giovedi` 15 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Foglio - Il Giornale Rassegna Stampa
30.03.2007 I pericoli del piano saudita, e della proliferazione nucleare in Medio Oriente
le analisi di Carlo Panella e Mamoun Fandy, la cronaca di Gian Micalessin

Testata:Il Foglio - Il Giornale
Autore: Carlo Panella - la redazione - Gian Micalessin
Titolo: «Perché Bush rischia troppo a fidarasi dell'opzione saudi e sunni - “Non chiedete l’impossibile a Israele”, dice un saudita di rango - La Lega araba vuole nucleare per tutti»
Dal FOGLIO del 30 marzo 2007, l'analisi di Carlo Panella sul piano saudita:

Roma. Senza clamori, nel chiuso di incontri da cui escono col sorriso stampato in volto, Ehud Olmert e Condoleezza Rice stanno consumando la più grave crisi nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele dal 1956. Il loro incontro del 26 marzo a Gerusalemme è stato tanto burrascoso da obbligare a un rinvio della Conferenza stampa. Gli sherpa hanno ricucito la lacerazione – solo formalmente – con una comune intesa su incontri quindicinali tra Olmert e Abu Mazen, ma solo per definire “questioni umanitarie”. Un evidente nulla di fatto. Il punto contingente del dissidio è stato la richiesta della Rice a Olmert di subire il rifiuto di Hanye alle tre condizioni del “quartetto”, e di aprire una trattativa piena con il solo Abu Mazen sulla base del “piano arabo del 2002”. Olmert ha risposto che Abu Mazen ha tradito l’impegno di restituire Gilad Shalit (“Non è in grado neanche di restituire una bicicletta rubata a Gerusalemme”) e che a Gaza ha perso la partita. Il problema è che Olmert e Rice non sono divisi solo da valutazioni tattiche divergenti, ma da una divaricazione sull’analisi della crisi e quindi da strategie divergenti. La Rice, infatti si propone di ridefinire un asse americanosunnita, imperniato sui sauditi, che sia in grado di contrastare la pressione iranianosciita. Olmert lo teme perché sa che sauditi e egiziani pretendono da Israele un prezzo che lui – pronto a volare a Riad per trattare – non intende assolutamente pagare: uno statuto inaccettabile per Gerusalemme, la restituzione del Golan alla Siria e il riconoscimento del “diritto al ritorno dei profughi”, l’ammissione quindi di una “colpa di Israele” nella guerra del 1948 (nessun altro profugo al mondo ha “diritto al ritorno”), magari da risarcire solo economicamente, per non far deflagrare una bomba demografica. Su questo punto, su questo prezzo, la Rice, in linea con sessant’anni di tradizione del dipartimento di stato, è assolutamente ambigua e non fornisce assicurazioni a Olmert. Si è dunque allargata una divergenza radicale: Rice intende arginare la minaccia iraniana applicando uno schema da cremlinologa qual è (simile a quello della Albright, del cui padre è stata allieva prediletta). Uno schema geopolitico, attualizzazione di quello che ha fatto accumulare agli Stati Uniti cinquant’anni di errori in medio oriente. Rice è convinta che la strutturazione di una forte “massa critica” di paesi sunniti (dal Marocco al Pakistan), con strategie concordate con gli Stati Uniti, obbligherà ayatollah e alleati a accedere a una logica simile a quella iniziata col vertice di Reykjavik del 1985, quando Reagan e Gorbaciov iniziarono a descalare gli Abm, i missili intercontinentali strategici, dando così inizio a un circolo virtuoso che si è infine concluso come si sa. In questa prospettiva, la Rice capovolge la logica della Road Map, si disinteressa delle precondizioni per l’avvio di un cammino di pace – mai cominciato – e intende definire nelle sue linee di massima il traguardo finale, l’accordo strategico, lo stato palestinese, iniziando poi un cammino a ritroso che ne articoli i passi materiali. Olmert, non è d’accordo, non per problemi di metodo (tratta infatti già da mesi con i sauditi), ma per una divergenza radicale sulla analisi della natura dell’avversario e delle sue mire strategiche. Rice, come la diplomazia Usa, si muove con la logica di chi pensa ancora che Teheran miri alla “terra”, e che lo stesso faccia Hamas. Israele invece sa che questo asse del Jihad mira invece a esportare una rivoluzione islamica, quella rivoluzione che nello schema sovietico era solo un ricordo lessicale e che invece i pasdaran di Ahmadinejad intendono rilanciare. La dottrina di politica estera di Israele ormai ha lasciato alle spalle la formula “terra contro pace”, sepolta con Rabin e Arafat, nella convinzione che con l’islam fondamentalista non ha senso sviluppare strategie geopolitiche, perché la sua logica jihadista può accettare tregue, ma non può cedere sul punto strategico dirimente: la distruzione di Israele. Israele vede nell’asse Ahmadinejad-Hamas- Hezbollah una massa critica rivoluzionaria con cui si può, dunque, temporeggiare (per questo tratta con i loro avversari sauditi), ma con cui è impossibile qualsiasi accordo definitivo. Olmert, inoltre, sa bene che per permettere alla Rice di costruire una “massa critica” di paesi sunniti che operino nella crisi a fianco degli americani il prezzo deve essere pagato solo da Israele. Da qui il gelo montante – ma ancora ben celato – tra i due paesi. Una situazione ricorrente negli ultimi cinquant’anni perché l’“opzione sunnita” è una lontana tradizione – fallimentare – degli Stati Uniti, a partire dal patto di alleanza siglato da F. D. Roosevelt con Abdulaziz ibn Saud, al ritorno da Yalta, nel 1945, primo passo della politica araba dell’America. Oggi, rifiutato l’“appeasement” con Teheran proposto da Baker e dai democratici, Rice rielabora quella tradizione disastrosa, nell’illusione di potere concordare zone di influenza regionale con Teheran dopo avere accumulato forze nel fronte sunnita, spaventato dalla rivoluzione sciita. Nessun rischio che Rice intenda abbandonare la linea della difesa ferma dell’integrità e della sicurezza di Israele, ma di certo abbassa l’impegno al livello più basso possibile, a conferma della lontana profezia di Ben Gurion: “Gli Stati Uniti non si sono impegnati, né si impegneranno a sostenere Israele in tutto ciò che esso farà o chiederà: Gli Stati Uniti hanno le proprie valutazioni ed esse differiscono da quelle di Israele, o anche le contrastano”.

Di seguito un intervista  con  Mamoun Fandy, editorialista del quotidiano saudita Asharq al Awsat, che in un importante articolo ha chiesto l'abbandono della richiesta del "diritto al ritorno".

Ecco il testo: 

Londra. “Il diritto di ritorno dei palestinesi in Israele è un ostacolo per il processo di pace, promosso dal Re Abdullah”, commenta con il Foglio Mamoun Fandy, editorialista del quotidiano saudita Asharq al Awsat ed anche ex direttore del medesimo nella redazione di Washington. “Chiunque voglia una pace seria con lo stato ebraico – sostiene Fandy, che ha incontrato in più occasioni il sovrano Abdullah, ma che non “osa” definirsi vicino al sovrano – deve offrire condizioni che possano essere accettate”. Per l’editorialista egiziano, infatti, la richiesta del diritto di ritorno rende l’iniziativa “vuota di contenuti”. “Non possiamo chiedere a Israele di trasformare il proprio paese in uno stato palestinese. Dobbiamo promuovere due stati per due popoli e non due stati per un popolo soltanto”. Fandy, direttore anche dell’Institute for Stategic Studies per il medio oriente, ha esposto le sue preoccupazioni sugli ostacoli all’iniziativa di pace anche su Asharq al Awsat, il quotidiano in lingua araba più diffuso al mondo, vicinissimo alla famiglia reale. Il giornale saudita ha pubblicato l’articolo di Fandy senza censure e senza porre tabù. “Il re Abdullah accetta le critiche costruttive – spiega l’editorialista – ho parlato più volte con lui e ha sempre dimostrato di essere onesto nel suo ruolo di mediatore. Il sovrano è determinato a trovare una soluzione per questo conflitto, che sta durando da troppo tempo”. Fandy, infatti, spiega che nella prima iniziativa di pace del 2002, il diritto di ritorno dei palestinesi “non appariva come una prerogativa”. La richiesta fu aggiunta successivamente, durante quel summit di Beirut del marzo del 2002, al quale fu presentata per la prima volta la proposta saudita. “Furono i siriani e l’allora leadership palestinese, che non volevano trovare un accordo di pace con Israele – spiega Fandy – a richiedere l’inserimento del diritto di ritorno tra i punti fondamentali”. Secondo l’analista di Asharq al Awsat, infatti, esiste nei governi arabi una tendenza a seminare ostacoli nello sviluppo della regione. “Il diritto di ritorno dovrebbe essere posto come una richiesta negoziabile – sostiene Fandy – non come un punto irremovibile. O gli israeliani non potranno mai sedersi al tavolo dei negoziati con noi”. Altrimenti, “l’offerta manca di realismo”. “Dobbiamo tenere in considerazione le preoccupazioni degli israeliani – dice ancora Fandy – se vogliamo iniziare un dialogo costruttivo. E’ tempo di offerte coraggiose”. L’editorialista egiziano è critico con il pacchetto offerto a Israele. Ma sostiene anche che il summit di Riad è stato la prima conferenza “matura” organizzata da leader arabi. “La delegazione irachena e di altri paesi della regione – spiega – per la prima volta hanno esposto non soltanto i propri successi, ma anche i loro problemi. Di solito nei summit i leader arabi dicono che va sempre tutto bene, nascondendo la verità”. E invece ieri il presidente iracheno, Jalal Talabani,ha detto in piena conferenza che le violenze nel suo paese sono state causate anche dai governi presenti in sala. “Al summit di Riad ho sentito un nuovo modo di parlare, ormai gli eventi sono trasmessi in diretta. I capi di stato non possono più permettersi di essere retorici e di ingannare il popolo”. Inoltre, la crescente minaccia del nucleare iraniano ha reso necessario un cambiamento nella “sostanza e nei toni” dei leader arabi. Per Fandy, però, questo summit è soprattutto importante per il suo “dietro le quinte”. L’Arabia Saudita, infatti, sta continuando a lavorare alle sue alleanze nel mondo arabo in funzione anti Iran. “Il re Abdullah si è incontrato con il presidente siriano, Bashar el Assad, ci saranno quindi nuove sorprese nelle relazioni fra Siria e Arabia Saudita”. L’iniziativa araba si sta trasformando “nell’unica valida alternativa” alla Road Map. “L’importante è che il summit non si pieghi alla ‘lobby degli ostacoli’, continuando a imporre richieste inaccettabili”.

Dal GIORNALE, un articolo di Gian Micalessin:

La Lega Araba ha deciso di non decidere. La due giorni di Riad attesa come la svolta cruciale per uno storico negoziato con Israele si è infilata nel solito vicolo cieco. I capi arabi hanno deciso di ignorare l’offerta di negoziati diretti arrivata del premier israeliano Ehud Olmert accontentandosi di approvare lo stesso piano di pace saudita già adottato nel 2002.
La proposta, interessante perché propone un riconoscimento dello Stato ebraico da parte di tutte le nazioni arabe in cambio di uno Stato palestinese sui confini del ’67, non ha, nella forma attuale, nessuna possibilità di decollare.
La Lega Araba non ha infatti introdotto il minimo accenno ad aperture o negoziati per modificare le parti del piano basate sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi in Israele e sull’immutabilità dei confini del ’67.
La Lega non sembra disposta, dunque, a rendere più appetibili le parti già definite inaccettabili da Israele e Washington. Le ambiguità del summit non finiscono qua. Il punto della dichiarazione finale che sottolinea il rischio di una proliferazione nucleare, ma ribadisce il legittimo diritto all’energia atomica per ogni nazione è un altro capolavoro d’ipocrisia.
Preoccupati della corsa al nucleare di Teheran e dell’egemonia politico militare iraniana sulla regione i capi arabi rivendicano il diritto a intraprendere la corsa atomica, ma negano di volerlo fare per scopi militari. Decisi a imitare il nemico israeliano e l’avversario iraniano i capi arabi, sauditi ed egiziani in testa, scalpitano per aprire laboratori di arricchimento dell’uranio, ma ribadiscono di voler inseguire solo scopi civili e pacifici. La proliferazione riguarda, insomma, solo le già esistenti armi atomiche israeliane e quelle futuribili della Repubblica islamica.
L’ultima speranza per chi a Riad si attendeva svolte epocali sono gli accordi segreti. Archiviata l’idea di delegare le trattative con Israele a un comitato di Paesi moderati formato da Arabia Saudita, Egitto, Giordania ed Emirati la Lega potrebbe surrettiziamente mantener viva l’idea. Si tratterebbe però delle consuete trattative segrete già dimostratesi inadatte a ottenere risultati. Resterebbe irrisolto inoltre il problema della Siria decisa a non riconoscere lo Stato ebraico in mancanza di un accordo sulle alture del Golan.
In questo clima il summit si è concluso in un crescendo di accuse utili per garantire la compattezza dei Paesi arabi e per trasmettere un messaggio gradito a delle opinioni pubbliche sempre più anti-americane e anti-israeliane. «Continuando a ignorare le più realistiche offerte di pace Israele sottopone non solo se stesso, ma l’intera regione al rischio di ripercussioni imprevedibili» ha avvertito il ministro degli Esteri saudita Saud El Feisal.
Il presidente palestinese, pur ribadendo il rischio di un’impennata della violenza in casi di rifiuto israeliano, è stato l’unico ad accennare alla trattativa: «Speriamo che il summit porti – ha detto Abbas - alla formazione di un comitato guidato dalla monarchia saudita per permettere l’applicazione dell’iniziativa araba». Una speranza condivisa dal vice premier israeliano Shimon Peres che ha rinnovato la disponibilità israeliana a una trattativa diretta.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione del Foglio e del Giornale


lettere@ilfoglio.it
lettori@ilgiornale.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT