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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Unità - Il Riformista Rassegna Stampa
02.04.2007 Propaganda per il piano saudita e per il governo palestinese
senza vedere i rischi del primo e la natura del secondo

Testata:L'Unità - Il Riformista
Autore: Umberto De Giovannangeli - Paola Caridi
Titolo: ««La pace ora è possibile, Israele non sprechi la chance» - Fayyad, il palestinese che piace all’Occidente»

Da L'UNITA' del 2 aprile 2007, un'intervista ad   Azzam el-Ahmad, vice primo ministro del governo di unità nazionale palestinese, esponente dell'ala riformatrice di Al-Fatah, che spiega quanto il piano saudita sia un'occasione per la pace, quanto bene faccia l'Europa a sostenerlo  e quanto la D'Alema fraccia bene a considerare un "passo avanti" il governo di unità nazionale palestinese (che adotta la piattaforma politica di Hamas).

L'intervistatore, Umberto De Giovannangeli, appare soprattutto preoccupato che el-Ahmad possa far arrivare il suo messaggio al pubblico italiano. Evita in genere i punti critici, e quando li sfiora passa subito oltre. Non contesta mai.

Il fatto che el-Ahmadi sia parte in causa non sarebbe di per sè soprendente: vengono intervistati anche ministri israeliani.
Ma bisogna ammettere che in questo caso c'è qualcosa di sorprendente. Un ministro palestinese viene interpellato per stabilire che il piano saudita è un'occasione unica per Israele di ottenere la pace e per autocertificare che il suo governo è un passo avanti.

Un po' troppo facile. Ecco il testo:
 
«L'Europa fa bene a sostenere il piano di pace arabo. Perché il vertice di Riad ha davvero segnato una svolta strategica che può portare ad un accordo di pace globale in Medio Oriente. Bene ha fatto il ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema a rilevare come si tratti di una opportunità storica. E al centro di questa pace globale c'è la nascita di uno Stato palestinese indipendente, a fianco dello Stato d'Israele». A parlare è Azzam el-Ahmad, viceprimo ministro del governo di unità nazionale palestinese, esponente dell'ala riformatrice di Al-Fatah. «Ciò che mi ha colpito del vertice di Riad è stato il clima che ha caratterizzato l'incontro: in tutti i leader c'era la consapevolezza che l'intero Medio Oriente è a un bivio: o il rilancio di una iniziativa politica per una pace globale, oppure l'alternativa non sarà il mantenimento dell'attuale status quo ma una devastante, guerra generalizzata».
Si può parlare davvero di svolta riferendosi al vertice della Lega Araba?
«Lo si deve fare. Perché a Riad, grazie soprattutto alla determinazione dei sauditi, i leader arabi hanno fatto una scelta strategica: quella per la pace con Israele. Una pace vera, che è ben altra cosa da una "non guerra". Una pace giusta, stabile, fondata sulla legalità internazionale».
Il che vuol dire?
«Ventidue leader arabi hanno lanciato un messaggio inequivocabile a Israele: lavoriamo per raggiungere un accordo globale fondato sul principio "Pace in cambio di Territori", dove pace significa relazioni diplomatiche, cooperazione economica, apertura, e non solo sicurezza. Una pace che ha al suo centro una soluzione del conflitto israelo-palestinese fondata sul principio di due popoli, due Stati. Sta a Israele ora rispondere a questo messaggio di dialogo».
Il primo ministro israeliano Olmert ha mostrato interesse per le conclusioni del vertice di Riad.
«Il modo migliore per mostrare interesse è dirsi disponibile a un negoziato che porti ad un accordo di pace globale».
Questo negoziato dovrebbe coinvolgere anche la Siria?
«Pace in cambio dei Territori è un principio che chiama direttamente in causa la Siria. D'altro canto, a Riad il presidente Assad ha sottoscritto la Dichiarazione finale e ne ha assunto l'ispirazione e i contenuti. Israele può avere meno territori, occupati con le guerre, ma più sicurezza. Può essere pienamente integrato nella Regione, sviluppare accordi di cooperazione, o scegliere di essere percepito ancora come una entità ostile. Una pace globale non può essere a "costo zero". E questo vale per Israele ma anche per noi palestinesi e per il mondo arabo».
In una intervista a l'Unità, il ministro degli Esteri D'Alema, ha sostenuto che occorre avere il coraggio di avviare una politica non di "gestione della crisi" ma di "soluzione della crisi».
«Condivido pienamente questa considerazione. Per questo è necessario avviare da subito un negoziato che affronti tutte le questioni e sciolga tutti i nodi strategici sul tappeto: i confini dello Stato palestinese, lo status di Gerusalemme, una risposta equa e condivisa al problema dei rifugiati palestinesi. La politica dei piccoli passi, che ha caratterizzato gli accordi di Oslo, si è rivelata alla prova dei fatti inadeguata. Ma delle importanti affermazioni del ministro D'Alema abbiamo colto anche un altro punto-chiave…».
Quale?
«Il vicepremier italiano considera il governo di unità nazionale palestinese come un passo in avanti e il governo italiano ritiene che la nascita di questo governo rappresenti un rafforzamento del presidente Abbas. È così. E il vertice di Riad ne è stata una importante riprova. Questo governo non ha solo scongiurato una guerra civile nei Territori, ma ha anche la legittimazione popolare per negoziare un accordo globale con Israele e farlo rispettare. All'Europa, all'Italia, chiediamo di dare una chance al nuovo governo palestinese. I segnali che giungono dalle più importanti cancellerie europee, così come dalla Ue ed anche dal Congresso Usa, fanno ben sperare. Questo governo intende muoversi sulla strada del dialogo e al centro del programma vi è la pace. Una pace che realizzi l'aspirazione del popolo palestinese ad uno Stato indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale. Questo obiettivo è condiviso da tutte le forze politiche che danno vita al governo di unità nazionale, compresa Hamas».
Israele ribatte che nel programma del governo palestinese non c'è il riconoscimento dello Stato ebraico.
«Israele può essere riconosciuto e accettato come partner non solo dai palestinesi ma da tutti i Paesi della Lega Araba. È questo il senso della proposta lanciata da Riad. Una pace globale per un nuovo Medio Oriente. Con uno Stato in più, la Palestina, e un altro, Israele, pienamente integrato nel contesto ragionale».
Per ultimo tornerei ai rapporti con l'Italia.
«Con il popolo italiano e non solo con la sua dirigenza politica abbiamo forti legami di amicizia. Sappiamo che l'Italia vuole una pace giusta e sta agendo perché possa realizzarsi. Nel far questo, l'Italia non si mostra amica solo di noi palestinesi ma anche degli israeliani. Questo significa essere davvero super partes».

La normalizzazione dei rapporti della comunità internazionale con il governo palestinese di Hamas- Fatah è anche la preoccupazione di Paola Caridi che ne suggerisce la necessità  nella conclusione di un articolo sul ministro Salam Fayyad, pubblicato dal RIFORMISTA  .
Ecco il testo: 

Il primo obiettivo Salam Fayyad l’ha già raggiunto.L’invito ufficiale a Bruxelles, da parte del commissario per le relazioni internazionali dell’Unione Europea, Benita Ferrero Waldner. Appuntamento già stabilito: il prossimo 11 aprile. Era, d’altro canto, per raggiungere obiettivi di questo genere che il più famoso economista palestinese è stato designato - poco meno di un mese e mezzo fa - a ricoprire l’incarico di ministro delle Finanze nel nuovo governo di unità nazionale dell’Anp. Incarico, quello di “primo ragioniere”, che Fayyad aveva peraltro già ricoperto, tra il 2002 e il 2005, guadagnandosi ulteriore stima da parte dei suoi interlocutori internazionali, per essere stato il primo a mettere mano alla riorganizzazione del controllo delle finanze palestinese e ad aver iniziato la lotta a una corruzione quasi endemica nell’Anp. Da un anno, da quando era stato costituito il primo governo monocolore di Hamas ed erano appena iniziati i pourparler per una “grande coalizione” palestinese, il nome di Fayyad è d’altro canto sempre comparso in tutte le ipotesi e in tutti gli esercizi dietrologici. Il motivo è semplice. Fayyad è il palestinese più stimato all’estero, quanto il presidente Mahmoud Abbas. Una stima che nasce anzitutto - a dire il vero - da una comodità di fondo: Salam Fayyad conosce il mondo occidentale più di altri palestinesi (che pure, in tanti, in Europa o negli Stati Uniti hanno studiato). Perché dal paesino vicino alla città cisgiordana di Tulkarem, dov’è nato nel 1952, si è preso master e dottorato all’università del Texas, periodo di cui parla con George W. Bush quando si incontrano. Perché, giovane economista, si è fatto otto anni in Banca Mondiale sino al 1995. Perché, dopo Oslo, ha deciso di tornare a Gerusalemme, come uomo del Fondo Monetario Internazionale. E solo cinque anni fa ha deciso di impegnarsi del tutto dentro la politica palestinese. Uomo chiaro e diretto, Fayyad è - insomma - uno dei pochi palestinesi a venire invitato a convegni da vip come Davos, ma anche ad aver parlato alla conferenza di Herzliya, il più importante consesso israeliano. Non solo gli americani, non solo gli europei, anche gli israeliani vorrebbero averlo (e lo hanno avuto) come interlocutore. Fayyad avrebbe dunque potuto mettere d’accordo tutti, oltre i confini di Cisgiordania e Gaza, se fosse diventato premier. Ma lui, indipendente, eletto nel partito Terza Via con Hanan Ashrawi alle elezioni che decretarono il 25 gennaio 2006 la vittoria di Hamas, non avrebbe mai potuto guidare un governo di unità nazionale in circostanze come le attuali. Un ministero delle Finanze in pieno boicottaggio, invece, quello sì. Perché tutti - da Fatah a Hamas - sperano che Fayyad-mago Merlino riesca a rompere l’“incantesimo” dell’embargo. E far ritornare nelle casse vuote del suo ministero sia i fondi internazionali, sia i proventi fiscali di proprietà palestinese che Israele trattiene ormai da poco meno di un anno e che per Fayyad ammontano a circa 700 milioni di dollari. La stima che oltreconfine si ha per Fayyad è già riuscita a scavare qualche breccia nel muro del boicottaggio economico dell’Anp. Non solo in Europa, ma anche nel fronte arabo moderato, cui Fayyad, durante il recente vertice della Lega Araba, è andato a chiedere il più consistente impegno economico: al bilancio palestinese, per entrare a regime, servono 2.7 miliardi di dollari. Anche negli Stati Uniti Fayyad è visto come l’uomo che può far superare l’impasse, soprattutto in una fase nella quale a tutti - Washington in testa - conviene risolvere almeno un problema nel caos mediorientale, in vista della crisi con l’Iran. Non stupisce, quindi, che siano stati per primi proprio gli americani ad aprire di nuovo il canale col ministero delle Finanze palestinese, quando il console Usa a Gerusalemme - a metà marzo - ha incontrato Fayyad. E non è casuale, né sorprendente, che il principe degli economisti palestinesi si sia guadagnato la prestigiosa pagina delle opinioni del Los Angeles Times, il 31 marzo, con una richiesta pressante a togliere l’embargo al suo governo. Richiesta tutta politica e per niente ragionieristica, quella di un campione laico come Fayyad, che con la sua discesa in campo e la sua stessa accettazione di entrare in un governo con Hamas dice alla comunità internazionale che questo esecutivo è l’unico che poteva nascere in Palestina. Dove Hamas aveva vinto democraticamente le elezioni. E dove solo la grande coalizione avrebbe avuto la possibilità di moderare le posizioni del movimento islamista palestinese

Di fatto, ricordiamo, Hamas non ha moderato le sue posizioni, ma ha imposto le sue al governo.

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