uomini di Hamas hanno attaccato la sede locale del governo e le caserme delle forze di sicurezza fedeli al presidente Abu Mazen. Ahmed, barricato in salotto con la moglie e i quattro figli dai 3 ai 10 anni, si è trovato in mezzo tra le pallottole e i blindati. Come il collaboratore dell’Ansa Safwat al-Kalhout, che abita in una via a poca distanza dal portavoce di Fatah Maher Migdad e dal leader di Hamas Abu Baker Nafel, teatro di scontri violentissimi; come 5 cooperanti di Ong italiane, che sono rimasti bloccati a causa della violenza degli scontri a fuoco tra miliziani; come le famiglie di Jabalya, dove dopo ore d’assedio Hamas ha sbaragliato 500 miliziani di al Fatah lasciandone sul terreno nove; come un milione e mezzo di abitanti ostaggio di una guerra civile da cui usciranno tutti sconfitti.
La presidenza palestinese, riunita in seduta d’emergenza, ha denunciato un tentativo di golpe da parte della dirigenza di Hamas, accusando implicitamente l’Iran e la Siria di soffiare sul fuoco. In serata il comitato centrale del partito al Fatah guidato dal presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha emesso un comunicato dai toni molto chiari: «I ministri del Fatah non parteciperanno più al governo se i combattimenti non cesseranno». Le parole sono gravi, e nonostante la mano tesa in serata dal premier Ismail Hanieyh, il consigliere politico di Abu Mazen Nemer Hammad esclude che ci siano margini di trattativa: «Vogliono creare un emirato islamico a Gaza, ma non lo permetteremo». Hammad racconta che la televisione di Hamas, Al Aqsa Tv, quella del cartoon con Topolino anti-israeliano, ha preso a bersagliare gli avversari politici, suggerendo di andarli a scovare casa per casa. Al Fatah sa di aver perduto già il nord della Striscia di Gaza e il centro, Khan Yunis, ma non può arretrare.
Piuttosto meglio tornare al voto. Un sondaggio del Palestinian Center for Public Opinion appena pubblicato rivela che le azioni di Hamas sono in forte ribasso, il 78% dei palestinesi vuole la tregua ogni costo. Fatah, ritirando come prospettato i suoi sette ministri dal governo d’unità nazionale, potrebbe chiedere con vantaggio un ritorno alle urne. In teoria. Perché se è vero che la gente di Gaza è delusa da Hamas non è però mai stata sedotta da Fatah. Qui, dove il 60% degli abitanti ha meno di trent'anni e non ha mai visto altro che miseria e morte, la generazione dei funerali come si chiamano con macabra ironia, la politica ha un sapore sgradevole. «Non voteremmo Hamas né Fatah, non voteremmo più nessuno», afferma Rashid, 28 anni, disoccupato come sette coetanei su dieci.

Di seguito, l'intervista di Francesca Paci all'attivista palestinese Bassem Eid, che osserva testualmente "Oggi gli abitanti di Gaza hanno due chance per sopravvivere: finire in mano egiziana o essere rioccupati dagli israeliani".
Ecco il testo:

Il mondo non si illuda: spari, morti, proclami roboanti, ma a Gaza non cambierà niente neppure questa volta». Bassem Eid non si cura d’andare controcorrente: editorialista dei quotidiani arabi Al-Quds e Al-Nahar ma anche degli internazionali Guardian, New York Times, Washington Post, attivista dei diritti umani con una lunga serie di premi in curriculum, nel 1996 ha fondato il Palestinian Human Rights, un’associazione di intellettuali palestinesi convinti che il proprio popolo non abbia bisogno solo del pane ma soprattutto delle rose.
Ieri il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen ha parlato di tentativo di Colpo di stato da parte di Hamas. Quali saranno le prossime mosse?
«Hamas e Fatah continueranno a combattersi per dimostrare chi è più potente. Nulla lascia intravedere la fine della guerra civile, e nessuno ormai può negare che si tratti di una guerra civile. Anche l’Egitto ha fallito. Mubarak ha tentato d’intervenire, è preoccupato: il virus di Gaza potrebbe infettare i paesi circostanti, ammesso che Gaza possa essere definito un paese. Non esiste soluzione politica al caos di Gaza, finirà solo quando una parte avrà annientato l’altra».
Siamo alla resa dei conti?
«Le cose sono andate sempre peggio da quando Hamas ha vinto le elezioni, da un anno e mezzo andiamo a picco. Abu Mazen non è stato capace di far niente all’inizio, figuriamoci ora».
Fatah minaccia di ritirare i propri ministri dal governo e convocare nuove elezioni. Pensa che servirebbe?
«Probabilmente sarebbe peggio. Hamas non permetterebbe mai un ritorno alle urne, non ora che sta combattendo per la vittoria».
Parlando con la gente di Gaza si ha l’impressione che Hamas abbia perso consenso. Fatah spera di poter rovesciare politicamente le sorti della guerra che sta perdendo sul campo?
«Sono scettico. Prima della vittoria elettorale di Hamas scommettevamo che non ce l’avrebbe fatta. Abbiamo sempre sottovalutato la sua penetrazione nella società palestinese».
Cosa consiglierebbe al suo governo?
«Se Hanieyh è un uomo e ha a cuore la sua gente dovrebbe dimettersi. E darei lo stesso suggerimento ad Abu Mazen. Allo stato attuale è meglio il caos. Preferirei tornare all’anarchia della fine degli anni ‘80 che stare in questo inferno “governato”, almeno la comunità internazionale si deciderebbe a mandarci una forza di interposizione per separare palestinesi da israeliani e palestinesi da palestinesi».
La Striscia di Gaza è perduta?
«Assolutamente sì. Tutti sanno che dal 1988 Gaza è Hamasistan, mettiamoci l’anima in pace. Chiedete ai palestinesi della Cisgiordania? Non ne vogliono neppure sentir parlare. Fatah oggi può solo lavorare a recuperare consenso in Cisgiordania, e deve fare presto. Potremmo svegliarci tra un paio di mesi con la guerra civile a Ramallah».
Crede che si possa evitare?
«Se Israele si ritira da alcune zone della Cisgiordania è la fine, cominceremo ad ammazzarci anche lì. Oggi gli abitanti di Gaza hanno due chance per sopravvivere: finire in mano egiziana o essere rioccupati dagli israeliani. So di essere impopolare, ma sono un militante dei diritti umani e mi occupo della vita della gente, la terra e le pietre vengono dopo».

La cronaca di Silvia Guidi da LIBERO :

Blindati per strada, rapimenti, ricatti, assassini mirati, prigionieri, guardie del corpo gambizzate, assalti alle sedi della fazione avversaria, granate sulla casa del premier, il capo del governo di (dis)unità nazionale Ismail Haniyeh. La guerra civile tra Hamas e Fatah è in corso da mesi, ma nessuno lo ammetteva, prima di ieri, tranne lo stesso presidente palestinese Abu Mazen. Quando gli "insorgenti" insorgono contro se stessi le notizie diventano poco interessanti per la maggior parte dei quotidiani di casa nostra, che nei giorni scorsi hanno dedicato solo brevi trafiletti alla faida interpalestinese. Ma i fatti, e le dichiarazioni ufficiali sono difficili da ignorare: Abu Mazen, dopo l'ennesimo, inutile appello al cessate il fuoco (un fuoco "amico" che dall'inizio dell'anno ha già ucciso 160 palestinesi) ha messo in guardia i suoi e i leader meno irresponsabili della fazione nemica denunciando un tentativo di golpe in corso: il "partito di dio" vuole trasformare la Striscia di Gaza in una sorta di "Hamas-stan", vicino a Iran e Siria. REGOLAMENTO DI CONTI I panni sporchi si lavano in famiglia, per non danneggiare l'immagine della causa palestinese già abbastanza compromessa dagli ultimi fatti di cronaca, ma quando la resa dei conti si avvicina il diplomatichese non tiene e saltano le più banali regole dell'ipocrisia e della retorica: «Alcuni politici e militari all'interno di Hamas cercano di impadronirsi del controllo sulla Striscia di Gaza» ha detto a chiare lettere Abu Mazen. E le forze leali a Fatah hanno ricevuto l'ordine di difendere le loro posizioni nella Striscia. «Avanzate, nostre forze. Affrontate chi cerca il golpe. Difendete la vostra dignità e il vostro onore militare. Difendete la sicurezza della vostra gente», esorta un comunicato delle Forze nazionali di sicurezza fedeli al presidente Abbas, diffuso a Gaza. Il comunicato definisce Hamas come «un partito sanguinario che sta attaccando il presidente, l'Autorità nazionale e il governo di unità nazionale" nelle stesse ore in cui il "partito di dio" stava prendendo d'assalto il quartier generale della sicurezza di Fatah a Gaza con un'azione senza precedenti. Almeno 200 guerriglieri hanno circondato ed espugnato l'edificio che sorge alla periferia orientale del campo profughi di Jebalia e nel quale prestano servizio cinquecento agenti, attaccando con lanciarazzi e colpi di mortaio. I negoziati chiesti dal presidente palestinese Abu Mazen non sono stati oggettivamente possibili: i rappresentanti di Fatah e di Hamas non sono riusciti a uscire di casa per via delle sparatorie e delle barricate erette dai miliziani. Colpi di mortaio sono caduti sull'ufficio di Abu Mazen a Gaza, mentre una granata ha centrato la casa del premier Ismail Haniyeh, nel campo profughi di Shati. Da entrambe le parti volano accuse pensanti: secondo il ministro degli Esteri palestinese Nabil Shaath, miliziani di Hamas hanno perquisito e svaligiato la sua abitazione, dopo aver gambizzato una sua guardia del corpo, mentre a Ramallah uomini della Guardia presidenziale hanno fatto irruzione negli ufficio della tv al Aqsa, legata al "partito di dio", sequestrato materiale e arrestato tre persone. Anche il ministro dei Trasporti, Saidi Tamimi, esponente di Hamas, è stato arrestato durante un blitz nel suo appartamento in Cisgiordania. Si parla di almeno 26 vittime in 24 ore, ma al momento non è possibile stilare un bilancio attendibile delle vittime. Gli scontri contro Fatah non hanno distolto i miliziani di Hamas dagli attacchi contro Israele: alcuni razzi hanno raggiunto la città di Sderot, causando tre feriti. COLPA DELL'EUROPA Non è la presenza di "bracci politici" terroristi nelle liste elettorali, non è dal perdurare della "lotta armata" contro Israele dopo gli accordi di Oslo che derivano l'anarchia dell'Autorità palestinese e il suo collasso; con una faccia tosta degna di miglior causa, il ministro dell'Informazione palestinese Mustafa Barghouti ha detto ieri che se la sua gente si sta facendo guerra è colpa dell'Europa e dell'embargo internazionale. «Il nostro obiettivo è di convincere l'Unione europea a trattare direttamente con l'Autorità palestinese», ha affermato Barghouti prima di incontrare a Bruxelles il capo della politica estera dell'Ue Javier Solana e Benita Ferrero-Waldner, commissario per le Relazioni esterne dell'Unione. «Devono capire che se non avessimo quest'embargo, le cose andrebbero molto meglio», ha ripetutoBarghouti. Che chiede ancora soldi nonostante il "pacchetto di assistenza" di 4 miliardi di euro stanziato ieri dalla commissione europea. In un certo senso ha ragione: si tratta di aiuti umanitari, composti da convogli e strutture sanitarie, poco adatti ad essere trasformati in armi, munizioni e razzi qassam.

Dalla REPUBBLICA, riprendiamo l'intervista a Daniel Pipes di Arturo Zampaglione :

NEW YORK - «Non sono affatto sorpreso degli scontri militari tra Hamas e Fatah», dice a Repubblica Daniel Pipes. «È da tre anni, ormai, che assistiamo a una escalation dalle due parti. Legato a differenze tattiche, il conflitto era pressoché inevitabile e non penso che debba essere fatto nulla per fermarlo. Quel che mi stupisce, semmai, è l´illusione coltivata da molti europei che Abu Mazen possa realizzare l´unità palestinese o essere un valido interlocutore».
Anche di fronte alle prime avvisaglie di una guerra civile nei territori palestinesi, con morti e distruzioni, Pipes non smentisce la sua fama. È un falco disposto anche a bombardare l´Iran. È un neo-con che raccoglie consensi entusiasti a destra, specie negli ambienti filo-isareliani, e critiche violente a sinistra: il mese scorso è stato contestato durante una conferenza alla Ucla, l´Università di Los Angeles. Ma è anche uno dei massimi esperti del Medio Oriente: fondatore e direttore del Middle East Forum, ha scritto di diciotto libri tradotti in 19 lingue.
Professor Pipes, perché si scaglia contro il presidente palestinese Abu Mazen? In questa situazione così critica e confusa non rappresenta forse una delle poche ancore di salvezza?
«Da un lato ritengo che Abu Mazen - o Mahmoud Abbas, come preferiamo chiamarlo qui in America - sia politicamente troppo debole, quindi incapace di imporsi su Hamas. Da un altro lato non penso che le sue posizioni strategiche siano, in fin dei conti, molto diverse da quelle degli avversari. Sia Fatah che Hamas vogliono eliminare Israele, l´unica vera differenza tra le due anime palestinesi è nella tattica che intendono seguire. Il partito di Abu Mazen punta a una serie di accordi con Gerusalemme, Hamas ha un approccio più ostile».
Che cosa dovrebbe fare la Casa Bianca di George W. Bush di fronte a questo bagno di sangue?
«Deve aspettare, non può e non deve fare di più. Ogni tentativo di esercitare pressioni sulle due parti è destinato - secondo me - al fallimento. L´importante è cercare di convincere le due fazioni palestinesi che devono rinunciare alla eliminazione di Israele, perché è un obiettivo impossibile, e quindi che i loro tentativi segreti in questa direzione sono destinati al fallimento».
Ma non teme che l´ondata di violenze possa portare alla eliminazione di Al Fatah che, nonostante gli aiuti americani, è militarmente inferiore a Hamas?
«No, Al Fatah non sparirà. Non dimentichiamoci che i militanti di Yasser Arafat e ora di Abu Mazen sono molto forti nei territori della Cisgiordania. Il rischio semmai è che si vada a due Palestine: "Hamastan" e "Fatahland" come disse a suo tempo il capo dell´intelligence militare israeliana Aharon Zeevi».

Dal GIORNALE, l'editoriale di R. A. Segre:

La domanda che molti si pongono in questo momento, e cioè se la mattanza fratricida in corso a Gaza fra i Palestinesi è una guerra civile, oppure quel «bagno di sangue» da cui potrebbe finalmente nascere l'identità dello Stato palestinese, è una domanda fuori posto. Lo è perché coloro che si combattono a Gaza (ma anche fra le fazioni palestinesi nei campi profughi libanesi e in maniera differente a Bagdad) non rappresentano una società ma i parassiti armati di una popolazione divisa in clan famigliari la cui sopravvivenza è legata all'esistenza di uno stato di anarchia.
Le ragioni di questa tragica situazione sono antiche e legate a molti pregiudizi. Uno continuamente ripreso dai media è che l'occupazione israeliana sia la causa di tutti i mali dei palestinesi. Israele ha certo molte responsabilità che i dibattiti sulle conseguenze della guerra del 1967 hanno messo in luce in occasione del suo 40° anniversario. Ma ciò che succede a Gaza, nei campi profughi palestinesi nel Libano (e in un certo senso anche in Irak) è la dimostrazione di un male arabo che con Israele ha ben poco a che vedere: il tribalismo che fece dire al Colonnello Lawrence che gli arabi non sono i figli del deserto ma i padri.
Un tribalismo che già nel XIV secolo il grande storico berbero Ibn Khaldun (1332-1406) metteva alla base di un cultura violenta e distruttiva dei conquistatori nomadi beduini i quali poca simpatia avevano per le popolazioni sedentarie e le loro istituzioni. L'era d'oro tanto cantata dal nazionalismo arabo durò infatti poco e fu marcata da continue lotte fratricide con l'uso dell'assassinio come sistema privilegiato per il trasferimento del potere. Questo tribalismo non ha mai permesso di creare solide istituzioni statali arabe sottoponendoli per lunghi periodi della loro storia al governo imperiale.
Quello ottomano fu a lungo accettabile perché fondato sull'idea della rappresentanza divina. Quello europeo durò molto meno lasciando dietro di sé strutture «nazionali» sovrane che trovano un'unità politica solo grazie all'esistenza di un nemico.
Per mezzo secolo questo nemico sul quale tutti i regimi arabi hanno scaricato le responsabilità dei propri fallimenti è stato Israele. Lo è stato ancora di più per i Palestinesi che hanno sviluppato la loro identità collettiva solo grazie al «nemico sionista». Il movimento di liberazione nazionale palestinese - Olp - non è in definitiva stato altro che una specie di «sionismo arabo» con una differenza: la sua missione non era di costruire uno Stato ma di distruggere quello ebraico.
In queste condizioni, nonostante tutta la simpatia più o meno ipocrita che ha circondato la causa palestinese, nonostante gli aiuti finanziari internazionali, nonostante le pretese rivoluzionarie di Arafat, la realtà politica e sociale palestinese è sempre rimasta tribale, fondata sulle rivalità di gruppi e famiglie (come quella che tiene prigioniero il caporale israeliano Shalit o il rappresentante notoriamente anti israeliano dell Bbc) che nell'anarchia trovano il terreno più adatto a sviluppare i propri istinti di violenza e di reciproca atavica diffidenza.
La vittoria elettorale ottenuta da Hamas un anno fa in Palestina, lungi da dare ai palestinesi una amministrazione efficace, onesta e devota - come proclamava - alla soluzione dei problemi della popolazione, non ha fatto che far esplodere queste tendenze autodistruttive e anarchiche. Hamas non è solo formalmente impegnato a distruggere Israele ma anche a distruggere ogni velleità di Al Fatah e dell'Olp di legittimarsi come «unico legittimo rappresentante» del popolo palestinese in quanto promotore di uno Stato «laico e democratico».
A intorbidire le acque palestinesi è poi intervenuto il pericolo della risorgente potenza imperiale persiana, forte dei petrodollari, del suo potenziale nucleare e della ideologia religiosa sciita. Questo ha provocato uno schieramento arabo sunnita che a malincuore non può fare a meno d'Israele come sola potenza regionale capace di opporsi all'imperialismo iraniano.
La seconda guerra del Libano ha rivelato - assieme all'impreparazione bellica israeliana - la delusione dei Paesi arabi per l'incapacità israeliana di sconfiggere gli Hezbollah, rappresentanti armati del potere espansionista di Teheran. Non ha però messo fine al bisogno dei governanti arabi - dall'Arabia Saudita alla Siria, dai Paesi del Golfo alla Turchia - di collaborare più o meno apertamente con lui, mostrandosi piuttosto indifferenti alla sorte dei palestinesi. Che lasciati appunto alla loro sorte esprimono le loro ambizioni settarie di potere in una guerra di faide che nessuno dei loro governanti riesce a fermare.

L'editoriale di Antonio Ferrari dal CORRIERE della SERA

Quelle due terribili parole, «guerra civile», che nessun dirigente palestinese osava pronunciare pubblicamente, accusando di disfattismo chi le evocava prevedendo il peggio, sono oggi tragica realtà.
Nell'inferno di Gaza, mentre alla periferia di Jabalia duecento guerriglieri di Hamas attaccano le postazioni delle forze di sicurezza dell'Anp, il presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas), l'anziano leader cui il mondo riconosce doti di saggezza, prudenza e moderazione, è costretto a lanciare un ordine disperato e gravissimo. Non ai fondamentalisti, con i quali è ormai impossibile alcun dialogo politico, ma ai suoi soldati. «Avanzate, affrontate i colpevoli. Difendete la vostra dignità e il vostro onore militare. Difendete la sicurezza del vostro popolo». Mai un appello alla resistenza, così drammatico ed estremo, era stato lanciato da un leader palestinese, neppure negli anni della lotta armata per realizzare il sogno del proprio Stato. E mai nessuno avrebbe potuto immaginare che il nemico numero uno del vertice dell'Anp sarebbe diventato il proprio fratello di sangue. Con il rischio di distruggere tutto ciò che è stato costruito negli ultimi sessant'anni. Ormai, tutte le ipocrisie che avevano accompagnato la volontà di nascondere quel che stava realmente accadendo, sono svanite. Annientate da un comunicato nel quale si accusa Hamas d'essere un «partito sanguinario impegnato in un golpe militare contro il presidente palestinese e contro l'autorità e il governo nazionale».
La paziente tessitura che i sauditi avevano tentato, con gli accordi della Mecca, per porre fine al fratricidio e aprire le porte a un governo di unità nazionale, si è rivelata sterile, probabilmente inutile. E' vero, si è guadagnato qualche mese, ma il risultato dell'innaturale alleanza tra laici e integralisti palestinesi è adesso sotto gli occhi di tutti. Non vi sono più finzioni, né pretesti, né vi è aria di futuri e improbabili compromessi. Le istituzioni palestinesi rischiano infatti una devastante implosione. Persino i mediatori egiziani, che instancabilmente hanno cercato di ottenere almeno la cessazione delle ostilità, si sono dovuti arrendere.
E' un «dialogo fra sordi», ha detto il generale Burhan Hamed, inviato dal Cairo per quella che pare davvero una missione impossibile. Ci saranno pure «mani esterne», come ammette il capo della diplomazia di Mubarak, Ahmed Aboul Gheit, ma «sta ai palestinesi dar prova di responsabilità e maturità». Parole che si infrangono contro una realtà angosciante. Tra le parti, ormai, è stato eretto il muro dell' odio. Le notizie che si inseguono, in un crescendo di terrore, sono sempre più gravi, e ormai disegnano di fatto due Palestine: con la striscia di Gaza ridotta ad una violenta Hamaslandia, e con la Cisgiordania che, con meno convinzione, i laici difendono nel nome di Fatahlandia.
Assaltata e incendiata la casa dell'ex vice-premier Nabil Shaat nella Striscia. Immediata ritorsione, con l'attacco e l'oscuramento del canale- tv Al Aqsa di Ramallah, controllato da Hamas. Nel nome di «Al Aqsa», la sacra moschea dei musulmani, terzo luogo più sacro dell'Islam, si intrecciano crimini e vendette. Nell'ala più estrema dei laici vi sono infatti le Brigate Al Aqsa, che ora piangono l'assassinio del loro leader, e accusano i fondamentalisti d'essere «complici di Israele». Accusa restituita da Hamas, che accusa i fratelli-nemici d'aver ricevuto carichi di armi, scortati da militari dello stato ebraico.
Quel sottile filo di speranza che pareva aver avvicinato, almeno un poco, il presidente Abu Mazen al capo del governo Ismail Haniyeh, si è rotto, forse irreparabilmente. Anche perché se è vero che Haniyeh poteva rappresentare l'ala dialogante del movimento fondamentalista, trionfatore nelle elezioni dell'anno scorso, è ormai sicuro che il primo ministro è ostaggio degli estremisti, che puntano a radicalizzare il conflitto. Probabilmente influenzati dal duro Khaled Meshal, che vive in esilio e che ha il sostegno della Siria, e da coloro che al dialogo con i fratelli del Fatah preferiscono ascoltare i devastanti richiami del presidente iraniano Ahmadinejad.
Probabilmente è tutto questo ad aver diffuso il sospetto (forse è ben più di un sospetto) dell'intervento di «mani esterne» impegnate a inasprire la guerra inter-palestinese.
Come non vedere, infatti, le connessioni tra il conflitto e tutte le altre gravi crisi regionali, che paiono giunte a drammatica maturazione: la guerra dei campi in Libano; l'incubo di un nuovo conflitto civile; la debolezza della Siria, che non vuole il tribunale internazionale per l'assassinio dell'ex premier Rafic Hariri; l'inferno iracheno, con il pericolo di nuove esplosioni nel Kurdistan, dove l'esercito turco intende sconfinare, a caccia dei propri guerriglieri curdi, o forse per impedire che quella regione confinante ottenga maggiore autonomia; l'aggressività iraniana, il desiderio di Teheran di diventare potenza egemone nel Medio Oriente. E ovviamente il rischio, più volte evocato, di un devastante scontro tra sunniti e sciiti.
Ma il problema più urgente e immediato è come impedire che la guerra civile palestinese dilaghi, ed esca da qualsiasi possibilità di controllo. Gaza è terra di nessuno. Le violenze sono tali che ai giornalisti non è più consentito di testimoniarle, senza correre il rischio d'essere rapiti, o ancor peggio. Proprio come nelle aree afghane controllate dai Talebani, o a Bagdad. Il rischio è che dalla Striscia gli estremisti intensifichino i lanci di razzi contro la cittadina israeliana di Sderot, magari con l'obiettivo — tanto peggio, tanto meglio — di provocare una massiccia offensiva dei soldati del primo ministro Ehud Olmert. Che però ha già annunciato che non intende intervenire nel conflitto fra Fatah e Hamas.
Il mondo si sta muovendo, ma al solito limitandosi a dichiarazioni e ad appelli accorati, come quelli del segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon. Probabilmente non aveva torto, il presidente Abu Mazen, quando, mesi fa, aveva minacciato che, in assenza di un convincente accordo politico con Hamas, vi sarebbero state elezioni anticipate per chiedere ai palestinesi di contarsi e di decidere il proprio futuro. Ora c'è il rischio che di elezioni, in Palestina, non se ne possano fare più.

L'analisi di Rolla Scolari dal FOGLIO:

Gerusalemme. Hamas ha lanciato un massiccio attacco ieri contro le forze legate a Fatah, il movimento del rais Abu Mazen. La maggior parte dei mass media internazionali è ancora cauta nell’utilizzare la definizione di guerra civile per quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza, ma c’è da registrare un irrimediabile salto di intensità. “E’ un golpe militare per controllare la Striscia con la forza”, nella definizione precisa arrivata dalla presidenza palestinese. Gli uomini armati di Hamas hanno espugnato postazioni di Fatah e tre ospedali, quelli di Fatah hanno bombardato la casa del primo ministro Ismail Haniye, almeno 20 miliziani sono rimasti uccisi (la maggior parte di loro appartiene alle forze presidenziali), si combatte non più soltanto con i fucili ma a colpi di mortaio, Hamas ha imposto un ultimatum agli agenti del presidente, chiedendo loro di lasciare i quartier generali per evitare altri attacchi, alle forze di Fatah è arrivato perentorio il comando di resistere e arginare l’assalto. Cinquecento miliziani delle forze di Fatah sono rimasti asserragliati in un posto di comando nel nord della Striscia mentre 200 miliziani di Hamas sparavano loro addosso e il partito del presidente Abu Mazen sta per decidere se lasciare o no il fallimentare governo di unità nazionale; la tv di Hamas ha annunciato che il movimento ha in mano il nord della Striscia ma poco dopo ha cominciato a mandare in onda inni di Fatah, segno che gli studi sono tornati nelle mani dei miliziani vicini al rais. Secondo fonti sul posto, Hamas nelle prossime ore porterà avanti l’assalto per assicurarsi entro la notte il controllo del maggior numero possibile di postazioni di Fatah. Il conflitto a Gaza minaccia di estendersi anche alla Cisgiordania dove le Brigate dei Martiri di al Aqsa (la maggior parte degli scontri è stata tra Hamas e le forze di sicurezza regolari) legate a Fatah hanno annunciato attacchi contro gli esponenti di Hamas se l’offensiva del gruppo islamico proseguisse nella Striscia.
Non si tratta di semplici scontri e anarchia, ma di battaglie sistematiche, pianificate, tese a conquistare territorio e postazioni militari. Abu Mazen ha chiesto la calma. Saeb Erekat, storico negoziatore dell’Autorità nazionale ha parlato “del punto più basso nella storia palestinese”. Il “cessate il fuoco” imposto nei giorni scorsi soltanto grazie all’intervento israeliano non è durato a lungo. Gli scontri tra le fazioni si sono trasformati in guerra aperta. Ancora una volta il maggior numero di vittime si conta tra le file di Fatah, militarmente inferiore a Hamas, nonostante l’appoggio d’Israele – anche con raid mirati nelle scorse settimane contro obiettivi del gruppo islamista – dell’Egitto, che addestra gli agenti del rais, e di Washington, che promette un massiccio trasferimento di munizioni e soldi a favore del partito, in funzione anti Hamas.
“E’ una vergogna per il nostro popolo”, ha detto il presidente Abu Mazen, dopo che lunedì la solita tregua di poche ore tra le fazioni raggiunta dai mediatori egiziani è collassata a colpi di mortaio. La delegazione del Cairo a Gaza ha parlato di un “dialogo tra sordi”. I razzi Qassam continuano a cadere sul sud d’Israele, lanciati da uomini legati a Hamas o al Jihad islamico, che ha da poco tentato un’azione fallita contro i soldati israeliani lungo il confine della Striscia. 

Il premier israeliano, Ehud Olmert, è stato chiaro: “L’ho detto e lo dirò ancora, le nostre operazioni nel settore di Gaza continueranno finché non si fermeranno i Qassam”. Ieri, Olmert si è spinto fino a chiedere l’intervento internazionale. “Il mondo dovrebbe prendere seriamente in considerazione l'impiego di Forze internazionali, come l’Unifil – ha detto il premier – nella zona del corridoio di Philadelphi, tra Egitto e Gaza, al fine di impedire che forze estremiste ricevano armi”. Il governo d’unità nazionale non esiste, come provano le sparatorie furiose di queste ore. La leadership è inerme e il progetto nazionale palestinese rimane soltanto “uno scheletro, un’idea”, come dice al Foglio Daoud Kuttab, giornalista, documentarista, intellettuale, editorialista su giornali arabi e americani e direttore del dipartimento di Modern Media dell’università palestinese di al Quds, a Gerusalemme. Per Kuttab, il progetto di due stati in pace uno accanto all’altro non è mai stato altro che un’idea. Pochi giorni fa, sul Jerusalem Post, quotidiano israeliano in lingua inglese, scriveva: “Le uccisioni senza senso tra palestinesi hanno ferito la causa palestinese. (…) Si sta sviluppando una tendenza: palestinesi e israeliani attaccano l’altra parte per gestire i loro problemi interni. Il picco di lanci di razzi da parte di Hamas ha avuto luogo proprio quando la reputazione del movimento è stata colpita dal loro non provocato assassinio di uomini delle forze della sicurezza nazionale palestinese”. “I palestinesi non possono incolpare nessun altro se non loro stessi”. Kuttab accusa la crisi permanente della leadership palestinese, al telefono da Amman, in Giordania. “Quello che sta succedendo a Gaza non aggiunge nulla e non toglie nulla alla soluzione a due stati, perché la soluzione a due stati è già morta da un pezzo. Quello che succede a Gaza mostra soltanto quanto brutta sia la situazione”. La causa principale degli scontri interni è la vittoria di Hamas alle urne nel gennaio del 2005, dice Kuttab, e il fatto che il movimento non abbia potuto governare per via dell’opposizione dell’ex maggioranza di Fatah. Ma c’è altro: “L’errore più grosso dei leader palestinesi è il non essere risoluti, l’iniziare qualcosa senza portarlo a termine, non hanno il coraggio”. Un sondaggio di poche ore fa, del Palestinian Center for Public Opinion, dice che gli scontri costeranno sostegno popolare a Hamas e Fatah e il leader Abu Mazen ne trarrà beneficio. Per Kuttab, gli israeliani considerano ancora Abu Mazen un leader, “ma il rais è un leader debole”. I colpevoli degli scontri e delle violenze “non sono puniti; Abu Mazen dovrebbe mostrarsi più forte”. Dopo mesi di combattimenti, dopo un fallimentare accordo tra le parti alla Mecca, mediato dall’Arabia Saudita e la formazione di un fallimentare governo d’unità nazionale che invece di risolvere la situazione interna è spettatore inerte e allo stesso tempo protagonista delle battaglie nelle strade, qualcuno, tra le fila di una leadership vecchia e pesante come quella di Fatah e tra la società civile e gli intellettuali, ha iniziato a non attribuire tutti i mali palestinesi a Israele e alla comunità internazionale. Hannah Sinora che dice di non aver “mai visto nulla di così grave come le battaglie di questi giorni”, ha accusato recentemente sul Corriere della Sera “la morte del progetto nazionale palestinese”; Saeb Erekat in una conferenza ad Amman e poi al Foglio ha dichiarato che le colpe maggiori di quello che sta succedendo a Gaza sono in primo luogo palestinesi; Abu Mazen ha definito “assurdi” i lanci di razzi Qassam e “vergognosi” i combattimenti tra le fazioni; lo stesso Kuttab vede nelle faide intestine un colpo fatale alla questione palestinese e spiega: “I vertici iniziano a capire che il problema a Gaza è la mancanza di leadership, ma nonostante ciò non fanno nulla”.

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