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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
22.03.2007 Afghanistan: il disastro della politica estera italiana
due editoriali

Testata:Il Foglio - La Stampa
Autore: la redazione - Maurizio Molinari
Titolo: «D’Alema ci porta in fuori gioco - Dietro la grande rabbia»

Dal FOGLIO del 22 marzo 2007, un editoriale:

Gli articoli dei giornali italiani che lodavano l’astuzia sopraffina di Massimo D’Alema, capace di conciliare Gino Strada con Condoleezza Rice, non si erano ancora asciugati che già dall’America arrivava un’altra musica. I grandi giornali liberal non dedicavano neppure una riga alla “storica” missione all’Onu del nostro ministro degli Esteri, mentre arrivava l’irritazione, per bocca di un portavoce, del dipartimento di stato, che giudica pericoloso il modo in cui è stata trattata la vicenda della liberazione del giornalista di Repubblica, e campata per aria l’idea di una conferenza di pace in Afghanistan, per non parlare dell’ipotesi di invitare i talebani. Foggy Bottom nega di aver mai espresso “comprensione”, come detto invece dal nostro ministro degli Esteri dopo la cena con Condoleezza Rice al ristorante Aquarelle. All’evidente insoddisfazione degli alleati si somma quella dei settori “riformisti” della maggioranza, che pare abbia un’eco anche al Quirinale, visto che la tutela dell’onore delle nostre forze armate non è sembrata al primo posto nelle priorità del capo della diplomazia italiana. Intanto Bobo Craxi contribuiva per parte sua a far apparire la nostra politica estera inaffidabile, con le sue conversazioni con il premier di Hamas, che ha poi dovuto derubricare a telefonate personali. Ognuno, d’altra parte, si sceglie gli amici che crede, anche un sottosegretario che però, se stesse in un ministero degli Esteri serio, avrebbe già dovuto renderne conto. Da noi, invece, basta raccontare di trionfi immaginari che la stampa amica ci crede e li amplifica, confondendo il provincialismo con la dignità nazionale

Da La STAMPA l'editoriale di Maurizio Molinari:

Il rilascio di cinque capi taleban e alcune affermazioni di Massimo D’Alema dividono Roma da Washington, creando un’atmosfera di tensione e proteste diplomatiche che non si registrava fra i due alleati dai tempi della crisi di Sigonella.

I capi taleban sono quelli di cui Roma ha ottenuto da Kabul la liberazione per avere in cambio dal mullah Dadullah il giornalista Daniele Mastrogiacomo. Per Washington (e Londra) si tratta di feroci terroristi che una volta a piede libero cambiano l’equilibrio di potere in Afghanistan, indebolendo l'autorità del presidente Hamid Karzai e rafforzando quella del mullah Omar, capo dei taleban. Le affermazioni del responsabile della Farnesina sono quelle sulla «comprensione americana» per la trattativa avvenuta: Washington afferma che tale comprensione non vi è mai stata, neanche al tavolo dell’Aquarelle del Watergate che ha visto D’Alema e la Rice cenare assieme nella sera di lunedì.

Agli occhi di Washington si tratta di due gravi errori: se spingendo per il rilascio dei taleban Roma ha di fatto rafforzato i nemici militari contro cui la Nato sta impiegando un contingente di 40 mila uomini, le affermazioni del ministro degli Esteri lo fanno apparire come un bugiardo, responsabile di aver travisato la posizione degli Stati Uniti a propri fini. Se nel primo caso il problema è il disaccordo sulla lotta al terrorismo in Afghanistan contro gli alleati di Al Qaeda, nel secondo la chiara irritazione americana chiama direttamente in causa la credibilità personale del capo della nostra diplomazia.

Pur rimanendo il legittimo dubbio sulla consapevolezza o no da parte di Washington dei termini della trattativa avvenuta fra Roma, Kabul e i taleban, ciò che colpisce è la scelta di reagire a freddo al caso Mastrogiacomo. E ciò si spiega con quanto sta avvenendo a Kabul, dove la manifestazione popolare contro il rilascio del giornalista italiano fa temere un indebolimento politico del traballante governo della giovane democrazia di Hamid Karzai. Se Roma grazie alla trattativa fosse riuscita a ottenere la liberazione anche dei due afghani catturati con Mastrogiacomo - l’autista e l’interprete - l’impatto a Kabul sarebbe stato differente. Ma così non è stato. Ciò che emerge invece è che l’Italia ha giocato in proprio nel bel mezzo del principale teatro di guerra dell’Alleanza Atlantica da quando venne fondata nel 1949. Ed è questo giocare in proprio che spiega anche la scelta di confermare i limiti all’uso delle truppe da parte dei comandi Nato, tenendole lontano dai duri combattimenti nel Sud del Paese.

Washington e Londra ritengono che il futuro della Nato sia in gioco in Afghanistan: se i taleban dovessero riuscire a rovesciare Karzai, la sconfitta militare dell’Alleanza travolgerebbe il perno dei legami politici e strategici euroatlantici, aprendo le porte alla nascita di uno Stato terrorista simile a quello dove Osama bin Laden organizzò gli attacchi dell’11 settembre. Se questa è la posta in palio, ogni mossa giocata sul teatro afghano è decisiva nei legami con Washington. Questo non significa che i rapporti fra amministrazione Bush e governo Prodi siano pregiudicati: gli Usa guardano con interesse alla proposta di una Conferenza internazionale e apprezzano le qualità dei nostri militari e della nostra intelligence. Ma temono cedimenti nei confronti del terrorismo e non tollerano le bugie dei politici. Al punto che fanno rischiare l’impeachment ai loro stessi presidenti.

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