Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Governo palestinese: è iniziata la campagna per legittimarlo rassegna di quotidiani
Testata:Il Riformista - Europa - La Repubblica - Il Manifesto Autore: Paola Caridi - Maurizio Debanne - George Soros - Titolo: «La norvegia riapre il credito ai palestinesi - Peace Now: Con il nuovo governo Anp è necessario negoziare. Ad ogni costo - L'ultimo errore di Bush - Ebrei per la pace:»
La coraggiosa Norvegia affronta da sola il compito di aprire al nuovo governo palestinese. Paola Caridi sul RIFORMISTA sembra dare per scontato che l'apertura debba avvenire, nemmeno sfiorata dal dubbio che legittimare e finanziare un governo che non riconosce Israele e propugna il terrorismo possa non essere la migliore politica in vista della pace. Ecco l'articolo:
Gerusalemme. La Norvegia l’aveva già annunciato a fine settimana. Oslo avrebbe aperto una linea di credito al nuovo governo di unità nazionale approvato dal parlamento palestinese. E così è stato. Sancito in maniera formale dalla visita compiuta ieri dal vice ministro degli esteri Raymond Johansen a Gaza City per incontrare Ismail Hanyeh. Proprio quello che sia Mahmoud Abbas, sia l’appena riconfermato premier si attendevano dagli accordi della Mecca prima, e dall’istituzione della Grossekoalition versione palestinese poi: la rottura dell’isolamento internazionale dell’Autorità nazionale. Non è una nota di colore diplomatica, la mossa norvegese. Né un tentativo di rinverdire i fasti di un paese che ha ancora, nel suo medagliere, l’unico tentativo serio (e quasi riuscito) di riportare la pace in Medio Oriente. Oslo, invece, si è assunto ieri un onere che nessun altro paese europeo avrebbe potuto portare sulle spalle: cominciare a sdoganare il governo palestinese, grazie a quella condizione speciale che consente alla Norvegia di definirsi europea ma di non essere costretta formalmente ad aderire alle regole interne della Ue, di cui non fa parte. Per uscire di metafora: la presenza di Hamas dentro la lista delle organizzazioni terroristiche stilata dall’Unione europea. Così, la Norvegia ha deciso di uscire dall’impasse, e proporsi ancora una volta come terreno neutro. Almeno sul lato europeo di questo ultimo capitolo del rovello mediorientale, dove la questione del riconoscimento del nuovo governo palestinese non è stata ancora chiarita. Da un lato, Israele punta sulla presidenza tedesca della Ue, molto sensibile alle richieste di Tel Aviv, per confermare il boicottaggio economico internazionale. Dall’altro lato, l’ufficio del primo ministro palestinese ha subito reso noto di aver ricevuto, ieri, le congratulazioni del ministro degli esteri italiano, Massimo D’Alema, che già aveva detto ai giornalisti che non era saggio «sbattere la porta» in faccia al nuovo esecutivo. L’Europa incerta e divisa sul da farsi lascia ancora una volta il palcoscenico libero ad altri protagonisti internazionali nella vicenda. Da un lato, come sempre gli Stati Uniti al fianco di Israele, anche nel ribadire che si tratta ancora e solo con Abu Mazen, nonostante ci sia un altro esecutivo in piedi tra Ramallah e Gaza City. Dall’altro lato, e in questo caso con una coloritura molto più interessante, c’è l’Arabia Saudita, che anche Tel Aviv comincia a considerare (a dire il vero, ormai da mesi) un interlocutore possibile per un futuro processo di pace. A confermare il rinnovato peso del regno saudita nelle questioni interne palestinesi c’è la stessa velocità di esecuzione degli accordi della Mecca. Non era infatti scontato che il governo di unità nazionale sorgesse così in fretta, e non finisse impantanato in defatiganti diatribe sul manuale Cencelli dei ministri. Fatah e Hamas - assieme agli altri piccoli partiti che formano la coalizione - hanno invece smentito i molti pessimisti, varando un esecutivo pronto a governare prima della fine di marzo. Prima, ed era proprio questo l’obiettivo, del summit della Lega Araba che tra poco più di una settimana si svolgerà proprio a Ryadh. A spingere i dirigenti palestinesi verso una rapida risoluzione ci sono state diverse preoccupazioni. La prima certamente interna: non tirare per le lunghe un negoziato sui ministri che avrebbe potuto incrinare la fragile tregua sul terreno, anche a costo di compromessi piuttosto importanti nella divisione del potere. Con un risultato incredibile, a guardare al passato: i palestinesi non sono mai stati così uniti, almeno formalmente, perlomeno da vent’anni, con ministri di Hamas che siedono accanto a colleghi non solo di Fatah, ma anche comunisti e laici. Ci sono poi state due preoccupazioni internazionali alla base del rush finale sul governo: guadagnare nel summit di Ryadh il sostegno pieno del mondo arabo, e consentire all’Arabia Saudita di riportare in auge il vecchio progetto di Beirut del 2002, il piano di pace che l’allora reggente (e ora re) Abdullah aveva presentato a Israele. Pace con il mondo arabo, in cambio del ritorno alla linea del 1967, alla soluzione della questione dei profughi, e a uno stato palestinese con capitale Gerusalemme. Solo in presenza di un accordo tra Fatah e Hamas, Ryadh può spingere sull’acceleratore. E l’investitura ricevuta dal governo palestinese da parte del parlamento, seppure a ranghi ridotti perché decine di deputati sono ancora dentro le carceri israeliane, facilita il compito comunque difficile della diplomazia saudita.
Il segretario generale di Peace Now, che parla di "scambio di prigionieri" a proposito delle ipotesi di scambio trai soldati israeliani sequestrati e i terroristi palestinesi detenuti in Israele è il "testimonial" di EUROPA per la legittimazione del governo Hamas- Fatah:
Peace Now (Pace adesso) è il più grande movimento extraparlamentare israeliano. Non predica slogan orecchiabili e lontani dalla realtà, ma si batte dal 1978, anno in cui fu siglata la pace tra Israele ed Egitto, per la pace, ovvero per il diritto di Israele e dei suoi vicini arabi a vivere in sicurezza e armonia. Il suo segretario generale, Yariv Oppenheimer, era ieri in Italia per una conferenza organizzata dal Gruppo Martin Buber – Ebrei per la pace, e dalla Sinistra per Israele. Europa lo ha incontrato prima dell’evento per conoscere il suo giudizio sul nuovo governo di unità nazionale palestinese. Secondo un sondaggio la maggioranza degli israeliani ritiene che sia tempo di porre fi- ne al boicottaggio contro il governo palestinese. Possiamo collocarla in questa maggioranza? Non credo che il nuovo governo di unità nazionale palestinese sia il miglior esecutivo che ci si potesse aspettare, tuttavia è il governo con cui dobbiamo iniziare a negoziare anche perché riflette gli stati d’animo di tutti i palestinesi. Quello precedente targato Hamas era invece solo espressione del movimento islamico. Capisco non sia facile ma dobbiamo interfacciarci con il nuovo governo dell’Anp. Anche se Hamas insisterà nel non riconoscere Israele. Anche se Hamas non è disposto ad accettare Israele, noi dobbiamo sederci al tavolo del negoziato con loro. Infatti, aprire i colloqui con il movimento islamico palestinese è un modo come un altro per portarli ad accettare l’esistenza dello stato ebraico. Personalmente non ho bisogno di grandi cerimonie o discorsi pubblici in cui leader di Hamas si pronunciano a favore dell’esistenza di Israele. Preferisco vedere i due schieramenti intorno a un tavolo a discutere dei punti nodali del conflitto. Se arriverà poi un accordo mi pare ovvio che porterà al riconoscimento delle due parti. Detto questo non nascondo che preferirei che Hamas ci riconoscesse oggi stesso, tuttavia non è realistico immaginarlo. Quale risposta si immagina arriverà dal Quartetto? Di sicuro il boicottaggio totale scattato più di un anno fa a seguito della vittoria elettorale di Hamas alle elezioni legislative palestinesi è sul punto di finire. L’Unione europea sembra essere infatti intenzionata a riprendere i contatti con il governo palestinese. Altro discorso è però la ripresa degli aiuti. Il mio consiglio è questo: bisogna cogliere assolutamente le opportunità che si stanno aprendo. Bisogna spingere Hamas a scegliere se vuole essere un’organizzazione terroristica o un partito politico. Israele da parte sua ha fatto sapere che continuerà a boicottare il governo palestinese. La liberazione del caporale Ghilad Shalit potrebbe far cambiare atteggiamento a Olmert? Non c’è dubbio che sarà più facile far partire il processo di pace con il rilascio di Shalit. Prima di parlare di un accordo di pace bisogna infatti risolvere questioni che possiamo definire minori, come appunto lo scambio dei prigionieri. Marwan Barghouti è compreso nella lista dei prigionieri da scambiare? Questo dipende dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Se lo richiederanno è possibile che Israele opti per una sua scarcerazione. Gli israeliani prima di tutto vogliono vedere tornare a casa Shalit sano e salvo. Il rilascio di Barghouti, a mio avviso, rafforzerebbe il fronte moderato palestinese perché lui, pur avendo commesso errori terribili, è un leader moderato che può essere un’alternativa ad Hamas e una risorsa per Abu Mazen. Sul versante israeliano vediamo un governo sempre più debole e diviso al suo interno. Il premier Olmert, il ministro degli esteri Livni e il ministro della difesa Peretz hanno presentato ciascuno un proprio piano di pace. Un governo che parla a tre voci non è destinato a durare. Il governo israeliano dopo la guerra in Libano della scorsa estate è effettivamente molto debole. Sul tavolo, come dice giustamente lei, ci sono tante iniziative ma nessuna di queste è seria. Il vuoto di iniziativa che c’è permette a tutti di dire la loro. Sul governo pesa poi il lavoro della commissione che sta indagando sull’operato di Israele nella guerra in Libano. Le conclusioni sono attese per la seconda metà di aprile e così prima di allora sarà impossibile per l’esecutivo elaborare una strategia di lunga durata. Non ci dobbiamo dunque aspettare novità sostanziali anche sul fronte siriano. Per quanto mi riguarda sono pronto a parlare con ogni vicino arabo senza alcuna precondizione. I termini dell’accordo con Damasco si conoscono da tempo: pieno ritiro delle truppe israeliane dalle alture del Golan in cambio di piena sicurezza per Israele. Il punto è capire quando Israele e Siria saranno pronti a fare queste concessioni.
Su REPUBBLICA è George Soros a spiegare a George W. Bush che con i terroristi, inclusi quelli di Hamas, bisogna sempre trattare e che la responsabilità dell'attuale degenerazione della politica mediorentale è di Israele, per via... del ritiro da Gaza.
L´amministrazione Bush sta commettendo ancora una volta un errore politico di peso non indifferente sostenendo attivamente il governo israeliano nel suo rifiuto di riconoscere un governo di unità palestinese del quale fa parte Hamas. Questa posizione preclude ogni possibile progresso verso un accordo di pace, in un momento come l´attuale, in cui ogni passo avanti verso la risoluzione del problema palestinese potrebbe aiutare a evitare lo scontro con il Medio Oriente nel suo insieme. Gli Stati Uniti e Israele vogliono trattare soltanto con il presidente dell´autorità palestinese, Mahmoud Abbas. Sperano in nuove elezioni che negherebbero ad Hamas la maggioranza che ora ha nel Consiglio Legislativo Palestinese. Ma questa è una strategia senza sbocco, perché Hamas boicotterebbe elezioni anticipate e, anche se avessero luogo e il risultato escludesse Hamas dal governo, nessun accordo di pace terrebbe senza il sostegno di Hamas. Nel frattempo, l´Arabia Saudita sta percorrendo un´altra strada. A febbraio, in un vertice a La Mecca tra Abbas e il leader di Hamas, Khaled Mashaal, il governo saudita è riuscito a far stringere ad Hamas e Fatah, che negli ultimi tempi si erano scontrati violentemente, un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale. Secondo questo accordo di La Mecca, Hamas ha acconsentito "a rispettare le risoluzioni internazionali e gli accordi [con Israele] firmati dall´Organizzazione per la Liberazione della Palestina", tra i quali anche gli Accordi di Oslo. I sauditi vedono questo accordo come un preludio all´offerta di un accordo di pace con Israele, che sarebbe garantito dall´Arabia Saudita e da altri paesi arabi. Ma nessun progresso sarà possibile finché l´amministrazione Bush e il governo israeliano di Olmert persisteranno nel loro rifiuto di riconoscere un governo di unità nazionale del quale faccia parte Hamas. Molte delle cause dell´attuale impasse risalgono alla decisione del premier israeliano Ariel Sharon di ritirarsi dalla Striscia di Gaza unilateralmente, senza negoziare con l´Autorità Palestinese controllata allora da Fatah. Ciò aveva rafforzato Hamas, contribuendo alla sua vittoria elettorale. Dopodiché, Israele, appoggiato con forza dagli Stati Uniti, ha rifiutato di riconoscere il governo Hamas eletto democraticamente e ha provveduto a trattenere le tasse raccolte dagli israeliani per conto suo per milioni. Ciò ha creato al governo palestinese enormi difficoltà e minato la sua capacità di funzionamento, senza ridurre tuttavia il sostegno dei palestinesi ad Hamas, e rafforzato invece la posizione degli islamici e di altri [settori] estremisti contrari a negoziati con Israele. La situazione si è deteriorata al punto che la Palestina non ha più un´autorità per portare avanti negoziati. Questo è un errore, perché Hamas non è una forza monolitica. La sua struttura interna è poco conosciuta all´esterno, ma secondo alcuni rapporti, essa ha un´ala militare, diretta per buona parte da Damasco e in debito con i suoi sponsor siriani ed iraniani, e un´ala politica che risponde più alle esigenze della popolazione palestinese che l´ha eletta. L´accettazione da parte d´Israele del risultato elettorale potrebbe rafforzare l´ala politica che è più moderata. Ma l´ideologia della "guerra al terrore" non consente purtroppo tali sottili distinzioni. Eppure, ciò che è accaduto in seguito fornisce elementi che indicano che all´interno di Hamas tra le varie tendenze vi siano ora delle divisioni. Non appena Hamas aveva acconsentito a entrare a far parte di un governo di unità nazionale, l´ala militare aveva organizzato il sequestro di un soldato israeliano, che aveva, con la pesante risposta militare israeliana suscitata, impedito la formazione di quel governo. Gli Hezbollah avevano a quel punto colto l´occasione per mettere in atto un´incursione dal Libano, sequestrando vari altri soldati israeliani. Nonostante la sproporzionata risposta israeliana, gli Hezbollah erano riusciti a mantenere le loro posizioni, conquistandosi l´ammirazione delle masse arabe, sia sunnite sia sciite. Ed è stato questo pericoloso stato delle cose – tra cui anche il crollo del governo in Palestina e la lotta tra Fatah e Hamas – a suggerire l´iniziativa saudita. Chi difende l´attuale politica [statunitense] sostiene che Israele non può permettersi di negoziare da una posizione di debolezza. Ma la posizione israeliana difficilmente migliorerà se questo Paese mantiene l´attuale linea. L´escalation militare – non solo l´occhio per occhio, ma anche i dieci palestinesi per ogni israeliano – ha toccato i suoi limiti. Dopo la ritorsione delle forze della difesa israeliana sul sistema stradale, aeroportuale e infrastrutturale in genere del Libano, viene da chiedersi quale potrebbe essere per le forze israeliane il passo successivo. L´Iran pone un pericolo ancora maggiore per Israele di Hamas o degli Hezbollah, a loro volta clienti dell´Iran. Il pericolo di uno scontro regionale con Israele cresce e gli Stati Uniti potrebbero trovarsi dalla parte sconfitta. Considerando il fatto che gli Hezbollah sono riusciti a tenere testa al violento attacco israeliano e di fronte all´ascesa dell´Iran come potenziale potenza nucleare, l´esistenza d´Israele è in pericolo più che mai dalla sua nascita. Sia Israele sia gli Stati Uniti sembrano essere congelati nella loro non disponibilità a negoziare con un´Autorità Palestinese che includa Hamas. Il rifiuto di Hamas di riconoscere l´esistenza di Israele è il punto critico, ma ciò potrebbe diventare una condizione per un eventuale accordo, invece di restare una precondizione per i negoziati. Dimostrare soltanto la superiorità militare non costituisce una politica sufficiente per affrontare il problema palestinese. Ora vi è l´occasione per una soluzione politica con Hamas, il cui primo passo è stato fatto dall´Arabia Saudita. Sarebbe tragico mancare l´opportunità per una tale prospettiva perché l´amministrazione Bush è impantanata nell´ideologia della guerra al terrore.
Sul MANIFESTO un gruppo denominatosi "ebrei per la pace" chiede all'Unione europea di trattare con il governo palestinese e di modificare le richieste del quartetto. Hamas dovrà dichiarare non che riconosce Israele, ma che riconoscerebbe Israele in caso quest'ultima si ritirasse entro i confini del 67.
La propaganda del gruppo islamista continua a ripetere agli occidentali che è l'occupazione a determinare il rifiuto di riconoscere Israele. Ma in realtà l'opposizione all'esistenza di Israele è religiosa ( e, per quanto riguarda Hamas, non subito nessuna radicalizzazione in tempi recenti ). La richiesta degli "ebrei per la pace" è dunque semplicemente di avviare i rapporti con il governo palestinese senza condizioni e mettere Israele sul banco degli accusati, per di più predeterminando quello che dovrebbe essere l'esito dei negoziati di pace.
Ecco il testo dell'articolo:
Facendo nostre alcune delle considerazioni e raccomandazioni contenute nell'articolo di Henry Siegman - direttore del U.S./Middle East Project e docente della School of Oriental and African Studies dell'Università di Londra - apparso il 19/2/07 sull' International Herald Tribune e nell'editoriale di Haaretz del 5/2/07, nonché in un articolo di Uri Avnery del 17/2/07, ci rivolgiamo all'Unione europea e alle dirigenze dei vari Paesi che ne fanno parte, perché diano un proprio indipendente contributo all'inizio di serie trattative di pace tra Israele e l'Anp.
All'Unione europea, ai leader dei paesi europei. Come individui e gruppi di ebrei impegnati per la pace tra israeliani e palestinesi riteniamo che: dopo la vittoria di Hamas alle elezioni dello scorso anno, il governo israeliano ha continuato a delegittimare ogni possibile interlocutore palestinese. Già l'Autorità palestinese era stata ignorata da Sharon nel ritiro da Gaza. Olmert ha boicottato e ottenuto il boicottaggio internazionale del governo Hamas uscito vincitore dalle elezioni e ha nel contempo delegittimato Abu Mazen. Oggi continua a farlo anche di fronte a un nuovo e importante sviluppo: il recente accordo per un governo palestinese di unità nazionale, cui si è pervenuti alla Mecca su iniziativa di re Abdullah, sembra aver raggiunto tre obiettivi: 1) fermare la guerra civile fra i palestinesi che, se fosse andata avanti, avrebbe portato a un bagno di sangue con esiti catastrofici e reso impossibile ancora per molti anni parlare di pace nell'area; 2) sganciare Hamas dall'influenza dell'Iran verso cui l'organizzazione si era rivolta in mancanza di alternative; 3) rompere il tabù dell'impossibilità di appoggiare un governo palestinese che includa Hamas, e indicare nel nuovo governo di unità nazionale un interlocutore possibile e legittimo. Sembra perciò che ci siano adesso i presupposti perché con il sostegno dell'Arabia saudita - da cui gli Stati uniti dipendono non solo per il petrolio ma anche per la gestione dello scontro con l'Iran e per la situazione irachena -, l'Europa possa sganciarsi dalla subordinazione verso l'alleato americano nella questione del conflitto israelo-palestinese. L'Unione europea dovrebbe quindi annunciare immediatamente la fine del boicottaggio e aprire un dialogo con il governo di unità nazionale per la ripresa delle trattative con Israele, nella consapevolezza che non si può perdere anche questa occasione di pace. Sarebbe una ripetizione del tragico errore già commesso nel 2002, quando l'Arabia saudita propose la fine completa delle ostilità tra il mondo arabo e Israele e il riconoscimento dello Stato ebraico, da parte araba, a fronte del ritiro dai territori occupati. Sono state poste finora tre condizioni per la fine del boicottaggio: a) il riconoscimento da parte di Hamas dell'esistenza dello Stato d'Israele; b) la fine del terrorismo; c) il pieno riconoscimento degli accordi siglati dall'Olp. Però questi tre punti sono assolutamente unilaterali poiché la radicalizzazione della società palestinese rappresentata dal voto ad Hamas ha tra le sue ragioni intrinseche la prosecuzione dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967, con tutto il dolore che porta con sé, e le afflizioni che i palestinesi sopportano. Ora, l'Unione europea e i suoi leader hanno la facoltà di cambiare le condizioni preliminari per la fine del boicottaggio internazionale del nuovo governo palestinese di unità nazionale, mettendo così l'Autorità nazionale palestinese in grado di riprendere i negoziati. Dovrebbero cioè chiedere ad Hamas, come condizione preliminare per la fine del boicottaggio, di dichiarare la sua volontà di riconoscere Israele quando Israele dichiarerà il proprio riconoscimento dei diritti palestinesi all'interno dei confini precedenti il 1967, escludendo cambiamenti nei confini senza l'accordo palestinese, come stabiliscono le risoluzioni Onu: questa condizione, infatti, racchiude in sé anche la possibilità delle altre due. In mancanza di quest'atto dovuto, tutto il resto sembra solo un alibi per sostenere l'ingiusto status quo. Vorremmo ricordare ai leader dei paesi europei che la base forte di una simile presa di posizione sta nelle stesse decisioni assunte dall'Unione europea nel marzo 2004, quando i presidenti dei paesi dell'Ue dichiararono all'unanimità l'intenzione di non ammettere nessuna deviazione dai confini del 1967 che non fosse il risultato di un accordo fra le due parti. È il momento di agire in coerenza con questa decisione.
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