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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - L'Unità Rassegna Stampa
25.03.2007 Con i talebani si può parlare, non sono mica terroristi
secondo Barbara Spinelli e Furio Colombo

Testata:La Stampa - L'Unità
Autore: Barbara Spinelli - Furio Colombo
Titolo: «Quale guerra, quale nemico - Il grande Satana»

Trattare con i talebani, che non sono terroristi (non sono come le BR), ma "combattenti" si può e si deve.
Lo sostiene nell'editoriale del 25 marzo 2007 Barbara Spinelli, che dimentica, tra le altre cose, di domandarsi cosa ne pensi il legittimo governo afghano, per il quale i talebani devono essere molto più simili alle Brigate Rosse di quanto non sembrino in Europa, dove non potrebbero, almeno per il momento, imporre il loro dominio totalitario.

Ecco il testo:

Da quando è stato liberato Daniele Mastrogiacomo, si parla molto della cultura dell'arrendevolezza italiana. L'Italia invertebrata non avrebbe vocazione a far guerre, con effetti sulla sua affidabilità. Un'attrazione fatale per compromessi sottobanco la caratterizzerebbe, e la sinistra pacifista sarebbe specialmente colpevole. L'America non avrebbe torto quando diffida di noi e neppure gli europei. Questi ultimi non sarebbero ricattabili, mentre noi sì. La classe politica soffre di queste accuse, e corre ai ripari difendendo un'alleanza con gli Usa non solo necessaria, ma inalterabile. Si raccomanda di non scordare l'aiuto americano contro Mussolini. Si riattivano memorie ritenute vacillanti e ingrate.
Un imbroglio simile di politiche, sentimenti, ricordi è possibile solo perché questa guerra afghana, in corso da più di cinque anni, non sappiamo ancora definirla. Non sappiamo se sia guerra, e che tipo di guerra. Non abbiamo definito i nemici, incerti se siano terroristi che ci minacciano in casa o insorti locali. Non sapendo definire queste cose non sappiamo neanche giudicare freddamente Bush, mettendo a confronto quel che proponeva il 7 ottobre 2001 quando iniziò l'offensiva con quel che da allora ha ottenuto. È un'incapacità che spiega parecchie reticenze, non solo italiane ma europee: con la variante che solo da noi la reticenza è chiamata antiamericanismo, inaffidabilità, capitolazione. Questo perché il dissenso dall'America è vissuto in Italia come una maledizione, da qualche tempo, capace di sottrarre legittimità ai governi. Il disaccordo da noi non è chiamato dissenso ma evoca ferite, tradimenti: strappo è la parola scomunicatrice di un paese dove manca sia l'autonomia, sia una quotidiana coscienza europea.

La guerra afghana cominciò come guerra globale al terrore, dopo l'11 settembre 2001, e così la chiama ancora la Casa Bianca anche se nel frattempo lo scopo è sostenere il governo a Kabul, quindi l'esportazione della democrazia. Quest'imprecisione terminologica spiega alcuni vizi della missione. Il 12 settembre 2001, gli alleati di Washington invocarono l'articolo 5 della Nato, facendo scattare la legittima difesa collettiva, e su tale base parteciparono all'americana Enduring Freedom. L'operazione Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) coincise con l'attacco Usa, nel dicembre 2001, e solo nell'agosto 2003 la Nato ne assunse la guida separandola da Enduring Freedom e dalla sua natura esclusivamente bellica. Da allora Bush e Blair insistono pesantemente sulla fusione delle missioni: è il primo vizio. Il secondo è vera cancrena: Washington s'impegnò contro il terrore tenendo in piedi l'alleanza con uno Stato, il Pakistan, che per anni aveva tollerato se non aiutato i talebani e che continua a farlo.
Forse Musharraf è il male minore, come dicono alcuni: tuttavia è prigioniero dei fondamentalisti e non ha il controllo di quella parte dei servizi (Isi) legati ai talebani. Barnett Rubin, uno dei massimi esperti dell'Afghanistan, racconta come le condizioni poste da Musharraf fossero chiare già nel 2001: battere Al Qaeda, ma non necessariamente i talebani (Foreign Affairs, gennaio 2007). Ultimamente questa politica si è aggravata: due regioni pachistane, Waziristan e Baluchistan, sono ormai basi per talebani e Al Qaeda, Stati nello Stato da cui partono offensive contro gli occidentali in Afghanistan. Questo dunque il risultato di tanti anni di guerra: la base di Al Qaeda, negli anni 90 in Afghanistan, si è spostata di qualche chilometro e si trova in Pakistan, cioè un nostro alleato.
La questione cruciale non è insomma il preteso appeasement di questo o quel governo europeo, ma il più sostanziale appeasement in America che risale al conflitto con Mosca. Esso continua a pesare, anche se Washington s'è poi corretta: talebani e jihad son nati con ingenti contributi finanziari e politici degli Usa, spalleggiati da Pakistan e Arabia Saudita. E su quelle complicità non s'è fatta chiarezza: è il motivo per cui la guerra afghana è in un vicolo cieco. È una guerra che rischia d'esser persa, dopo l'Iraq, e anche per questo molti europei si ritraggono, privilegiando gli aspetti non bellici dell'Isaf piuttosto che Enduring Freedom. Nonostante un duro monito di Bush, il 15 febbraio 2007, molti europei s'aggrappano ai cosiddetti caveat (restrizioni nelle operazioni Isaf) e tra questi ci sono Italia e anche Germania, Spagna e Francia.
Alla luce di queste strettoie è naturale che in Europa si cominci a considerare normali i dissensi da Washington, e non traumatici. Purtroppo non è l'Italia l'anello debole. Il male della non credibilità - dunque dell'inaffidabilità, della non concordanza tra parole e azioni - affligge oggi lo Stato che aspira a esser potenza egemone senza riuscirci, cioè gli Stati Uniti. È qui che urge ripensare le guerre odierne, e domandarsi come vincerle e in quanti anni. È qui che si deve decidere se il nemico sia Al Qaeda o i talebani. E che nemico sia: se un combattente o un fuorilegge con cui non bisogna mai, in nessuna circostanza, trattare.
Trattare con il nemico non è cosa nuova in guerra, a meno che il nemico sia considerato un criminale comune anziché un combattente. La trattativa è d'altronde praticata dai più, anche se non lo si ammette: un'ipocrisia benefica, durante i conflitti. Tutti gli Stati, compreso Israele, scambiano prigionieri in tempo di guerra. E col nemico si finirà col trattare in conferenze di pace, Fassino non dice nulla di particolarmente scandaloso. I tentativi d'accordarsi col nemico sono ricorrenti nella storia: anche a Washington, come raccontato da Paolo Mastrolilli venerdì sulla Stampa. Più volte il presidente Karzai ha fatto offerte ai talebani, non solo di amnistia ma anche di pace. Se è guerra, prima o poi si negozieranno tregue. Se non è guerra - se è illimitata guerra al terrore come dice Bush - la pace non verrà mai perché chi potrà dire che non vi saranno più attentati? Gli esempi di trattative abbondano. Nel settembre 2006 le forze britanniche negoziarono un accordo nella città di Musa Qala: i talebani si sarebbero ritirati in contemporanea con gli assedianti inglesi, lasciando il comando cittadino agli anziani delle tribù. In ottobre, i senatori Bill Frist e Mel Martinez, repubblicani, auspicarono a Kabul «l'ingresso dei talebani in un governo rappresentativo più vasto». I talebani ripresero poi Musa Qala perché Washington accusò gli inglesi di cedimento. Quanto agli ostaggi - in Afghanistan, Iraq - le trattative sono usuali in Germania, Francia, Usa, anche se poi i governi si proclamano (e fanno bene) non ricattabili.
Questa guerra è asimmetrica non solo fra occidentali e insorti. Lo è anche tra Usa ed europei. Sono i primi a decidere quando si cede e quando no: oggi, temendo offensive talebane, i cedimenti esibiti sono più che mai invisi. È Washington a voler decidere che tipo di guerra c'è, e che sorta di nemico. Ma alcuni punti varrà la pena specificarli, da parte europea. Il nemico innanzitutto usa metodi terroristi ma occorrerà probabilmente riconoscerlo come combattente, anche se la sua struttura di comando è assai confusa. Lo studioso Ahmed Rashid nel suo libro sui Talebani (Feltrinelli 2001) racconta quanto segreta e inafferrabile sia la dirigenza talebana, da sempre, e come però esista. L'idea che non si possa trattare con i combattenti perché sono terroristi non è pratica. Non siamo davanti a azioni paragonabili a quelle delle Brigate rosse, non siamo in una planetaria guerra civile (un impero) dove i nemici sono tutti interni. Con i brigatisti non si negoziava, perché minacciavano la nostra sovranità statale. Con il combattente prima o poi si negozia. Tutto sta a non inorgoglirsi della trattativa: essa è un mezzo necessario, non un fine che magnifica associazioni rivelatesi preziose ma fortemente polemiche con Karzai. Finché abbiamo soldati che difendono Karzai, inorgoglirsi è segnale pericoloso.
Ma il fondamentale problema è un altro: come definire la guerra, e come servirsi delle memorie che abbiamo. Sono anni che si menzionano i cedimenti al totalitarismo hitleriano nel '38. Ma l'Europa ha un'altra memoria, ed è quella del colonialismo: un'esperienza non demonizzabile, ma che resta costellata da errori madornali. Errori che conviene non ripetere, soprattutto quando si combatte in paesi che con noi condividono questa seconda memoria. Ben tre guerre furono perse con l'Afghanistan, nell'800 e '900, e Londra le perse perché insediò a Kabul governi fantocci, non rappresentativi, e strumentalizzò il paese - centralizzandolo e sprezzando sue antiche decentrate strutture tribali - per meglio farne uno Stato cuscinetto tra Russia, Persia, India. Sono errori che stanno ripetendosi, e fa impressione - soprattutto in Inghilterra - un'amnesia sì vasta. Un'amnesia più esiziale di sporadiche trattative sugli ostaggi. Un'amnesia che solo gli europei possono superare, con la storia che hanno: imparando a dissentire più serenamente con Washington, e capendo che solo uniti eviteranno l'immagine dello strappo e il successivo assoggettamento.

Stessa tesi nell'editoriale di Furio Colombo sull'UNITA' che si distingue per argomentazioni capziose.
Che gli americani distinguano tra talebani e capi tribù indipendenti dai talebani e da Al Qaeda non significa affatto, per esempio, che anche loro come la sinistra italiana siano disposti a trattare anche con i talebani.
Significa semmai l'esatto contrario: che l'ipotesi di una trattativa viene presa in considerazione, ma che si cerca anche di definire limiti che nel dibattito politico italiano vengono invece superati con inquietante facilità.
Ecco il testo: 


Come ha lavorato bene Silvio Berlusconi. Certo non per il Paese, che ha governato per cinque anni fino al disastro. Ma per il suo partito e per i fedeli seguaci di An, che ormai sono la sua scorta.

Bisogna convenire che indurre persone altrimenti rispettabili nella vita e nelle professioni a dire con intenta serietà in Parlamento (vedere gli stenografici: tutti con le stesse parole, quasi le stesse frasi, perché gli ordini sono ordini) che sarebbe stato meglio, per l’onore del Paese, lasciar morire l’ostaggio Mastrogiacomo, non è una impresa da tutti.

Ma il capo, per insegnare che nella vita non si devono coltivare falsi scrupoli, ha dato l’esempio: impegnarsi - costi quel che costi - per rompere i rapporti fra Italia e Stati Uniti che erano sopravvissuti persino alla sfida aperta di Sigonella e al salvataggio personale, da parte di un Primo ministro italiano, di un terrorista fresco di omicidio di un vecchio ebreo in sedia a rotelle su nave italiana. È stata una bella prova. Non è riuscita, perché Berlusconi è in contatto solo con il personale basso di ciò che resta del sogno della guerra preventiva e perenne. Il resto è cambiato. C’è un altro Parlamento, negli Usa, che non conosce e non riconosce rappresentanti d’affari come Berlusconi. È un Parlamento che sta cercando, da mesi, e in contrasto netto con il presidente e la sua politica finita, una via di uscita con meno morti, meno sangue, meno guerra. Berlusconi non c’è riuscito ma ci ha provato per dimostrare che non si devono avere scrupoli.

Il nemico non sono i talebani, non scherziamo. L’impegno non è di rafforzare la democrazia in Afghanistan. La vera guerra è spaccare l’Italia. Spaccare è il grande talento di Berlusconi. C’è un solo nemico, uno stupido come Romano Prodi che si affanna con l’economia del Paese invece che con affari personali, invece che lasciare in pace evasori fiscali, intercettatori privati, candidati al condono, ricattatori vari. L’economia va meglio ogni giorno e il confronto con i cinque anni del declino di Berlusconi diventa imbarazzante. Urge intervento.

Ma ricostruiamo lo strano percorso della opposizione che non esita a usare l’Afghanistan, morti e vivi, soldati italiani e alleanze internazionali, più aiuti a un popolo o più armi, salvare o abbandonare un ostaggio, pur di vedere se da tutta questa storia di sangue e di morte può venir fuori una seconda giovinezza per i combattenti e reduci della Casa delle libertà. Da un gruppo che si descrive di destra e di mercato eppure non esita ad affossare con ostruzionismo tenace le miti ma efficaci liberalizzazioni di Bersani (compresa la ricarica gratis del telefonino) ci si può aspettare di tutto.

Ma denunciare il salvataggio di un ostaggio, chiedersi ad alta voce che cosa sarà costato, insinuare che con questa vita umana portata a casa si è dato un grande aiuto al terrorismo del mondo, dovete ammettere che è una vicenda che segna un «mai avvenuto prima» nella vita italiana.

Ora le molte voci di Berlusconi in Senato si fanno sentire alte e imbarazzanti per creare e denunciare il caso politico. La ragione non è solo di mostrarsi indignati perché un medico disarmato riesce a liberare un ostaggio in mezzo a una guerra che minaccia di diventare ogni giorno più grande, fuori da un disegno comprensibile e - quel che è peggio - fuori controllo, se ci si abbandona all’idea che più si combatte e meglio è.

La ragione è di spezzare e rendere impossibile il voto a favore della missione italiana in Afghanistan. Quel non voto viene gettato non contro i Talebani - di cui, a quanto pare, qui non interessa niente a nessuno nella avventurosa visione berlusconiana - ma contro il vero nemico. Prodi è il grande Satana.

So che è una storia penosamente provinciale. Ma purtroppo è una storia vera. Sentite.

* * *

Ci dicono, discorso dopo discorso, che bisogna guardare la realtà in faccia: questa è vera guerra. Ci dicono: occorrono subito potenti armi di offesa. Nessun imbarazzo nel dirlo. Eppure è la stessa gente, le stesse facce, le stesse voci, che hanno dichiarato la missione italiana in Iraq «missione di pace» al tempo dei diciannove morti (e poi altri, e poi altri) di Nassiriya, ai bei tempi del loro governo di stragi e di ostaggi.

Ci dicono, discorso dopo discorso, che una vera guerra si deve fare con vere armi. Dimenticano di dire che l’assetto e l’equipaggiamento e gli strumenti di difesa e di offesa di chi sta adesso rischiando in Afghanistan, è stato deciso, organizzato e mandato al fronte dal tonante e solenne ex ministro della Difesa Martino (governo Berlusconi). Si tratta dello stesso governo che ha mandato i soldati italiani in Iraq con blindati senza torretta ed elicotteri senza portellone (vedi la descrizione di ciascun episodio mortale, che ha sempre coinvolto persone mandate a combattere in condizioni impossibili, sventolando la missione di pace).

Ci ripetono, intervento dopo intervento, e anche con l’aria di saperne di più, che - poiché l’ostaggio Mastrogiacomo è stato liberato da Gino Strada, il governo Prodi ha in tal modo sfiduciato i nostri servizi e i nostri soldati. Fingono di dimenticare che il governo Berlusconi aveva appaltato non un tentativo di salvataggio ma tutti i soldati italiani in Iraq. Essi erano stati offerti ai comandi di due armate in guerra. Non era mai accaduto dal 1945 che soldati italiani dovessero rispondere ad ordini di cui il governo e il Parlamento italiano non hanno mai saputo nulla.

Ci sarebbero dunque serie ragioni per non sollevare questioni che sono dolorosamente a carico del governo Berlusconi. Pensano di evitare tutto con una serie di «omissis». Ma gli omissis non esistono nel dibattito politico. Per esempio: come è morto Nicola Calipari? Edward Luttwak, uomo di qualche esperienza, di chiarezza brutale e consulente del Pentagono, ha detto martedì sera, nel corso della trasmissione «Ballarò»: «Calipari è morto perché ha avuto ordine di andare all’aeroporto da solo e di notte. Il protocollo americano prevede che si percorra quel tratto di autostrada solo al mattino e dopo averlo fatto sapere». Chi, quando, dove, perché ha taciuto, e ha ordinato all’ambasciatore italiano di tenersi fuori?

Prodi e D’Alema si sono intestarditi a salvare l’ostaggio italiano Mastrogiacomo. Ora i berlusconiani ci ammoniscono, incupiti da un successo che non si può ascrivere al loro unico vero leader, che gli americani sono irati come un Giove omerico, che nel salvare quella vita abbiamo rovinato tutto, tanto che (vedrete se non sarà questa la conclusione) sono spiacenti ma non potranno votare per la missione italiana.

* * *

Come i lettori ricordano, ha fatto grande scandalo, e viene sollevato in ogni intervento e in ogni momento nel dibattito alla Camera e al Senato, la questione della «Conferenza di pace» e il tema: chi dovrà partecipare a quella conferenza?

Qui imbarazza la mancanza di conoscenza, anche approssimativa, anche per sentito dire, del clima politico americano di questi mesi. Si ignora, o si fa finta di ignorare, la determinazione con cui, nei due comitati di politica estera della Camera e del Senato americano, democratici e repubblicani siano decisi a rivedere tutti i termini, definizioni e ragioni della guerra, così come erano stati definiti da Bush e Cheney, ai tempi della guerra infinita. È un argomento che produce molte notizie e molti commenti sulla stampa americana ogni giorno. Colpisce, in particolare, una serie di interventi che si moltiplicano sul che fare in Afghanistan.

La prima domanda che trovate sui giornali americani è: chi stiamo combattendo? La versione, semplificata del governo (stiamo combattendo i talebani) non convince più. Perché ogni esperto sa che si tratta di uno schieramento variegato con una presenza molto estesa di tribù e di capi locali che non sono affatto legati ad Al Qaeda. Ma sono lontani da Kabul e sono stati lasciati soli a provvedere a se stessi. La grande stampa americana riporta la voce di alcuni di questi combattenti che dicono: almeno i sovietici costruivano irrigazione e dighe. In altre parole indicano, sia pure in modo niente affatto diplomatico, un possibile percorso di pace che si può tradurre: dateci qualcosa invece che fare arrivare altri soldati. O almeno: non solo.

La seconda domanda è: che cosa è stato fatto con i dieci e più miliardi di dollari che l’operazione Afghanistan è costata finora agli Usa e ai suoi alleati? Quanto di questa immensa somma è arrivato agli afghani?

La più autorevole stampa americana risponde: finora soltanto guerra. E la guerra genera soltanto se stessa.

La terza domanda americana è: chi sono - in quell’area - i nostri alleati e i nostri nemici? Non appena si tenta un elenco, i talebani risultano soli e senza un sostegno al mondo. Possibile che da soli possano tenere a bada gli Stati Uniti, le Nazioni Unite, la Nato, e tutti i contingenti europei?

Naturalmente non è possibile. A meno di seguire un percorso che in numerose inchieste il New York Times (specialmente la giornalista Carlotta Gal) ha scoperto e indicato fin nei dettagli. Si tratta di una forza fluida e non residente che va e viene dal Pakistan, dove ha basi, depositi, fondi e sostegno. In Pakistan tornano a ricostituirsi, riarmarsi, arruolare. È chiaro che, in questo modo, possono essere i protagonisti fantomatici, un po' veri e un po' immaginati, un po' in avanzata e un po' in fuga, onnipresenti e invisibili di una guerra infinita. Eludono facilmente i colpi peggiori. Ma quei colpi centrano in pieno la popolazione che vive sui territori dei combattimenti. A ogni colpo molti di quei civili muoiono, molti di loro diventano nuovi nemici anche senza volere o amare i talibani.

In altre parole, Mastrogiacomo è stato solo un simbolo. I veri ostaggi sono i grandi eserciti che fanno grandi guerre, se non passano a una strategia diversa dalle grandi offensive basate su una visione napoleonica del come condurre le azioni militari. E qui cade a pezzi la retorica combattentistica dei nostri oppositori che appaiono anche isolati nel mondo. Infatti l’orientamento del «Foreign Affairs Committee» a maggioranza democratica del Senato americano, presieduto da Joseph Biden (che è anche candidato presidenziale anti-Bush) sta cercando in grandi iniziative di pace la via d’uscita. Al Senato italiano si parla un linguaggio vecchio di cinque anni, cioè di un epoca finita. Al Senato americano la proposta di “invitare tutte le parti” punta soprattutto a fare uscire il Pakistan allo scoperto, a far finire il viaggio a due vie dei combattenti professionali, a separare i combattenti professionali dai contadini disperati, dalle tribù col fucile che avrebbero interesse alla pace se la pace fosse possibile, dalle sacche di popolazione isolata, troppo colpita dai ripetuti tentativi di colpire i talebani. Ti dice Joseph Biden che «invitare i talebani» vuol dire far venire avanti tutti coloro che sembrano talebani perché: combattono, e combattono perché sono isolati e senza aiuto. E fra due belligeranti hanno scelto la parte e la lingua e la religione che conoscono. Ma non hanno mai abbattuto a cannonate le statue di Budda, non hanno pensato a una dittatura della religione, e vivono meglio di agricoltura che di guerra, nei campi coltivati più che di campi minati. Vorrebbero ricostruzione invece di attacchi aerei sempre più devastanti. Tutto ciò per dire che, nel nuovo corso della politica americana, la maggior parte dei deputati, dei senatori, degli esperti e anche una parte dei militari, farebbero fatica a capire - se mai fossero tradotti - i discorsi dei nostri militanti d’opposizione che sembrano fieri e intrattabili guerrieri e invece hanno in mente solo il ritorno di Berlusconi. È una piccola causa per la Nato, per le Nazioni Unite, per gli Stati Uniti che stanno drammaticamente tornando alla politica di pace di Clinton, di Carter, di Robert Kennedy.

Ma tutto questo i grintosi militanti dell’opposizione italiana, fedeli solo agli ordini di Berlusconi, si adattano a fingere di non saperlo. Si danno da fare, con abili ordini del giorno, non per far saltare il mullah Dadullah, ma il vero nemico, il Grande Satana: Romano Prodi. Si batteranno da leoni per bloccare il Parlamento italiano, e impedire che funzioni con dignità. Quanto alla strategia e agli impegni internazionali dell’Italia essi ti dicono radiosi che i loro sondaggi mostrano 9 punti di vantaggio per Berlusconi e la Casa delle Libertà. Che cosa può volere di più dalla vita un vero patriota?

furiocolombo@unita.it

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