Dal MANIFESTO del 13 marzo 2007:
È stata una overdose di Tzipi Livni.
L'articolo non inizia con un fatto, ma con una frase di disapprovazione, espressa con un linguaggio che caratterizza il ministro degli Esteri israeliano in modo fortemente negativo
Il ministro degli esteri israeliano nelle ultime ore è intervenuta un po' su tutto, dal governo palestinese al nucleare iraniano,
Il governo palestinese e il nucleare iraniano sono evidentemente questioni che riguardano molto da vicino Israele. Quindi Tzipi Livni non è "intervenuta un po' su tutto"
ma soprattutto ha avvertito che Israele interromperà i colloqui con i palestinesi «moderati» (Abu Mazen), se l'Unione Europea non si manterrà ferma sulle tre condizioni poste dal Quartetto (Usa, Russia, Ue e Onu) al governo dell'Anp, per la fine dell'embargo politico ed economico in vigore da quando Hamas ha vinto le elezioni poco più di un anno fa. Più di tutto il Jerusalem Post ieri ha riferito che la signora Livni, la scorsa settimana a Bruxelles, ha avvertito i suoi colleghi europei che «la capacità di fare progressi con i palestinesi moderati è strettamente legata al fermo impegno da parte della Comunità internazionale» sul riconoscimento di Israele, la fine della lotta armata, e il rispetto degli accordi passati. La minaccia,
Non si tratta di una minaccia: è un dato di fatto che le aperture agli estremisti indeboliscono i moderati e diminuiscono le garanzie che eventuali accordi firmati da Israele siano rispettati anche dai palestinesi.
Il ministro degli Esteri israeliano ha soltanto indicato gli effetti negativi e pericolosi che avrebbe una apertura europea ad Hamas, e le contromisure che Israele dovrebbe prendere.
ha spiegato il giornale, è una risposta alle pressioni che alcuni paesi europei starebbero facendo sui vertici dell'Ue affinché sia adottato un atteggiamento più flessibile nei confronti del futuro governo palestinese che dovrebbe vedere la luce a fine settimana. Nell'elenco dei «cattivi» ci sono Italia, Finlandia, Spagna e Francia. Il ministro degli esteri non si è fermata alle minacce, pardon, alle «spiegazioni»
Ironia fuori luogo, Israele non ha minacciato nessuno. E' semmai l'Europa che in qualche modo minaccia Israele ipotizzando di finanziare chi vuole la sua distruzione.
ai suoi colleghi europei, perché dagli Stati Uniti, dove è in visita, è intervenuta di nuovo sulla questione dell'assetto futuro Israele-Palestina per ribadire che sarà soltanto lo Stato palestinese a dover trovare una soluzione al problema dei profughi della guerra del 1948 (circa 800mila a quel tempo, oggi 4 milioni) e che Israele non darà mai attuazione alla risoluzione 194 dell'Onu che sancisce il diritto dei profughi di tornare alle loro case e ai loro villaggi (ora in territorio israeliano).
Caso unico nella storia dei conflitti mondiali, tra i profughi palestinesi sono conteggiati anche i discendenti dei profughi del 48.
Lo scopo di chi avanza queste richieste è garantire l'alterazione dell'equilibrio demografico israeliano, distruggendo lo Stato ebraico con la forza dei numeri.
Su questo punto domenica ha battuto con forza il premier Olmert, prima del faccia a faccia con il presidente palestinese Abu Mazen, aggiungendo di guardare al prossimo vertice arabo (28-29 marzo a Riyadh) con la speranza che l'incontro porti ad una modifica dell'iniziativa saudita del 2002, ovvero all'annullamento dei punti che affermano il diritto al ritorno per i palestinesi. Israele nega di avere responsabilità nella questione dei profughi che, sostiene, sarebbero andati via «spontaneamente» o su sollecitazione dei paesi arabi confinanti, nonostante la stessa storiografia israeliana più recente smentisca questo mito creato 60 anni fa.
Non si tratta di un mito. Persino alcuni politici arabi dell'epoca nelle loro memorie hanno attribuito ai loro inviti la responsabilità dell'esodo, come documenta Bernard Lewis nel libro "Semiti e antisemiti".
E, tra gli storici che hanno messo in discussione la consolidata versione della storigrafia israeliana, i più seri, come Benny Morris, non hanno mai parlato di un piano deliberato di espulsione. I palestinesi sono fuggiti dalle zone di combattimento, per evitare di subire gli effetti di una guerra scatenata dai loro capi.
Il ministro Livni ieri ha trovato il modo anche di ripetere che le sanzioni contro l'Iran per il suo programma nucleare dovranno «essere rafforzate ed estese senza indugio».
Per Il MANIFESTO non è il caso? E' bene che l'Iran abbia la sua bomba atomica e il suo genocidio ?
Intanto fallito il vertice di domenica con Olmert, che ha rifiutato di dare il via libera al futuro governo palestinese, Abu Mazen sta cercando di stringere i tempi per la formazione del nuovo esecutivo. Gli ostacoli sul terreno rimangono molti, anche perché correnti all'interno di Fatah e Hamas continuano a lavorare contro gli accordi della Mecca. Senza dimenticare le critiche durissime che il numero due di Al-Qaeda, Ayman Zawahri, domenica ha rivolto al movimento islamico palestinese che ha accusato di aver «svenduto la Palestina agli ebrei». Fawzi Barhum, un portavoce di Hamas, ha affermato che «Zawahri ha commesso errori gravi nei confronti del nostro movimento e ha usato termini che non si conciliano con i nostri dirigenti, con i nostri simboli e con la nostra forte presenza sul terreno». Barhum ha aggiunto che «è errato fare paragoni fra l'Iraq e l'Afghanistan, da un lato, e la Palestina, dall'altro. Qui il nostro popolo intero è sotto occupazione e in parte recluso. Eppure - ha concluso - la nostra resistenza ha avuto successi sia sul terreno che sul piano politico».
Degna chiusura di questo articolo propagandistico, nella quale si illustrano gli eroici sforzi dei governanti palestinesi per non massacrarsi a vicenda e per non fare la figura di essere meno terroristi di Al Qaeda.
La "generazione perduta" dell'intifada è al centro di un articolo di Umberto De Giovannangeli, pubblicato dall'UNITA'
Assente ogni denuncia dell'ideologia di odio e di violenza che porta a considerare eroi i terroristi suicidi.
Così la società palestinese, inquadrata da un'ideologia totalitaria incentrata sul culto della morte e sulla disumanizzazione antisemita degli israeliani, ideologia che l'ha condotta a una guerra rovinosa, diviene la vittima della "repressione" israeliana.
Ecco il testo:
GIOVANI senza speranza. Sono cresciuti conoscendo solo violenza e odio. Hanno visto morire attorno a sé parenti e amici. Gioco e realtà si sono intrecciati nel segno della vendetta. Sono i ragazzi dell’Intifada: l’ultima generazione. Un misto di rabbia e di determinazione nell’abbracciare la causa più estrema, quella che come modello non ha più il fondamentalismo di Hamas ma il Jihad globalizzato di Al Qaeda. Ragazzi che non hanno più sogni, perché nell’inferno di Gaza e nei villaggi della Cisgiordania spezzati in mille frammenti territoriali dalla «barriera di difesa» israeliana, è vietato anche sognare. È il drammatico ritratto dell’ultima generazione palestinese che emerge dal reportage di Steven Erlanger che ieri ha aperto la prima pagina dell’Herald Tribune. Quello dell’inviato del New York Times è un viaggio nella disperazione che accomuna i giovani palestinesi, che unisce le storie di tanti ragazzi di Gaza e della Cisgiordania. La rabbia di questi ragazzi è una pesante ipoteca per il futuro della Palestina. Perché quello palestinese è un popolo di giovano: il 56,4% dei palestinesi ha meno di 19 anni e a Gaza il 75,6% della popolazione è sotto i 30 anni, rileva l’ultimo rapporto dell’Ufficio Centrale Palestinese di statistica.
Una generazione estrema. Nelle scelte politiche e di lotta che abbraccia. «In politica, come nella religione, come nella militanza tutto è vissuto in modo più estremizzato», dice Shadi el-Haj, 20 anni studente all’Università An Najahdi Nablus. «Nella prima Intifada - aggiunge - c’era l’orgoglio di sentirsi palestinesi. Oggi tutti i discorsi iniziano cone “Io sono di Fatah, io sono di Hamas...”».
Generazione estrema. Che guarda con disincanto se non con manifesta ostilità ai discorsi delle «colombe» palestinesi che continuano a parlare della necessità del dialogo con Israele. Per questi giovani senza futuro «dialogo» è una parola priva di senso. Oggi, spiega Nader Said, docente di scienze politiche all'Università di Birzeit (Ramallah), il 58% dei palestinesi sotto i 30 anni - stando a recenti sondaggi - si aspetta una radicalizzazione dello scontro con Israele nei prossimi 5-10 anni, e soltanto il 22% spera che in questo stesso arco di tempo si possa giungere ad una soluzione negoziale. Molti ragazzi si dicono pronti a trasformarsi in «shahid» (martiri), immolandosi come bombe umane contro il «nemico sionista». Il reportage del New York Times conferma quanto più volte raccontato dall’Unità: segnati dalla rabbia, privi di speranza. Sono i giovani palestinesi. Le loro storie riflettono una realtà segnata dalla miseria e da una quotidianità che non lascia spazio alla speranza.
È la realtà che sin dal primo giorno di vita, ha accompagnato Mirvat Missoud, 18 anni e sei fratelli, cresciuta nel campo profughi di Jabaliya (Striscia di Gaza), roccaforti dei gruppi oltranzisti dell’Intifada. Mirvat aveva deciso lo scorso novembre di usare il suo corpo come strumento di morte: voleva divenire una «shahid». Mirvat voleva seguire l’esempio di suo cugino, Nabil, militante delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Al-Fatah) morto nel 2004 in un attentato suicida. Le brigate rifiutarono la richiesta di Mirvat, spiegando che un «martire» in famiglia era già abbastanza. Ma Mirvat non ha abbandonato il suo proposito. Sulle pareti della camera che divideva con tre fratellini, aveva incollato i poster degli «shahid» di Jabaliya. Poi un giorno, Marvat è andata incontro al destino desiderato, facendosi saltare in aria vicino ad un posto di blocco militare israeliano, ferendo lievemente due soldati di Tzahal. Suhaila Badawi, 20 anni, vive a Jenin, nel nord della Cisgiordania, e conosce in ogni dettaglio la storia di Mirvat. Per lei è un modello da seguire, è il simbolo del riscatto delle giovani palestinesi: «Non so se avrò mia il coraggio di Mirvat - dice - ma la capisco completamente e l’ammiro. Sono fiera di essere palestinese come lei». E come lei lo sono Fayyad, Mustafa, Raed, Salma, Ahmed, i ragazzi di Gaza e della West Bank che popolano questo viaggio nella disperazione di una gioventù bruciata. E non per sua colpa.
Questioni politiche e umanitarie si confondo in un trafiletto, pubblicato sempre dall' UNITA' sul matrimonio tra una drusa del Golan e un siriano.
Fino a che perdurerà l'"occupazione" israeliana la drusa non potrà rivedere la siua famiglia d'origine, sostiene il quotidiano.
Dimenticando che è lo stato di belligeranza verso Israele voluto dal regime siriano a rendere difficili o impossibili i passaggi tra i due paesi, e anche le trattative sui territori contesi.
Ecco il testo:
VALICO DI KUNETRA Matrimonio sulla terra di nessuno, prima di lasciare per sempre il Golan e la famiglia. Una giovane drusa ha sposato ieri un siriano in una rara cerimonia al confine fra la Siria e le Alture sotto controllo israeliano. Vestita di bianco, la 26enne Arwad Abu Shahin ha poi salutato i familiari e ha attraversato la sorvegliatissima frontiera per abbracciare il suo sposo, il 28enne Muhaned Harb. Arwad non potrà più tornare nel suo villaggio di origine, fino a quando Israele e Siria non firmeranno un accordo di pace.
Il matrimonio, il primo di questo genere negli ultimi quattro anni, è stato possibile grazie all’intervento del Comitato internazionale della Croce Rossa e all'Organismo Onu per la supervisione della tregua. Gli sposi si erano conosciuti due anni fa in Giordania e da allora hanno potuto mantenersi in contatto soltanto tramite telefono e Internet. Dopo il sì, pronunciato in una zona cuscinetto alla presenza dei parenti della ragazza e di schiere di soldati armati, la Croce Rossa ha scortato la coppia oltre il confine con la Siria dove erano in attesa i familiari di lui.
«Sono felice ma anche triste perchè lascio la mia famiglia. Il mio cuore è spezzato», ha detto la sposa. L'addio al Golan per lei è definitivo. Almeno finchè lo status delle Alture, occupate nel 1967 e annesse ad Israele nel 1981 non verrà modificato: il confine può essere attraversato solo in caso di matrimonio con i sirian ma solo una volta.
Per rivedere la sua famiglia d’origin, Arwad dovrà andare in Giordania, paese che ha relazioni diplomatiche sia con Israele che con la Siria.
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