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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Giornale Rassegna Stampa
02.06.2007 Israele in cerca di leadership
e di deterrenza

Testata:Libero - Il Giornale
Autore: Amy K. Rosenthal - Gian Micalessin
Titolo: «Israele e la crisi dei leader «Ridateci i capi del '67» -Israele si sta preparando»
Da LIBERO del 2 giugno 2007:

Se girate per le strade di Gerusalemme in questi gironi troverete dappertutto il numero 40: è infatti il quarantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni. Dal 5 al 10 giugno 1967 Israele conseguì un fenomenale trionfo, spazzando via gli eserciti arabi coalizzati di Egitto, Giordania e Siria e conquistò Gerusalemme Est, le alture del Golan, il Sinai (ceduto nel 1979 in seguito al trattato di pace con l'Egitto seguito agli accordi di Camp David), la Cisgiordania (West Bank) e la Striscia di Gaza (da cui Israele, per decisione presa unilateralmente, si è ritirata nell'agosto 2005). Se per molti israeliani - ed ebrei in tutto il mondo - il ricordo di questa guerra è motivo di esaltazione, per altri invece suscita rimorso. Ciò nonostante, il suo impatto sulla storia israeliana e mediorientale continua a essere discusso in modo acceso, ancora oggi a distanza di quattro decenni mentre il Paese, a fatica, fa i conti non solo con la deludente guerra in Libano della scorsa estate, ma anche con l'attuale leadership, da molti ritenuta responsabile dello stato di frustrazione che si respira oggi nella società israeliana. Punti di vista sul conflitto «La Destra e i religiosi», racconta a Libero Michael Oren, storico, autore del bestseller "La guerra dei sei giorni" (Mondadori), «celebrano l'anniversario di una grande vittoria militare - un trionfo che ha portato a quello che per loro è la liberazione di Gerusalemme e della patria biblica in Cisgiordania. A sinistra invece si compiange l'inizio dell'occupazione quarantennale dei Territori, l'inizio del movimento dei coloni e la "perdita dell'innocenza" per Israele». Yossi Melman, commentatore di Haaretz, quotidiano di centrosinistra, concorda solo in parte con l'analisi di Oren. «Certo, è un dolce ricordo per quanti erano giovani allora e senza dubbio ricrea uno stato d'animo di incredibile euforia in chi ha combattuto la guerra, ma una persona con un minimo di prospettiva storica non può che vedervi l'inizio di tutti i nostri problemi attuali». Per definire la più grande differenza fra la leadership del '67 e quella odierna, che i sondaggi accreditano della più bassa popolarità mai goduta da un governo israeliano, Oren dice recisamente: «Quaranta anni fa chi stava al timone era molto più dinamico. In particolare il premier Levi Eshkol era disposto ad assumersi dei rischi, molto più di un Ehud Olmert. Nel 1967 Eshkol approvò un piano per l'invio di tutti gli aerei da combattimento israeliani tranne otto per annientare la temuta aviazione egiziana, lasciando il Paese praticamente senza protezione aerea. Nel 2006, Olmert esitava a impegnare le forze di terra contro alcune centinaia di guerriglieri Hezbollah in Libano». Quanto poi ai guerrieri, lo storico militare spiega: «Non si possono mettere sullo stesso piano i generali israeliani del '67 - uomini come Yitzhak Rabin, Moshe Dayan e Ariel Sharon con gente come il ministro della Difesa Amir Peretz o l'ex capo di stato maggiore delle forze armate Dan Halutz (il primo capo supremo della storia di Israele costretto alle dimissioni - accusato oltre che di incapacità anche di aver speculato economicamente sul conflitto, Ndr.). I capi di allora erano disposti ad assumersi l'intera responsabilità delle loro azioni nella difesa della nazione, mentre quelli di oggi non sono stati in grado di ammettere i propri errori e lasciare al più presto l'incarico». Oren sospetta che «questo governo ha contribuito all'implosione del morale israeliano». Yoash Tsiddon-Chatto, analista dell'Ariel center for policy research, è ancora più duro: «Un governo che non sa prendere ferme decisioni, in particolare quando il Paese è sotto attacco, è un rischio per la sicurezza stessa di Israele». Tutta colpa dei governanti Anche Menashe Ben-Ari, ex consigliere allo sviluppo del sindaco di Gerusalemme ed ex combattente nella Guerra dei Sei Giorni (allora aveva 25 anni), giudica con severità il governo Olmert: «Nel '67 tutti fecero il loro dovere e si impegnarono a combattere, ma lo stesso hanno fatto i soldati la scorsa estate. Pensate a quelle migliaia di persone ad Haifa e nei villaggi del Nord trincerati per tutta estate nei bunker. L'unica cosa che volevano era che noi battessimo quei bastardi. E avrebbero trascorso anche altri molti mesi nei bunker pur di arrivare alla vittoria. Il marcio, invece, è venuto fuori negli alti gradi del governo, non nella base». Benché Israele continui a essere minacciato da numerosi pericoli dai Paesi circostanti, vicini e lontani, Oren sembra meno preoccupato dai nemici esterni che dal vuoto di leadership a Gerusalemme. «La minaccia più grande che fronteggia Israele non è dal di fuori ma dal di dentro. Israele si è sempre difeso dagli avversari ma non è in grado di farlo senza dei capi capaci». Oren non lascia spazio al dubbio; ma, di fronte alla domanda se vede qualche schiarita all'orizzonte, risponde: «C'è spazio per dell'ottimismo se si considera che oggi il sistema legale si oppone ai politici e li costringe a rispondere delle loro azioni. Nessuno, nel 1967, si sarebbe mai sognato di processare Moshe Dayan, ministro della difesa al tempo della guerra dei Sei giorni e noto molestatore di femmine, mentre oggi un tribunale mette in stato d'accusa il presidente della repubblica, Moshe Katsav, per stupro». Attila Somfalvi, commentatore politico di Y-Net News, è ancora più ottimista. «Ritengo che ci sia dell'esagerazione circa gli attuali problemi interni di Israele», sostiene; «la verità è che se si guarda al quadro d'insieme non si può dire che Israele sia totalmente marcio internamente; anzi, ci sono molti politici energici e militari capaci. Certo, ci sono problemi e continueranno ad essercene, ma noi impariamo come abbiamo imparato in passato. Detto questo, io ho particolare fiducia in una cosa: la democrazia. Secondo me, ogni società è posta di fronte a dei problemi, ma solo quelle libere li affrontano». Infatti, per quanto attualmente il morale in Israele possa essere basso, la situazione non è affatto apocalittica. Perché, fintanto che il Paese manterrà la sua forza militare accanto ai principi della democrazia, prevarrà malgrado tutto anche in futuro proprio come ha fatto in innumerevoli occasioni prima e dopo il 1967.

Dal GIORNALE:

«Miscalculation», errore di calcolo, da qualche mese la parola inglese è la più pronunciata, la più ripetuta nei comandi israeliani. Una «miscalculation» può far scoppiare la guerra. Il rischio di una «miscalculation » rende impossibile un’offensiva su vasta scala controHamas a Gaza. La paura di una «miscalculation» consiglia una campagna di sensibilizzazione per spiegare all’opinione pubblica come comportarsi in caso di guerra con Siria, Iran ed Hezbollah. Ma dietro le diverse declinazioni di «miscalculation» si nascondono soprattutto le incertezze e le paure lasciate in eredità dai 34 giorni di guerra della scorsa estate.
Quella guerra, tutti lo sanno, non è veramente finita, si è solo interrotta, può riaccendersi da un momento all’altro. Quel che è peggio può riprendere senza che nessuno in Siria, Libano o Israele lo voglia veramente. Basta una scaramuccia di frontiera, bastano alcuni colpi sparati per errore a un reparto siriano, basta un aereo intercettato per sbaglio da un nuovo missile di Damasco. Nell’attuale stato di allerta e progressivo riarmo dei tre confini un’imponderabile quanto trascurabile «miscalculation» rischia, insomma, di far saltare in aria l’instabile polveriera. Gabi Ashkenazi, il nuovo capo di stato maggiore israeliano, è il primo a saperlo, il primo a preoccuparsene. Durante esercitazioni e addestramenti il suo unico cruccio è il fronte del Nord. Lì, ricorda a ogni piè sospinto ai suoi generali, Tsahal deve essere pronto a entrare in azione in ogni momento. Lì soldati e ufficiali devono esser capaci di fronteggiare ogni minaccia, ogni «miscalculation ».
Non a caso uno scenario importante di “Avnei Esh 10”, la più cruciale esercitazione strategica degli ultimi mesi, prevedeva la ripresa delle ostilità a causa di un’imprevista e casuale bagatella di confine. Non a caso da settimane l’intelligence militare e gli analisti di Tsahal consigliano al premier Ehud Olmert di evitare in tutti i modi un’offensiva su vasta scala nella Striscia di Gaza. Quell’offensiva, viste le accresciute capacità militari di Hamas e le vaste quantità di esplosivi, mortai e micidiali armi anticarro transitate dal Sinai fino agli arsenali fondamentalisti, costringerebbe Israele a impiegare una quantità così ampia di numeri e mezzi da lasciare sguarnito il fronte siriano e libanese. Per la prima volta dalla guerra del 1948 Israele torna, insomma, a soffrire una sindrome da inadeguatezza, a temere l’accerchiamento dei nemici.
È una sindrome più psicologica che reale, ma quando l’imprevisto con cui confrontarsi non è il numero di cannoni, ma un banale errore di calcolo, realtà e apparenza fanno presto confondersi. Sul fronte dell’intelligence nulla fa, in verità, pensare a una concreta voglia di guerra di Damasco. La Siria del presidente Bashar Assad, ripetono al Mossad, sta solo completando l’ammodernamento di esercito e arsenali. Gli acquisti di nuove armi sono cospicui, l’intensificazione dei ritmi di addestramento è rilevante e l’incremento delle manovre è significativo, ma nulla segnala un attacco imminente.
La Siria, secondo il Mossad, starebbe insomma procedendo a un riarmo considerato quasi fisiologico dopo le tensioni generate dalla guerra dell’estate 2006. La paura israeliana di non poter reggere un doppio scontro sullo scacchiere di Gaza e su quello settentrionale resta, invece, un’ammissione di debolezza senza precedenti. Ad aumentare le incertezze israeliane contribuisce ovviamente la minaccia nucleare di Teheran, ma l’Iran, secondo strateghi e analisti, non è ancora il problema principale. Oggi il grande disagio di Tsahal deriva soprattutto dalla perdita nello scontro con Hezbollah, della più importante e significativa arma messa a punto in 58 anni di guerre. Quell’arma, dispiegata nel ’67 e conservata intatta fino al luglio del 2006, si chiamava «deterrenza» ed era la principale garanzia da ogni attacco esterno. Hezbollah l’ha incrinata e ora - nonostante armi e tecnologie continuino a consacrarne la superiorità materiale - Israele si sente un po’ meno invincibile, un po’ meno sicuro, un po’ meno padrone della situazione.

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