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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
01.04.2007 La crisi dei marinai inglesi rapiti
le analisi di Nial Ferguson e Dennis Ross

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Nial Ferguson - Paolo Mastrolilli
Titolo: «Scuse per gli schiavi e ritiro dall'Iraq: così Teheran ha capito la fragilità inglese - “E’ un golpe dei pasdaran per arrivare all'atomica»
Nial Ferguson, in un'analisi pubblicata dal CORRIERE della SERA del 1 aprile 2007, vede nella debolezza mostrata dalla Gran Bretagna l'origine della crisi dei marinai rapiti.
Ecco il testo:


Che sia una lezione. Ancor prima che i politici inglesi avessero finito di chiedere scusa per la schiavitù, domenica scorsa, nel secondo centenario dell'abolizione della tratta degli schiavi, quindici soldati britannici sono stati presi in ostaggio dal governo iraniano. Quand'è che Tony Blair imparerà che, nelle relazioni internazionali, dimostrarsi disponibili equivale a lasciarsi calpestare?
Infatti, questo è il risultato di un eccesso di buoni propositi da parte del governo inglese. Un mese prima di esprimere il suo «profondo dolore e rammarico per il ruolo della nostra nazione nella tratta degli schiavi», Tony Blair aveva annunciato l'intenzione di ridurre il numero dei soldati inglesi in Iraq, riportandone a casa 1600 nel giro di pochi mesi. «Il prossimo capitolo nella storia di Bassora — aveva dichiarato — sarà scritto dagli iracheni». Sfortunatamente, pare invece che sarà scritto dagli iraniani. E ho la sensazione che non ci chiederanno nemmeno scusa.
Fino alla presente crisi, l'Iran si ritrovava sulla graticola diplomatica. La settimana scorsa, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha varato nuove sanzioni per castigare il regime di Teheran, che non intende rinunciare alle sue ambizioni nucleari. Serpeggiava non poca irritazione, persino da parte della Russia, fino ad allora assai conciliante, davanti alla sfida inamovibile dell'Iran. Ma guai a sottovalutare il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. Per riacciuffare l'iniziativa diplomatica, ha preso di mira l'anello più debole del Consiglio di sicurezza, la Gran Bretagna per l'appunto.
Non ho il minimo dubbio che i marinai britannici fatti prigionieri il 23 marzo si trovassero effettivamente in acque irachene, e non iraniane. Gli iraniani stessi, subito dopo la cattura (e quasi involontariamente) lo hanno ammesso. Ma resta il fatto chiave che, o per sfortuna o per negligenza, quindici soldati inglesi, tra cui una donna, si trovano oggi tra le grinfie di Ahmadinejad. Di colpo, pare che il Consiglio di sicurezza non riesca a far nulla di meglio che esprimere la sua «grave preoccupazione«, anche se i prigionieri si trovavano in quelle acque proprio su mandato delle Nazioni Unite.
Imbaldanziti dal colpaccio, Ahmadinejad e i suoi sgherri si divertono a costringere Faye Turney, la donna marinaio, a firmare lettere fasulle che le sono state dettate in uno stile che si avvicina a quello di Borat: «Il popolo iraniano non mi ha fatto del male, ma si sta prendendo cura di me… Malgrado il nostro crimine, mi ha trattato bene e con umanità, per la quale sono e sarò eternamente riconoscente… Non è forse venuto il momento di ritirare le nostre forze dall'Iraq e lasciare agli iracheni il compito di decidere del loro futuro?».
La storia si ripete. Le donne inglesi cadute in prigionia svolgono un ruolo centrale nell'ultimo libro di Linda Colley, Captives: Britain, Empire and the World 1600-1850 (Jonathan Cape, 2002). Come la Colley fa notare, non furono solo gli africani a finire in schiavitù nei secoli diciassettesimo e diciottesimo. Decine di migliaia di inglesi hanno condiviso il loro destino, se cadevano nelle mani dei famigerati «Corsari di Barberia», i predoni marocchini e algerini che infestavano il Mediterraneo occidentale. La Faye Turney del 1756 fu Elizabeth Marsh, catturata davanti alla costa del Marocco e sottoposta, nel suo stesso resoconto, alle attenzioni amorose del futuro Sultano Sidi Muhammad. (Tra parentesi, che cosa aspetta il Re del Marocco a scusarsi di questi misfatti?).
A quei tempi, assai tenui erano le speranze di salvezza. Le forze armate britanniche erano disseminate su aree troppo vaste e in costante espansione per consentire missioni alla Rambo per liberare i concittadini ridotti in schiavitù o i prigionieri di guerra. L'unica speranza degli schiavi di Barberia era quella del riscatto, e a questo scopo si raccoglievano regolarmente offerte nelle chiese inglesi.
È sotto questa luce che dobbiamo interpretare i versi immortali di James Thomson: «Governa, Britannia! Britannia, governa le onde: i britannici non saranno mai schiavi». Quando furono messi in musica nel 1740, divennero l'incitamento rivolto ai governanti inglesi a conquistare per l'appunto i mari, proprio per impedire che i cittadini britannici corressero il rischio di finire in schiavitù.
Solo gradualmente, nel periodo dell'imperialismo britannico non esaminato dal libro della Colley, gli inglesi riuscirono a esercitare quel potere: non necessariamente il potere di impedire che gli inglesi fossero fatti prigionieri, bensì il potere di infliggere al nemico terribili rappresaglie per queste azioni. (Inoltre, non dimentichiamo il potere di abolire la tratta degli schiavi nell'Atlantico. Se non fosse stato per gli sforzi della Royal Navy,
la legge approvata duecento anni fa sarebbe stata vana).
A più riprese, gli inglesi dell'epoca vittoriana seppero punire coloro che avevano avuto la temerarietà di privare della libertà i cittadini inglesi, punizioni ancor più terribili nei casi in cui la vita o (peggio ancora) l'onore delle donne inglesi fosse a repentaglio. Nemo me impune lacessit, era l'antico motto della corona scozzese: «Nessuno mi sfida impunemente». E difatti, divenne il motto di tutto l'Impero vittoriano.
Immagino che un briciolo di quello spirito fosse ancora vivo negli anni Ottanta. Certo, ci fu qualcosa di distintamente vittoriano nella spedizione delle Falklands: la portata dell'impresa, le distanze coperte e il numero relativamente piccolo di cittadini britannici da trarre in salvo.
Ma oggi viviamo in un mondo diverso. La Gran Bretagna non sarebbe in grado di ripetere la Guerra delle Falklands, se l'Argentina decidesse di invadere le isole domattina. Né è pensabile che potrebbe inviare una forza d'urto a punire il governo iraniano. Se ci saranno azioni militari contro l'Iran nel corso di quest'anno, saranno intraprese dagli Stati Uniti, non dal Regno Unito. E a giudicare dall'assenza di Faye Turney dalle prime pagine della stampa americana, la crisi degli ostaggi britannici non rischia affatto di diventare un casus belli oltreoceano.
Nell'avvicinarsi al decimo anniversario della sua elezione a primo ministro, Tony Blair invita chiaramente un confronto con la Thatcher, l'unico altro premier ad aver goduto di un mandato altrettanto lungo dal 1827 a oggi. Eppure questa nuova crisi sui marinai prigionieri, come il superfluo mea culpa di Tony Blair sulla schiavitù, mette a nudo le profonde differenze tra il bravo ragazzo e la Lady di ferro.

Dennis Ross, intervistato da Paolo Mastrolilli per La STAMPA, analizza le ragioni della crisi sul versante iraniano, formulando un'ipotesi allarmante: quella di un golpe dei pasdaran per forzare il regime a costruire l'atomica.
Ecco il testo: 

Le cose stanno anche peggio di quanto sembri: «Io - dice Dennis Ross - temo che il rapimento dei quindici soldati britannici sia stato deciso autonomamente dalla Guardia Repubblicana, per spingere la leadership iraniana su posizioni più intransigenti. In gioco non c’è il semplice scambio tra prigionieri, ma la questione nucleare e il ruolo del paese».
Ross merita di essere ascoltato, perché poche persone al mondo hanno un’esperienza diretta del Medio Oriente come la sua. Per dodici anni è stato l’inviato speciale della Casa Bianca nella regione, servendo George Bush padre e Bill Clinton. Lui aveva creato la coalizione per la Guerra del Golfo nel 1991, lui aveva organizzato la conferenza di Madrid che dopo il conflitto aveva avviato il processo di pace, e ancora lui aveva messo intorno allo stesso tavolo Arafat con Rabin, Peres e poi Barak. Oggi lavora sulla regione a cui ha dedicato la vita nel Washington Institute.
Ambasciatore, perché gli iraniani hanno rapito i marines?
«Sospetto che l’operazione iniziale sia stata decisa dalla Guardia Repubblicana, senza un ordine del presidente Ahmadinejad o dell’ayatollah Khamenei».
Questo cosa significa?
«È in corso un braccio di ferro interno, un test su chi comanda davvero in Iran e dove andrà il paese nel prossimo futuro. La Guardia Repubblicana accusa una parte della leadership di essere troppo morbida sulla questione nucleare, e in generale sul ruolo del paese. Quindi ha catturato i soldati britannici per metterla davanti al fatto compiuto e obbligarla a prendere posizioni più dure. A seconda di come si evolverà la vicenda, capiremo chi ha vinto il braccio di ferro».
Il portavoce del dipartimento di Stato, Sean McCormack, ha escluso lo scambio tra i prigionieri britannici e gli iraniani catturati in Iraq. È un nuovo capitolo delle polemiche seguite al negoziato per la liberazione del giornalista italiano Mastrogiacomo in Afghanistan?
«Il dipartimento di Stato ha detto una cosa più importante. Ha dichiarato che non ci sono connessioni fra l’arresto degli iraniani in Iraq e la cattura dei soldati inglesi, aggiungendo che questa operazione ha lo scopo di distrarre il mondo dal comportamento di Teheran su altre questioni. Il punto è tutto qui: la partita è molto più ampia della semplice liberazione di alcuni prigionieri».
Cosa spera di ottenere la Guardia Repubblicana?
«Sconfiggere la corrente della leadership disposta al negoziato sul nucleare, dividere la comunità internazionale, e guadagnare tempo per andare avanti col programma atomico. A quel punto, quando la capacità di costruire la bomba sarà raggiunta, forse torneranno al tavolo del negoziato per trattare da una posizione di forza. L’obiettivo finale è ottenere il riconoscimento del ruolo dell’Iran come potenza regionale principale, nel confronto con Israele».
Come deve rispondere la comunità internazionale?
«Isolare l’Iran e fargli pagare cara la sua politica. La leadership vuole la bomba, ma non a qualunque prezzo: se imporremo sanzioni pesanti, magari attraverso l’Unione Europea, la Guardia Repubblicana potrebbe uscire sconfitta dalla sfida».
I soldati britannici sono in pericolo di vita?
«No, ma rischiano di restare prigionieri molto a lungo».

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