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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
22.05.2007 Come Damasco sostiene il terrore jihadista
e un reportage sui campi profughi palestinesi in Libano

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Guido Olimpio - Lorenzo Trombetta
Titolo: «Il doppio gioco di Damasco con i «volontari della Jihad» - Paura e scuole chiuse, solo nel ghetto ci sentiamo al sicuro»

Dal CORRIERE della SERA del 22 maggio 2007:

Un episodio avvenuto nella città siriana di Homs alla vigilia di Natale aiuta a capire il gioco delle ombre. Un team dell'intelligence militare circonda un covo qaedista e viene coinvolto in un conflitto a fuoco che provoca numerose vittime e svela un dettaglio imbarazzante. Insieme ai terroristi c'erano degli 007 venuti da Damasco con il compito di scortare i militanti verso l'Iraq. L'incidente rivela la tattica di Damasco. Da una parte tiene d'occhio i jihadisti nel timore che colpiscano in Siria (è già accaduto), dall'altra li incoraggia ad agire in altri Paesi.
La comparsa dei qaedisti di Fatah Al Islam ha fatto tornare d'attualità le manovre di Damasco. Fonti dell'opposizione siriana e ambienti nazionalisti di Beirut — dunque ostili al regime di Bashar Assad — hanno fornito nuovi elementi. In base alle loro informazioni, gli agenti del Mukhabarat hanno aperto a Al Chanchar, a ovest di Homs, una base per volontari arabi. Un buon numero di loro è stato instradato verso l'Iraq mentre un nucleo più ristretto ha preso la via del Libano. Tra questi ultimi vi sarebbero i seguaci di Al Islam e il leader Shakir Al Abssi. Il contingente ribelle sarebbe entrato nel territorio libanese da nord, nella zona dell'Akkar, attraversando Wadi Khaled. Quindi si sarebbe insediato nel campo profughi di Nah el Bared. Altri militanti sarebbero invece andati a rinforzare le fila di Jund Al Sham, piccola fazione presente nel campo di Ein el Hilweh (Libano sud), e di Al Qaeda-Libano. Sempre secondo le indiscrezioni la battaglia di Tripoli è solo il primo atto, presto seguito da una serie di attentati — come è avvenuto — e «incidenti» creati da drusi filo-siriani o attivisti del SSNP (partito pro-Damasco).
Nell'analisi degli ambienti beirutini il «complotto siriano» è l'estremo tentativo per bloccare l'inchiesta Onu sull'assassinio dell'ex premier Hariri che vede la Siria come sospetto numero uno. C'è chi è convinto che l'eliminazione non sarebbe potuta avvenire senza il sì di Assad. Altri non escludono una iniziativa dell'intelligence siriana. In particolare di Asef Shawkat, cognato di Bashar e soprattutto responsabile dei servizi militari. In virtù di questa carica — accusano i suoi nemici — è in grado di tirare i fili libanesi.
E tra i suoi burattini potrebbero esserci gli estremisti di Fatah Al Islam. Loro credono di combattere nel segno di Al Qaeda — e probabilmente appartengono a quel mondo — ma in realtà fanno da sponda a chi vuole spingere il Libano verso il caos. Per Beirut è la Siria, per i palestinesi è Israele, per altri è l'integralismo.
È questo il marchio sfumato della nebulosa integralista libanese. Troppo piccola per nutrire ambizioni politiche ma abbastanza grande per creare problemi. Tanto è vero che tra gli uccisi a Nahr el Bared c'è un terrorista coinvolto in un fallito attentato sui treni in Germania. Una vendetta per la storia delle vignette sataniche in Danimarca. La conclusione — non definitiva — è che Fatah Al Islam possa essere l'ultimo prodotto della proliferazione di Al Qaeda ma si è poi tramutata in uno strumento nella battaglia libanese. Innescando una crisi che aiuta i qaedisti a estendere l'incendio iracheno a Giordania, Libano, Palestina. Un rogo però che fa comodo a chi, come la Siria, ha mire su Beirut.

Dalla STAMPA, un articolo di Lorenzo Trombetta. Interessante quando ricorda la situazione di discriminazione dei palestinesi in Libano.
Disinformante quando presenta Al Fatah come gruppo moderato, i jihadisti come semplici criminali strumentalizzati da potenza straniere non meglio precisate.
Ipotesi del genere dovrebbero essere circostanziate e precise

Nessun ingorgo di macchine rallenta oggi l'accesso al campo profughi di Shatila, nella periferia sud di Beirut, dove sono ammassati circa 10mila rifugiati palestinesi. Poche le bancarelle di frutta e verdure che di solito affollano la via principale, assenti gli ambulanti sulla strada che dal quartiere sciita di Ghobeiri porta dentro al campo. Sembra il venerdì di preghiera, quando non si lavora e si rimane a casa, ma è solo lunedì, un lunedì di tensione con la speranza che gli scontri di Tripoli tra miliziani di Fatah al-Islam e soldati dell'esercito libanese non abbiano ripercussioni sulla già precaria vita del campo. Raddoppiati invece i posti di blocco dei militari governativi, rigorosamente situati fuori dall'area abitata da palestinesi, come prescritto negli accordi del Cairo del 1969 siglati dall'allora governo di Beirut e dai dirigenti di Fatah.
Anni lontani perché oggi la causa della resistenza palestinese in Libano non è più sentita come allora e i profughi dei campi sanno di esser da soli. Superato il posto di blocco, un negozio di alimentari è rimasto aperto ma Safwan Dari, il proprietario, originario di un villaggio a nord di Haifa, non è interessato ai clienti: occhi e orecchie sono puntati allo schermo del suo piccolo televisore in bianco e nero che da ieri racconta i drammatici eventi di Nahr al- Bared. «Qui non ci sono estremisti - dice Safwan - ma ci sentiamo minacciati anche perché ci sono molti a Beirut che non vedono l'ora di prendersela con noi palestinesi».
Shatila, al contrario di Nahr al-Bared o di Ayn al-Hilwe (il campo più affollato del paese con più di 80mila rifugiati), non è percorso dalle divisioni tra le varie fazioni. Qui il controllo delle milizie e dei «comitati di vigilanza» di Fatah è assicurato in quasi tutti gli angoli del perimetro. Qui non sembra esserci spazio per le attività paramilitari di gruppuscoli di estremisti come Fatah al- Islam di Tripoli. «Alcune moschee dei campi di Beirut – ci spiega Zouhayr al-Hawari, docente all'Università libanese di Beirut ed esperto di formazioni estremiste islamiche in Libano - sono controllate da imam di tendenza salafita, ma questi non hanno per il momento la forza di organizzare attorno a sé bande di criminali travestiti da fondamentalisti come invece accade a Sidone e Tripoli». Ma Hawari non nega che «in caso di un allargamento delle violenze anche ad altre zone del paese, gruppi di estremisti, magari arruolati, addestrati e pagati da qualche servizio di sicurezza di paesi stranieri interessati a destabilizzare il Libano, possano spuntare anche nei campi considerati meno a rischio».
Le strade di Shatila si confondono a quelle del resto della periferia cittadina. I suoi palazzi, costruiti piano su piano nel corso dei decenni senza alcun ordine, portano ancora i segni dei combattimenti della guerra civile libanese. Ai muri, appeso qualche ritratto di Arafat, pubblicità di un istituto privato per imparare l'inglese, immagini dello shaykh Yasin di Hamas, opuscoli di negozi dove acquistare dvd e cd contraffatti. Per strada non ci sono bambini che giocano perché «sono tutti a casa». Le scuole sono chiuse, a Shatila come negli altri campi del Libano, né riapriranno domani.
In tutto il paese dei Cedri ci sono 12 campi, concentrati attorno alle principali città costiere. Secondo i dati dell'Unrwa, l'agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi, i profughi in Libano sono oggi più di 400 mila (ben il 10 per cento della popolazione libanese), ma secondo stime non ufficiali il loro numero sfiorerebbe il milione, la maggior parte nati e cresciuti in Libano, nipoti di palestinesi scappati per lo più dalla Galilea e dalle città costiere di Haifa e Acri nell'ondata del 1948-49. Da decenni esiste è in vigore in Libano una legge che vieta ai rifugiati di lavorare come liberi professionisti: medici, avvocati, notai, ingegneri, sono tutte carriere a loro precluse.
E i campi così sono dei veri e propri ghetti, isolati dal resto del paese. «Raramente esco dal campo perché la mia vita è qui. La famiglia, gli amici, la scuola, i passatempi», spiega Za'ira Allush, 16 anni, uscita di casa per comprare della verdura e del labne, lo yogurth filtrato con cui ammorbidire le focacce non lievitate cotte sulle tradizionali piastre roventi. Impensabile anche uscire fuori dal campo: «Qui siamo protetti dalla nostra gente, mentre là fuori siamo stranieri», confessa Manal B., 42 anni, madre di quattro bambini che continua: «Non ho molti contatti con i libanesi e se capita è solo per necessità. La nostra terra è la Palestina, non il Libano. Qui siamo solo di passaggio». Da almeno tre generazioni.

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