Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Fassino vuole trattare con i talebani e sconcerta l'America
Testata:La Stampa - Corriere della Sera Autore: Maurizio Molinari - Ennio Caretto Titolo: «Washington e Fassino - Pipes: assurdo. Come aprire a Mussolini alla fine della Guerra Mondiale»
Maurizio Molinari sulla STAMPA del 19 marzo 2007 presenta una rassegna di reazioni di analisti americani alla proposta, avanzata da Piero Fassino, di aprire una trattativa con i talebani:
Molti dubbi, aspre critiche ma anche qualche interesse: è questa la reazione a Washington di esperti di terrorismo e politologi alla proposta avanzata da Piero Fassino di invitare i talebani a un’ipotetica conferenza di pace sull’Afghanistan. A farsi portavoce dei dubbi è Patrick Clawson, direttore del Washington Institute. Secondo Clawson «i talebani politicamente sono molto deboli, divisi, non hanno mai dimostrato capacità di amministrare governi e tantomeno di negoziare accordi internazionali » e dunque «l’idea di Fassino rischia di essere inefficace » in quanto rivolta «ad un insieme di guerriglieri, leader tribali e terroristi che hanno poco in comune tranne la fedeltà al mullah Omar». Da un centro studi vicino all’amministrazione Bush come l’Hudson Institute arriva invece un commento più tagliente: «Trattare con i talebani sull’Afghanistan equivale a sedersi al tavolo con Himmler sull’assetto della Germania del dopoguerra o con i repubblichini di Salò per decidere il futuro dell’Italia - osserva Laurent Murawiec, analista di terrorismo -. La pace che cerca Fassino è quella dei cimiteri e ciò che mi sorprende di più non è il cedimento all’estrema sinistra italiana quanto il fatto di pensare di potersi sedere allo stesso tavolo con degli assassini feroci. Dopo i talebani Fassino con chi altro vorrà parlare? Con Osama bin Laden o Ayman Al Zawahiri?». Interesse viene invece da Charlie Kupchan, titolare degli Studi Europei al Council on Foreign Relations di New York, secondo cui «da un lato risponde alla verità che la pace si fa con i nemici, e dall’altro gli Stati Uniti lo stanno già facendo in Iraq con la Siria e l’Iran». E ancora: «E’ difficile non immaginare che siano in corso contatti segreti in Afghanistan fra comandanti americani e leader tribali che hanno collegamenti con i talebani». La perplessità di Kupchan non è sull’idea in sé quanto sull’opportunità di lanciarla in coincidenza con le trattative per la liberazione di Daniele Mastrogiacomo. «Il sequestro di un connazionale porta un governo ad affrontare la questione di quanto sia lecito trattare, pagare in denaro o versare altri prezzi politici per ottenerne la liberazione » sottolinea Kupchan, e dunque «non è il momento giusto per avanzare una proposta politica così complessa come una conferenza internazionale di pace» senza contare che «il principale ostacolo a una simile conferenza non sarebbero gli Usa ma la difficoltà di far discutere attorno a uno stesso tavolo il presidente Karzai con il leader del Pakistan Musharraf, in quanto hanno avuto forti dissapori» proprio sui temi della sicurezza, della lotta al terrorismo e dei rapporti con i talebani. Vincent Cannistraro, ex capo dell’antiterrorismo della Cia, è in sintonia con Kupchan. Richiamandosi alla realpolitik «dimostrata da questa amministrazione nel dialogare lontano dai riflettori con Siria, Iran, Moqtada al Sadr e la Corea del Nord», Cannistraro ritiene che «non vi sarebbe nulla di anomalo nell’esistenza di contatti diretti anche con i talebani», ma il problema è un altro: «I talebani politicamente sono fratturati, non esistono come unica entità politica, chiunque prendesse accordi finirebbe per apparire non credibile in un negoziato ». Anche per queste ragioni Cannistraro ritiene che dietro la trattativa su Mastrogiacomo vi sia il mullah Omar in persona: «Dadullah è un comandante che dà il proprio nome a una trattativa complessa ed importante, nella quale i rapitori stanno chiedendo al governo afghano prezzi politici in crescendo e ciò è possibile solo a patto che chi tratta prenda direttamente gli ordini dal mullah Omar» ovvero il super-ricercato leader dei talebani latitante dalla fine del 2001 che, secondo fonti governative afghane, si nasconderebbe nella città pakistana di Quetta. C’è un altro punto sul quale Cannistraro e Kupchan concordano: «Se D’Alema ha detto che non si può trattare all’infinito con i talebani ha ragione, riaprire adesso la trattativa sarebbe l’errore più grande». L’apertura di Fassino ai talebani è stata registrata anche al Dipartimento di Stato dove però la portavoce Nancy Beck afferma che «per avere un nostro commento ufficiale serve tempo». Anche perché questa sera proprio D’Alema cenerà a Washington con il segretario di Stato Condoleezza Rice.
Dal CORRIERE della SERA, un'intervista a Daniel Pipes:
WASHINGTON — Per l'islamista Daniel Pipes, in questo momento una conferenza di pace internazionale con i talebani sarebbe «una vera assurdità». Si tratta con il nemico, risponde il consulente della Casa Bianca e del Congresso, «soltanto quando depone le armi o viene sconfitto». Pipes fa questo paragone: «Sarebbe come se agli inizi del '45 gli alleati avessero invitato Mussolini a una conferenza di pace. I talebani devono essere battuti, come lo dovevano essere le forze dell'asse nella seconda guerra mondiale. Poi si potrebbe discutere, come si discusse allora». Lo studioso ritiene la proposta di Fassino intempestiva e controproducente: «Adesso bisogna non legittimare i talebani bensì neutralizzarne l'offensiva. Non è gente che voglia il dialogo, vuole il dominio assoluto del Paese, sono spietati nemici della democrazia e dell'Occidente». Pipes, autore di numerosi trattati sul mondo musulmano, rispecchia il parere dell'amministrazione Bush e dei repubblicani al Congresso. Dichiara di non conoscere Fassino, «ma da quello che so di lui la sua proposta mi sorprende» aggiunge. E precisa: «Mi sembra che rifletta la posizione non del governo italiano, ma della sinistra radicale, dei pacifisti a tutti i costi. Se si tenesse una conferenza a breve, la crisi afghana si aggraverebbe, non si allevierebbe. Prima occorre stabilizzare il Paese». Pipes non esclude però una conferenza di pace in qualsiasi situazione. «Per esempio — spiega — se tra qualche tempo il governo afghano decidesse di negoziare coi talebani, la conferenza quindi fosse bilaterale, la accetterei. Presupporrei che il governo negozia da una posizione di forza e per unificare il Paese, non per tradirlo. In questo caso, si potrebbe poi promuovere una conferenza di pace internazionale per ratificare gli accordi». Sul ruolo delle truppe alleate in Afghanistan l'esperto si stacca però dalla Casa Bianca e dai «neocon». Mentre l'amministrazione Bush insiste perché esse continuino a combattere, a giudizio di Pipes nel prossimo futuro toccherà alle truppe afghane difendere il Paese dai talebani: «Il governo di Kabul deve porsi in condizione di contenerli da solo. Abbiamo abbattuto un regime orrendo, liberato la popolazione ma adesso è la sua guerra, non la nostra. Non possiamo divenire forze di occupazione, possiamo soltanto addestrare, armare e consigliare le forze afghane». Pipes non pone scadenze, ma ammonisce che alla fine la crisi andrà risolta politicamente. Vede un certo parallelismo con l'Iraq: auspica che le operazioni delle truppe americane cessino al più presto in entrambi i Paesi, che esse si ritirino in alcune basi strategiche, e che i partiti collaborino tra loro: «La pacificazione richiederà notevoli sforzi e molta pazienza». Alla domanda se gli americani e la Nato possano ritirarsi dall'Afghanistan, Pipes risponde di no. «Sono 34 anni, dalla caduta del re, che Kabul vive in stato di estrema insicurezza. E' necessaria una nostra presenza a lungo termine, forse di decenni, ma non in funzione tattica, bensì strategica». Che cosa significa? «Che non siamo lì per fare i poliziotti o per scendere in battaglia, ma per garantire la sopravvivenza della democrazia. Dopotutto, a oltre 60 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ci troviamo ancora in Germania e in Giappone, anche se spero che potremo venire via dall'Afghanistan molto prima». Allora hanno ragione i governi italiano, tedesco, francese e spagnolo che vietano ai soldati di partecipare ai combattimenti? «In questa fase decisiva hanno torto, le prime linee vanno rafforzate, c'è una temporanea escalation del conflitto. Dopo la vittoria, anche se parziale, sarà diverso».