giovedi` 15 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.05.2007 In Iraq si può ancora ( e si deve) vincere la guerra
e la crisi del paese non è una conseguenza della fine della dittatura

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Giulio Meotti - Christopher Hitchens
Titolo: «Soldati di Liberazione - Il crollo dell'Iraq? Inevitabile»

Dal FOGLIO del 24 maggio 2007:

I loro nomi sono Anthony J. Schober, Alex Jimenez, Joseph Anzack e Byron Fouty. Sono i quattro soldati americani rapiti da al Qaida in un agguato del 12 maggio, quando altri tre persero la vita. Ieri è arrivata la notizia che il cadavere di uno di loro è stato ritrovato nella zona di Mahmoudiya, a sud di Baghdad. Si parla di altri due cadaveri nella zona di Musayyib, provincia meridionale di Babil. Uno sarebbe stato decapitato. Il dissidente iracheno Kanan Makiya non è sorpreso della dolorosa notizia, con al Qaida non si tratta. I soldati americani Makiya li ha sempre chiamati “liberatori” e il vicepresidente Dick Cheney all’inizio della guerra citò un suo scritto in cui Makiya diceva che gli iracheni avrebbero messo fiori sulla cima dei loro cannoni. “L’Iraq è diventato il fronte di una guerra fra le forze della libertà e quelle del jihadismo e dell’arabismo”, ci dice Makiya. A Baghdad si sta combattendo una guerra diversa rispetto a quella del 2003. “C’è stata una guerra di liberazione vinta dagli americani, e ora una civile che riguarda gli iracheni, ne va del loro futuro. Da un lato abbiamo il qaidismo e le forze della reazione che lavorano per il collasso del paese, dall’altro ci sono coloro che costruiscono”. Sul dibattito politico a Washington taglia corto: “L’Iraq potrà vivere senza la protezione degli americani. Ma ci servono altri cinque anni. Sono un uomo felice e spaventato. La liberazione dell’Iraq ha scatenato le furie sottomesse durante il regime totalitario. Non sono capace di rimorso per la guerra, come fanno oggi molti democratici. E’ così maoista pentirsi. Tra i miei errori non c’è aver sostenuto l’invasione, ma aver sottovalutato il Baath e i danni delle sanzioni: l’Iraq era un paese di venticinque milioni di persone prive di speranza. Una nazione di vittime di quel gigantesco campo di concentramento che sono state catapultate su un pianeta sconosciuto”. In quest’intervista al Foglio, Makiya parla del suo nuovo libro sulla guerra. Christopher Hitchens lo ha chiamato il “Dubcek del medio oriente”, altri hanno evocato Thomas Jefferson per il suo ruolo nella carta costituzionale, altri ancora Alexander Solzhenitsyn. Nell’aprile 2003 Makiya era nello studio ovale con Bush a guardare in tv i marines che abbattevano l’odiosa statua di Saddam. Intellettuali musulmani del calibro di Eqbal Ahmad e Tariq Ali lo accusano di “collaborazionismo”. Come scrittore ha dedicato la sua vita alla memoria del milione e mezzo di vittime di Saddam. In questa veste ha scritto la Costituzione del nuovo Iraq. Suo padre, il più grande architetto iracheno, era “persona non grata” al regime. Nel 1989 Makiya scrisse “Republic of Fear”, epocale atto d’accusa contro Saddam. Prima di vederne l’uscita, passò per molti rifiuti delle case editrici americane, nessuno voleva pubblicare un libro sotto pseudonimo, adottato per timore della polizia segreta del Baath. Makiya si sarebbe rivelato al mondo due anni dopo, in un convegno con Ahmed Chalabi e l’attuale ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari. Dopo la liberazione del Kuwait e del Kurdistan ha intrapreso un progetto finanziato da Harvard di riordino dei documenti del regime sequestrati dagli angloamericani e portati in salvo dai peshmerga di Jalal Talabani. Nella cittadina di Hilla il corpo di élite di Saddam separò gli uomini dalle donne, a gruppi di cento. Per sei giorni li tennero senza cibo né acqua, li portarono nel deserto con gli autobus, le fosse comuni erano pronte. Li fucilarono come i nazisti a Baby Yar. La grande tomba collettiva di Hilla, che conteneva tremila cadaveri, verrà scoperta nel 2003. In una villa di Baghdad vicino al fiume c’era una delle tante sedi del Mukhabarat, la polizia segreta: a un gancio da macellaio Usay Hussein appendeva i prigionieri. Ad Anfal fecero bere urina agli sciiti, spararono dentro ai camion, senza farli scendere. A Suleymania c’era una “stanza degli stupri”, Halabja fu trasformata in una camera a gas a cielo aperto. A Kirkuk un documento ufficiale parla di ottantasette esecuzioni sommarie. Un altro del quartier generale di Baghdad richiede di eliminare bambini handicappati e sordomuti non in grado di camminare. A una famiglia arrivò la fotografia della figlia, nuda su un tavolo di tortura, i soldati giocavano a carte sul suo corpo. A Dujail si usava mettere cento grammi di esplosivo nel taschino della camicia di oppositori con mani e piedi legati, collegati alla batteria di un’automobile. Sono alcune delle tante storie raccolte e rubate all’oblio da Makiya. Sotto Saddam, le persone erano pronte a giurare di non avere mai avuto un fratello o un figlio. Makiya ha ridato loro una voce. Dopo l’invasione ha presentato al Congresso la Fondazione della Memoria, il museo delle atrocità commesse tra il 1968 e il 2003 sull’esempio di quello dell’Olocausto. Claudia Rosett ha proposto all’Onu di donargli venti milioni di dollari come simbolico risarcimento per la corruzione di Oil for Food. La Fondazione conserva undici milioni di documenti. La chiama “traccia cartacea del terrore”. Le prove del genocidio curdo, dello sterminio degli sciiti, dei finanziamenti ai martiri, delle fosse comuni. In casa sua ha otto hard disk che contengono parte di quella storia. Documenti che ha condiviso con il tribunale che ha processato Saddam. “Alla fine di giugno avremo completato l’archiviazione dell’orrore. Stiamo conducendo interviste sui delitti del Baath. Lavoriamo ai documenti dei servizi segreti, trovati a Baghdad. C’è ancora molto da fare”. Non gli è piaciuto il modo in cui Saddam è stato giustiziato. “Era responsabile della morte di un milione di iracheni, ha usato gas e armi chimiche contro il suo popolo. E’ stato giustiziato per la morte di poche centinaia di sciiti a Dujail, senza dover rispondere dell’uccisione di decine di migliaia di curdi al nord. Il modo in cui è stato impiccato è stato un fallimento della leadership irachena. Così come la debaathificazione, di cui sono sempre stato uno dei sostenitori, è stata realizzata come desunnificazione. Abbiamo bisogno di leader per i quali la sofferenza passata sia qualcosa da superare, non una bandiera da mostrare. Gli Stati Uniti hanno sbagliato nella strategia del mazzo di carte, cercare solo la piramide irachena. Il risultato è che migliaia di thugs, assassini, ex ufficiali dell’intelligence e militari guidano oggi l’insorgenza”. Makiya non vuole sentir parlare di date di ritiro. “Se abbandoniamo l’Iraq, vinceranno le forze che stanno cercando disperatamente di riportare in vita il vecchio ordine. Gli Stati Uniti hanno cambiato il modo di pensare in quella parte del mondo. Ma non erano preparati per la storica responsabilità che si sarebbero assunti. A causa dell’11 settembre, a causa della rabbia popolare, l’America aveva capito di dover essere parte di una liberazione, che doveva avere il contatto con la popolazione araba. Solo così poteva sconfiggere al Qaida e l’ideologia salafita. Alcuni però hanno chiamato l’America ‘superpotenza riluttante’. C’è un elemento di verità. Esiste una solitudine del potere americano nel mondo arabo”. Non hanno senso le distinzioni fra secolari e religiosi. “Gli islamisti offrono un diverso spettro di riferimenti e di eroi rispetto al baathismo, ma è la stessa visione eroica del passato arabo. E in nome di quella combattono. Saddam disseminò Baghdad di moschee finite per metà. Usò un linguaggio islamista dalla guerra con l’Iran. Proibì ai cristiani di usare nomi caldei e siriaci. I decrepiti regimi arabi usciti dalla Seconda guerra mondiale avevano una mentalità vicina a quella degli islamisti. Ancora non siamo in grado di dire quale fosse l’obiettivo di Saddam nell’ospitare al Qaida. Ma Zarqawi era a Baghdad prima dell’invasione. La stessa insorgenza sunnita è erede di organizzazioni baathiste come i fedayin di Saddam”. E’ in corso una guerra fra due Iraq. “Molti errori sono stati fatti, soprattutto da parte della classe politica irachena. Ma non avevamo alternative alla guerra. L’Iraq era un bomba pronta a esplodere nelle mani della comunità internazionale. L’invasione ha accelerato il processo di disintegrazione. Trentacinque anni di regime di Saddam hanno profondamente marcito l’Iraq, trasformandolo in un gigantesco campo di concentramento”. La violenza fu inoculata da Saddam alla società e alla cultura. “La violenza di oggi è la continuazione di quella del tiranno. L’insorgenza è figlia di Saddam. E’ come l’abuso su un figlio, sta continuando. Nessuno di noi che sostenemmo la guerra si aspettava una simile violenza. O che l’esperimento iracheno sarebbe stato lasciato solo in Europa, tranne eccezioni come Gran Bretagna, Italia e Polonia. Abbiamo pagato un prezzo altissimo per quel tradimento. Io pensavo alla Guerra civile spagnola, l’universalismo dei diritti umani”. Makiya è felice di aver contribuito alla stesura della Costituzione. “E’ una carta genuina, il prodotto di una storia nuova. Purtroppo, non è chiarissima su alcuni punti. Un nuovo modello arabo federale è nato, muove i suoi primi passi come un neonato, è una grande novità storica. Il federalismo non può però fondarsi sul settarismo, ma sulla decentralizzazione attraverso un governo forte. C’è una certa tristezza per il fatto che la prima università americana sia dovuta nascere in Kurdistan e non a Baghdad. Il futuro dell’Iraq dipende da cosa faranno Iran, Giordania, Egitto, Siria e Arabia Saudita. La regione versa nel disordine, questo lambisce i confini iracheni”. Ricorda il giorno al fianco di Bush mentre a Baghdad veniva abbattuta la statua del tiranno. “Un momento bellissimo. Sono orgoglioso per quella giornata”. Nel lungo termine è ottimista. “Una nuova storia è stata scritta. L’élite politica irachena non è stata all’altezza. La mia paura non è al Qaida, non ha alcun programma e uccide per uccidere come facevano i nazisti. Stanno distruggendo il popolo iracheno. Al Qaida sarà sconfitta. La mia paura è l’attacco alle comunità in quanto tali, sciiti perché sciiti, sunniti in quanto sunniti, iracheni uccisi perché si chiamano Ali. Questo avrà un effetto sul futuro”. Poi ci sono le buone notizie. “Per la prima volta un popolo arabo pensa politicamente, crea partiti, stampa giornali, non minaccia i vicini, parla al mondo. La seconda notizia buona è che curdi e sciiti, vittime di Saddam, stanno molto meglio oggi che nel passato. E questo per uno sciita come me è sufficiente a giustificare la guerra. Coloro che parlano di un ritiro americano in Kurdistan non hanno idea di cosa significherebbe. Il mondo arabo vedrebbe il fallimento americano”. Servirà una generazione per capire quanto veleno Saddam abbia sparato nelle vene degli iracheni. “Sarà come l’Olocausto. Quell’uomo ha ucciso un milione e mezzo di persone. E’ stata la più terribile dittatura del dopoguerra. La storia giudicherà con grande affetto l’avventura americana in Iraq. Tutti spiavano tutti in Iraq, la cultura del sospetto è riemersa con il settarismo. Saddam ha reso tutti complici del regime criminale. L’inizio della speranza è stata la presa di coscienza che il regime aveva reso tutti vittime. Quel totalitarismo per trent’anni ha usato questo strumento finissimo”. Saddam aveva anche distrutto la dissidenza interna. “E’ stato uno dei problemi della transizione alla democrazia. Non c’era leadership che potesse assumere il potere, l’Iraq non è come l’Europa orientale o la Russia prebolscevica. La sinistra araba era moribonda, il secolarismo sciita isolato, hanno preso il potere i religiosi. Ma è responsabilità degli sciiti, non degli americani. Gli sciiti sono i soli in grado di fermare la violenza. Lo dissi nel 1993, è più che mai vero oggi. Poi c’era il Dipartimento di stato che voleva solo dissidenti interni, a noi ci descriveva come gente da Rolex, o peggio, come i curdi, che non conoscono il paese”. Makiya è felice che Bernard Kouchner sia protagonista del nuovo corso francese. “E’ un bel segnale, noi iracheni siamo stati traditi dall’Europa. L’Europa dei diritti umani ha voltato le spalle al nostro popolo. Chirac era un venduto in affari con Saddam. Non dimentico l’assenza di compassione della maggior parte del mondo libero. Il cambio di regime era basato non sulle armi, ma su considerazioni umanitarie. Questa guerra è giustificata sul terreno morale, ciò che abbiamo di più caro nella civiltà. Solo pensando in termini relativistici possiamo giustificare la permanenza al potere di uomini come Saddam. L’Europa ha giustificato le fondamenta del regime. E’ un’impasse della civiltà. Si chiama compiacenza”. Quest’uomo ferito non nasconde che molte delle speranze del 2003 sono andate perdute. “Agli iracheni è stata data la possibilità di scrivere il futuro. All’inizio gli errori sono stati degli americani. Poi hanno corretto la politica. Dopo sono stati solo errori iracheni. Non avevamo un Mandela di cui andar fieri. Non era facile passare dal linguaggio delle vittime a quello della democrazia, da una repubblica della paura a una dell’incertezza. Ci vorrà tempo e sangue, ma sta emergendo un nuovo modello nella regione. L’Iraq non è l’Afghanistan. Possiede le risorse per diventare una grande forza per la democrazia e la ricostruzione nel mondo arabo, com’è stata una forza per la distruzione”. Un Iraq unito può esistere: “Non è un’invenzione britannica. Non abbiamo alternative all’unione di sunniti, curdi e sciiti. Sono loro che devono decidere che cosa significa essere un iracheno. Ci sono curdi a Baghdad e arabi a Sulaimaniya, turcomanni armeni e caldei mescolati ad arabi e curdi in molte regioni. Per i baathisti essere arabo era invece un segno di fedeltà”. A Washington ci si lamenta per una guerra più lunga della Seconda guerra mondiale. “Ridicolo. In Iraq ci sono centocinquantamila truppe, in Europa a milioni. La domanda non è se l’America può vincere la guerra. Potrebbe farlo in un attimo. Ma se ha la volontà politica per farlo. I paesi arabi non aprono ambasciate a Baghdad perché non intendono legittimare l’ordine iracheno. Il popolo iracheno è furioso con il mondo arabo che non lo ha sostenuto e preferisce appoggiare i terroristi in nome della ‘solidarietà araba’. Come nel caso del kamikaze giordano Raed Mansour al Banna che uccise 125 iracheni a Hilla. Anziché un funerale, i giordani gli organizzarono una festa. Questa guerra ha portato in superficie il malessere arabo che risale al ’67. Non si è mai ripreso dall’umiliazione inferta da Israele. Il popolo iracheno è sceso per strada contro la politica della barbarie di al Zarqawi: ‘Abbiamo dichiarato guerra alla democrazia’. Le elezioni sono state la seconda grande rivolta irachena dopo la sollevazione del 1991. Niente di simile era mai successo prima”. Makiya è tornato a Baghdad nell’aprile 2003, dopo trent’anni di esilio. “Fu un’emozione indescrivibile, una gioia che non immaginavo possibile”.

Dal CORRIERE della SERA:

I l recente libro di Ali Allawi, «L'occupazione dell'Iraq: vincere la guerra, perdere la pace» merita tutta l'attenzione e i numerosi riconoscimenti che gli sono stati tributati. L'opera non è passata inosservata a scrittori come Maureen Dowd, la quale, pur di mettere a segno l'ennesimo colpo contro il governo Bush — e rimproverando addirittura altri analisti per la scarsa conoscenza della realtà irachena — confonde l'autore con il cugino Iyad Allawi, ex primo ministro dell'Iraq. Il libro di Allawi è scritto con la mente e con il cuore. Nei suoi passati incarichi di ministro della Difesa e delle Finanze, dalla caduta di Saddam, e come membro dell' Assemblea Nazionale, Allawi deve avere rischiato la vita più spesso di tanti militari di professione, ma di questo nel libro non si trova altro che un breve accenno.
Possiamo accettare come generalmente vere le critiche che Allawi muove alla politica americana in Iraq, perché sufficientemente convalidate da altri testimoni, a cominciare dalla totale ignoranza circa le condizioni del Paese fino alle congetture azzardate sulle misure necessarie per rimediare agli errori. Tuttavia, questa opinione oggi diffusa talvolta conduce a conclusioni che secondo me Allawi non condivide.
Di tanto in tanto ci sentiamo ripetere in tono stranamente neutro che stragi e terrore di natura settaria sono state «scatenate», se non addirittura «fomentate», dall'arrivo della coalizione, termini che sortiscono il medesimo effetto giustificativo. Ma Allawi non sopporta una retorica di questo genere. L'autore afferma semplicemente che: «Al suo arrivo a Bagdad il 9 aprile 2003, la coalizione ha trovato una società frammentata e brutalizzata, tiranneggiata da una minoranza spaurita e pesantemente armata. La cultura jihadista post 11 settembre che avrebbe successivamente travolto l'Iraq cominciava proprio allora ad attecchire. Le istituzioni statali erano agonizzanti; lo stato stesso, esaurito. L'ideologia che aveva retto il regime baathista fino ad allora era ormai degenerata, senza possibilità di ripresa».
Mi soffermo su due punti. Primo, è un vero piacere sentire qualcuno che utilizza il termine «brutalizzato» correttamente, a significare non solo i maltrattamenti e le violenze subite, ma anche la consuetudine alla brutalità. Secondo, se quello che sostiene Allawi è vero, allora l'Iraq puntava direttamente all'implosione e al fallimento, sia come stato che come società, ben prima del 2003. Non solo, ma si capisce come l'élite di governo, sunnita, fosse sempre più tentata dall'ideologia salafita. In tali circostanze — come affermavano tanti dissidenti iracheni anche in quei giorni — gli Stati Uniti dovevano sapere che il futuro dell'Iraq sarebbe stato disastroso, che fossero intervenuti militarmente o no. Come aveva fatto un Paese ricco di risorse petrolifere e nel pieno dello sviluppo economico negli anni Settanta a precipitare in una situazione così catastrofica? Proprio perché il compromesso storico tra sunniti e sciiti, per quanto fragile e scomodo, era stato stravolto dalla dittatura e dall'aggressione esterna. Nelle parole di Allawi: «Lo stato aveva rimosso quegli elementi che mantenevano in vita una forte identità sciita, parallelamente a uno stato dominato dai sunniti. Le nazionalizzazioni, l'emigrazione e le espulsioni hanno devastato la classe commerciante sciita; il monopolio di stato sull'istruzione, l'informazione e l'editoria ha sradicato le basi culturali della vita sciita».
Senza sminuire le critiche alla gestione del dopo invasione, quest'analisi porta a conclusioni particolarmente inquietanti: intervento o non intervento, l'Iraq era comunque predestinato a essere travolto dal caos. Questa tesi è corroborata da un'altra constatazione, e cioè che lo sgretolamento politico avanzava già con prepotenza nel decennio precedente il 2003. Di nuovo, la sobria analisi di Allawi, basata su prove accurate, contribuisce ad aggravare uno scenario in sé già assai fosco.
La politica americana non poteva restare indifferente davanti a tutta questa sofferenza, miseria e demagogia, se non altro perché l'intero contesto iracheno era stato plasmato da due decisioni americane. La prima, di lasciare Saddam al potere dopo il '91 e restare a guardare mentre massacrava sciiti e curdi, un'azione che Allawi definisce giustamente «imperdonabile». La seconda, di imporre sanzioni, le quali, per la loro eccessiva durata, hanno recato danni peggiori a una società già duramente travagliata che non al suo governo spietato e corrotto.
Nessuno meglio di me è al corrente di tutti i fallimenti della nostra politica dopo- invasione, e potrei aggiungere anche altre osservazioni in base alla mia esperienza. Ma ho sempre sentito profondamente che l'Iraq è nostra responsabilità in un modo o nell'altro, e che rinunciare all'intervento o rimandarlo avrebbe significato solo essere costretti ad agire successivamente, in condizioni forse più spaventose e pericolose di quelle che ci sono diventate familiari. Non so se Allawi sarebbe d'accordo con la mia valutazione, ma il suo libro, lucido e coinvolgente, presenta argomenti che sarebbe molto difficile contestare.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio e del Corriere della Sera


lettere@ilfoglio.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT