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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio Rassegna Stampa
13.03.2007 L'apertura di credito ad Hamas è un errore
un documento di Tzipi Livni sulla politica di Italia, Spagna, Francia e Finlandia

Testata:Il Giornale - Il Foglio
Autore: Gian Micalessin - Carlo Panella - la redazione -
Titolo: «Governo Anp, alt di Israele a D’Alema - I comunicati del jihad - La sorpresa saudita - Perché Abu Mazen non sta mantenendo le promesse»
Tzipi Livni, ministro degli Esteri israeliano critica le aperture europee al governo palestinese, che sostanzialmente legittimano il rifiuto di Hamas di riconoscere Israele.
Ecco il testo della cronaca di Gian Micalessin, dal GIORNALE del 13 marzo 2007:


Tzipi Livni non ci sta più. È stufa dei giochetti di Italia, Francia, Spagna e Finlandia. È preoccupata dalle mosse ambigue di quanti in Europa vogliono offrire piena legittimità al nascente governo palestinese anche senza un riconoscimento d’Israele, senza un esplicito rifiuto della violenza e senza una formale ratifica degli accordi di pace pregressi. Senza cioè le tre condizioni fissate dal Quartetto diplomatico dopo la vittoria elettorale di Hamas del gennaio 2006. I tentativi d’Italia, Francia, Spagna e Finlandia di spezzare la linea della fermezza europea sono emersi dopo l’accordo raggiunto alla Mecca dal presidente palestinese Mahmoud Abbas e dal capo di Hamas Khaled Meshaal per bloccare la guerra civile tra Hamas e Fatah e dar vita a un governo di unità nazionale. Quel governo, rispettando le posizioni di Hamas, si limiterà però a prendere atto degli accordi di pace pregressi senza sancire il diritto all’esistenza d’Israele e senza ripudiare la violenza.
Un sì alle tesi concilianti di quanti propongono di legittimare quell’esecutivo finirà , secondo la Livni, con il vanificare gli sforzi di Israele per l’apertura di un dialogo con i palestinesi moderati e la creazione di un orizzonte politico comune. Il possibile compromesso abbozzato anche dal nostro governo rischia secondo la Livni affondare la linea della fermezza adottata dalla comunità internazionale, rafforzando il «no» fondamentalista al riconoscimento dello stato ebraico .
La dura tirata al nostro Massimo d’Alema e ai suoi omologhi francesi, spagnoli e finlandesi emerge da un documento riservato presentato all’ultima riunione dei ministri degli Esteri europei. «La capacità di Israele di sviluppare il dialogo con i moderati palestinesi è strettamente connessa al rifiuto della comunità internazionale di legittimare qualsiasi governo palestinese che non rispetti i principi del Quartetto», scrive la Livni .
Il documento del ministro degli Esteri israeliano evidenzia poi le conseguenze pratiche della scelta europea. «Negando legittimità politica a chi respinge i principi cardine di un normale rapporto di pace - spiegava la Livni - l’Unione europea rafforzerà i gruppi moderati palestinesi e faciliterà un’intesa tra le parti dimostrando che l’estremismo non conduce da nessuna parte e non verrà tollerato internazionalmente». Seguendo le indicazioni dal governo italiano e di quanti vogliono chiudere un occhio sul «no» al riconoscimento d’Israele si finisce invece - sostiene la Livni - con il delegittimare i moderati palestinesi, premiare le posizioni estremiste e rendere molto ardua se non impossibile la creazione di un panorama politico condivisibile.
Per meglio evidenziare la pericolosità delle posizioni di Roma, Madrid, Parigi ed Helsinki il documento della Livni invita i ministri degli Esteri europei a considerare i rischi su scala mondiale di una decisione che equipara chi crede nel dialogo e chi confida invece nelle armi e nella violenza. «Se quelle tre condizioni non verranno mantenute e la comunità internazionale riprenderà a dialogare con gli estremisti quali possibilità - ha argomentato la Livni - vi sarebbero di raggiungere un’intesa? Semplicemente nessuna - ha concluso - visto che gli estremisti potrebbero ottenere quanto vogliono senza concedere nulla in cambio». Un’osservazione che sembra, per ora, aver definitivamente spiazzato le tesi del ventre molle dell’Unione europea.

Dal FOGLIO, l'analisi di Carlo Panella sull'attacco di Al Qaeda ad Hamas e sulle pericolose aperture europee al governo palestinese: 

Roma. Ayman al Zawahiri, numero due di al Qaida, ha lanciato durissime accuse contro Hamas, che si è sentito in obbligo di rispondere. Là dove il medico egiziano ha attaccato a testa bassa, ha insultato e minacciato con veemenza, Hamas ha risposto invece con toni che rendono evidente il rispetto per un avversario politico cui i suoi dirigenti si sentono accomunati dalla militanza iniziale dentro il movimento dei Fratelli musulmani. Il tutto accompagnato dal timore di lasciare scoperto il fianco all’iniziativa terrorista ed estremista che Hamas ha sempre praticato, ma che ora al Qaida propone in Palestina con iniziative autonome. Zawahiri ha criticato Hamas per l’accordo raggiunto con al Fatah alla Mecca per la costituzione del nuovo governo di unità nazionale palestinese: “I leader di Hamas hanno consegnato agli ebrei la maggior parte della Palestina. Sono caduti nel pantano della capitolazione, hanno preso lo stesso cammino dell’ignominia e della sottomissione di Anwar al Sadat e hanno svenduto la causa palestinese perché fosse loro consentito di mantenere un terzo del governo. Ma quale governo? Un governo ridicolo che neppure ha il diritto di entrare o uscire dai Territori palestinesi, né di spostarsi senza un’autorizzazione di Israele. I leader di Hamas hanno commesso un’aggressione contro i diritti dell’umma islamica, accettando di rispettare gli accordi internazionali e sono caduti nelle sabbie mobili della resa”. A fronte di tale virulenza, la risposta di Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, è stata moderata: “Si tratta di accuse ingiuste, senza conseguenze per la politica di Hamas, che sa come leggere la situazione internazionale e regionale. Ricordiamo ancora i nostri leader uccisi in operazioni israeliane, il nostro fondatore, Ahmed Yassin, il suo successore, Abdel Aziz Rantisi, e soprattutto ricordiamo che Hamas sta ancora resistendo per liberare Gerusalemme. E’ comunque errato fare paragoni fra il jihad in Iraq e in Afghanistan da un lato, e la Palestina dall’altro. Qui il nostro popolo intero è sotto occupazione, stretto d’assedio e in parte recluso. Eppure la nostra resistenza ha avuto successi sia sul terreno sia sul piano politico. Si tratta delle personali interpretazioni di Ayman al Zawahiri. Piuttosto, ci sarebbe invece piaciuto vedere le Nazioni arabe e musulmane ergersi unite dietro al popolo palestinese”. La moderazione appare ancor più strana, se si tiene conto che l’accusa di Zawahiri di “avere seguito Sadat nel cammino dell’ignominia e nella capitolazione” è stata un chiaro e esplicito messaggio di morte. I dirigenti di Hamas sanno che lui partecipò al complotto che uccise Sadat e che quella frase significa che anche loro rischiano una fatwa di morte. Il giornalista della Bbc rapito a Gaza Nelle stesse ore in cui a Gaza veniva rapito un giornalista della Bbc da anni nei Territori, è arrivata anche la risposta di Abu Laila, dirigente di Hamas: “Zawahiri ha commesso molti errori e sbaglia accusando Hamas di avere tradito la Palestina firmando gli accordi della Mecca, perché in questo modo il nostro movimento ha mirato a salvaguardare il sangue palestinese”. Il gruppo palestinese dunque considera al Qaida un interlocutore alle cui accuse è dovuta immediata risposta, dà segno di soffrire del paragone col successo del jihad guidato da Zawahiri in Afghanistan e Iraq, suoi modelli di riferimento, e soprattutto non considera affatto al Qaida un gruppo “nemico dell’islam” cui, secondo le regole fondamentaliste, non è dovuta la minima attenzione. Di più, i due dirigenti palestinesi scusano l’accusatore che – dal lontano Pakistan – non sa “leggere la situazione internazionale e regionale” e insinuano il dubbio che non della posizione di al Qaida si tratti, ma di quella “personale” del medico egiziano. Questo episodio evidenzia come Hamas si senta parte integrante della complessa galassia del terrorismo fondamentalista, di come tema e rispetti al Qaida e di come sia su una posizione di rottura nei confronti dei paesi musulmani “che non la difendono”. La polemica dovrebbe essere valutata con attenzione dai dirigenti europei, perché al Qaida attacca sul punto che sa più vulnerabile: il riconoscimento degli accordi siglati da Arafat. Kaleed Meshaal alla Mecca ha rifiutato ogni riconoscimento di Israele, ma sul punto degli accordi ha dovuto fare qualche minima concessione. Oggi l’Ue, dietro spinta franco-italiana, pare intenzionata a non fare del riconoscimento di Israele una discriminante, ma deve rendersi conto che quando al Qaida lo richiama all’intransigenza nei confronti degli accordi siglati di Arafat, Hamas si trova in difficoltà, ed è pronta a fare marcia indietro.

Sempre dal FOGLIO, un analisi dell'interessamento israeliano per il piano saudita:

Gerusalemme. Questa volta non si tratta di voci. Arabia Saudita e Israele si stanno parlando, in preparazione del summit della Lega araba a Riad, il 28 marzo, in cui re Abdullah riproporrà la sua iniziativa del 2002: il riconoscimento arabo d’Israele in cambio del ritiro sui confini del 1967. Qualche mese fa, la stampa israeliana aveva parlato di contatti segreti tra Israele e Arabia Saudita, addirittura di un incontro, in Giordania, tra Bandar bin Sultan, consigliere per la Sicurezza nazionale di Riad, e il primo ministro Ehud Olmert. In queste ore, Bin Sultan è a Washington. E a Washington c’è anche il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni, che ieri, alla radio nazionale, ha detto: “L’iniziativa saudita è basata su un’idea molto positiva”. Domenica, il premier Olmert ha aperto la seduta settimanale del Parlamento annunciando d’essere pronto a “trattare seriamente l’iniziativa saudita”. “Speriamo molto che durante il vertice dei capi di stato arabi a Riad gli elementi positivi espressi nell’iniziativa saudita siano resi validi e magari possano rafforzare le possibilità di negoziati tra noi e i palestinesi”. Di “elementi positivi” nel piano presentato dai sauditi al summit della Lega araba del 2002, a Beirut, il premier aveva già parlato mesi fa. Certo, il testo contiene “richieste irrealistiche” e il ministro ha mantenuto la linea espressa nelle scorse settimane: affinché Israele lo accetti sono necessari emendamenti. Già nel 2002 la bozza originale (iniziativa saudita) presentata dal sovrano Abdullah, allora ancora principe ereditario, era stata poi rivista e corretta dal resto dei paesi della Lega (dichiarazione di Beirut), diventando inaccettabile per Israele. Questa volta, il re arriva al vertice spalleggiato dal suo Quartetto. I suoi alleati del Golfo, i regimi sunniti moderati di Giordania ed Egitto, uniti dalle preoccupazioni di un’ascesa iraniana e sciita potrebbero aiutare il sovrano a mantenere intatto il testo originale. L’iniziativa saudita è ormai oggetto di dibattito in Israele. La proposta, nel 2002, nel mezzo della seconda Intifada, scoppiata due anni prima, era fuori contesto, dice al Foglio Shlomo Avineri, professore di Scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme ed ex direttore del ministero degli Esteri israeliano. Oggi no: esiste un “interesse comune”, rappresentato dalla minaccia d’espansionismo dell’Iran atomico. Il piano saudita s’inserisce però anche in un rinnovato contesto politico interno. Il governo Olmert è stato criticato duramente per la gestione della guerra estiva con Hezbollah. Il partito del premier, Kadima, nato su una piattaforma imposta dall’ex leader Ariel Sharon che mirava a nuovi ritiri territoriali, in seguito al conflitto in Libano, non può portare avanti l’agenda dei disimpegni. Il premier è stato accusato di non avere più un progetto. E per di più molti membri del suo esecutivo, lui compreso, sono protagonisti di casi giudiziari aperti per corruzione e scandali a sfondo sessuale. Nei sondaggi Olmert è crollato. “Dopo mesi di stagnazione ed esitazione – scrive oggi l’editorialista Aluf Benn sul quotidiano Haaretz – in cui il primo ministro ha perso quasi tutto il sostegno pubblico alla sua leadership, Olmert ha rivelato una nuova agenda”. L’iniziativa saudita potrebbe essere una piattaforma anche per l’altro rais “in cerca di qualche senso”, come lo definisce l’editorialista Danny Rubinstein: Abu Mazen. I due leader si sono incontrati per la seconda volta in poche settimane domenica. Per mesi non c’è stata ombra di un processo diplomatico. Mossi da ragioni di supremazia regionale, i controversi sauditi, con il loro duro regime interno, sembrano essere gli unici ad avere una proposta forse in grado di sbloccare l’immobilismo sul fronte regionale. Per molti commentatori israeliani il piano, per quanto imperfetto, deve diventare la base di un rinnovato processo politico. “La magia dell’iniziativa saudita – scrive ancora Benn – sta nell’essere una semplice dichiarazione di principi piuttosto che un piano dettagliato”. In queste ore, si attende l’annuncio della formazione di un governo d’unità nazionale palestinese sulla base dell’accordo della Mecca, firmato da Hamas e Fatah con la mediazione saudita. Non ci sono ancora dettagli sulla nuova coalizione; sembra certo che l’esecutivo non soddisferà le condizioni imposte dalla comunità internazionale e da Israele: rinuncia alla violenza, riconoscimento d’Israele e dei precedenti accordi. Dagli ultimi sviluppi, però, Israele potrebbe andare oltre l’intesa della Mecca e trattare direttamente, come starebbe già succedendo a Washington, con la controparte araba. Questa saudi connection, spiega Avieri, “porterà a molti sviluppi positivi. Magari non a negoziati con i palestinesi, ma a trattative su scala regionale forse sì”.

Voci palestinesi sulla crisi di Al Fatah, in un articolo di Rolla Scolari:

Gerusalemme. A più di un anno dalla vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi, Fatah, il partito del rais Abu Mazen, non ha ancora un piano B. Lo storico movimento del negoziato non parla più di pace con Israele, fatta eccezione per il suo leader, e il rivale Hamas non ne ha mai parlato. Il dibattito sui negoziati è in stallo, ripreso a tratti, dal primo ministro israeliano Ehud Olmert e da Abu Mazen, come è accaduto due giorni fa a Gerusalemme. Fatah ha riconquistato ben poco sostegno tra l’elettorato e non ha ancora imparato a fare opposizione. Il movimento, abituato ad anni di potere, soffre di un male interno, che rende impossibile ogni tipo di progresso e costringe il suo leader a far la voce grossa – come l’annuncio di chiedere elezioni anticipate – senza mai riuscire a dar seguito a qualche politica di rottura. Fatah soffre della “sindrome del fratello maggiore”, vuole giocare la parte del protettore della popolazione palestinese, ma s’ingarbuglia su se stesso, vittima di una leadership a tratti mediocre e di un’eredità ambigua com’è quella lasciata da Yasser Arafat. I sintomi dell’impotenza del partito del rais sono chiari: a tredici mesi dalla sconfitta, Fatah non ha subito un rinnovamento politico. Maggioranza e opposizione sono al lavoro sulla formazione di un governo d’unità nazionale, che dovrebbe essere pronto – dicono al Foglio fonti palestinesi – tra mercoledì e giovedì. Le elezioni anticipate, minacciate da Abu Mazen, non sono state indette e lo strappo profetizzato tra il presidente e il movimento islamico non si è verificato. Lo spettro di un voto, di una rottura – sanguinosa – tra Abu Mazen e Hamas, però, rimane. Dopo settimane di scontri armati nelle strade della Striscia di Gaza, con centinaia di morti palestinesi, l’8 febbraio il re saudita Abdullah, alla Mecca, ha ottenuto un’intesa tra Hamas e Fatah sulla creazione di un esecutivo di compromesso, di cui ancora non si conoscono i dettagli. Si sa, però, che il gruppo islamico di maggioranza non è pronto ad accettare le condizioni imposte dalla comunità internazionale (riconoscimento d’Israele, dei precedenti accordi tra Autorità nazionale e Israele, rinuncia alla violenza). L’obiettivo del rais e del premier di Hamas, Ismail Haniye, è quello di far saltare il blocco degli aiuti imposto al governo in seguito all’esito delle elezioni di gennaio 2006. Ma intanto, sono ricominciati gli scontri, per ora a livello di scaramuccia, ma sintomo di una convivenza difficile nella Striscia di Gaza. Il partito di Abu Mazen non ha riconquistato la strada, non ha saputo capitalizzare gli errori del rivale politico né approfittare del sostegno garantitogli dai leader europei, nordamericani e arabi. Quando Hamas aveva vinto le elezioni, si era detto che Fatah aveva perso a causa della corruzione e che i palestinesi avevano voluto dare corpo alla loro protesta contro il vecchio movimento, i suoi membri antichi come dinosauri, la sua improbabile, risucchiante burocrazia. Era una spiegazione soltanto superficiale. Fuori e dentro il partito, molti sono d’accordo: non è la corruzione la sola malattia che impedisce a Fatah di riconquistare l’elettorato di fronte a una mediocre performance della maggioranza. Ci sono l’età, l’arresto del processo di pace, la mancanza di un progetto, l’incapacità di produrre una leadership carismatica. Nessuno, per ora, pare in grado di formulare un piano B coerente, capace di traghettare il movimento in una nuova fase. Rafiq Husseini, capo dello staff di Abu Mazen, è un tipo ottimista. Lo si vede dalla faccia, sempre sorridente. Per lui, naturalmente, Fatah sta riguadagnando terreno: fa l’esempio del recente voto interno al sindacato dei medici che ha visto prevalere il movimento del rais. E ricorda le due manifestazioni in favore di Fatah nei mesi scorsi cui hanno partecipato migliaia di persone. E’ molto fiducioso anche sul governo che verrà: “Il 95 per cento dei palestinesi è ottimista – dice al Foglio – vogliamo che il blocco degli aiuti sia tolto”. Se l’esecutivo non prendesse il via, però, “le elezioni sono l’unica opzione democratica che ci resta”. Le condizioni della comunità internazionale? Dipende da come si guarda alla situazione: “C’è chi vede il bicchiere mezzo vuoto, pretende dichiarazioni più esplicite, non vuole accettare il fatto che nell’accordo della Mecca si siano fatti passi avanti, e c’è chi vede il bicchiere mezzo pieno”. Il solito ingarbugliamento, che si sostanzia in un’unica certezza: la necessità per ogni forza palestinese di mettere fine all’occupazione israeliana. Hamas, però, su questo punto non manca di chiarezza. Fatah, è invece ambigua. E’ l’ex partito della speranza, del negoziato con Israele. Oggi, fallita la trattativa e perse le elezioni, manca di un piano. Una delle poche certezze dell’esecutivo in costruzione è Salam Fayyad. L’economista palestinese, formatosi negli Stati Uniti e vicino al rais Abu Mazen, molto amato nelle cancellerie occidentali, sarà ministro delle Finanze. Alle scorse elezioni il suo piccolo partito-novità, la Terza Via, aveva fatto campagna proprio sulla corruzione di Fatah. Ma aveva ottenuto un magro risultato, provando che la debolezza strutturale dello storico movimento palestinese sta altrove. Oggi Fayyad chiede pazienza: “Le elezioni – ha detto al Foglio poche ore prima che alla Mecca fosse siglato l’accordo sul governo – hanno avuto luogo soltanto un anno fa, non dieci. Le persone non mettono in questione il proprio voto il giorno seguente. Aspettarsi un importante cambio d’opinione pubblica un anno dopo è troppo”. Per l’ex e futuro ministro delle Finanze, esiste una doppia anima di Fatah: il movimento che ha iniziato la lotta per l’indipendenza, quello nato nel 1958 dalla diaspora palestinese nei paesi arabi, alla guida dell’ex leader Yasser Arafat, il gruppo che ha fatto per un certo periodo sperare nella trattativa, e Fatah il partito politico di oggi, “quello che dopo anni al potere si è abituato ad avere la maggioranza. Dopo un voto come questo ci vuole tempo per ricostituirsi”. Il grigio Fayyad non ha certo l’allure del politico rivoluzionario militante, qualità tanto richiesta all’interno dell’establishment politico palestinese: è piccolo e più che di militanza la sua ventiquattrore racconta battaglie di numeri. Crede che la soluzione stia nell’efficienza del governo, nella capacità di offrire servizi al cittadino. Né Fatah né Hamas sembrano focalizzarsi su questo, o almeno non con altrettanta determinazione. Alla guida della Terza Via, assieme a Fayyad, c’è Hanan Ashrawi, storica figura della politica palestinese. E’ figlia del fondatore dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Ex ministro dell’Educazione dell’Autorità palestinese, oggi Ashrawi è deputato del Consiglio legislativo. Secondo lei, “Fatah non ha imparato la lezione”. Ha fallito perché la sua piattaforma politica e l’obiettivo dei negoziati era la costruzione di uno stato. Che non c’è. “Per disperazione, i palestinesi hanno votato Hamas”. La soluzione è per Fatah quella di “ripulirsi”, e “presentare facce nuove”. Certo, Marwan Barghouti, leader della nuova guardia di Fatah e della seconda Intifada, è il nome che tutti fanno quando si parla di nuovo sangue nel partito. Ma, dice Ashrawi, “Marwan non è un salvatore”. Soprattutto è rinchiuso in un carcere israeliano a scontare cinque ergastoli. Lo sguardo di Ashrawi, come quello di Fayyad e di Husseini, è rivolto all’interno. Tra i maggiori fallimenti di Fatah c’è stata l’incapacità di traghettare la popolazione alla pace. Nonostante ciò, nessuno tra gli intervistati ha una nuova proposta che riguardi i rapporti con Israele. Di Israele, detto altrimenti, non si parla. Nell’era di Hamas sembra prevalere anche tra i palestinesi l’unilateralismo, dichiarato dal movimento islamico, non esplicitato da Fatah. Il rais Abu Mazen è solo, spinto dalle forti pressioni della comunità internazionale a tentare, poco convinto e senza un progetto, di tornare a negoziare. Non esiste una piattaforma che indichi la direzione per quanto riguarda Israele. Il presidente palestinese e il leader israeliano Olmert si sono incontrati domenica per la seconda volta in poche settimane. L’opposizione israeliana ha definito il vertice “non necessario”. Non ci sono state svolte decisive. Scrive però l’editorialista di Haaretz Danny Rubistein che i colloqui tra i due sono importanti anche se nessuno più si aspetta risultati concreti. Danno infatti un vantaggio politico ad Abu Mazen su Hamas: è lui, alla fine, a incontrare il primo ministro israeliano, non Khaled Meshaal, leader di Hamas in esilio a Damasco, o Ismail Haniye. “Se non ci fossero incontri diplomatici – dice Rubistein – se non ci fossero sforzi per rinnovare il processo di pace, Abu Mazen sarebbe inutile”. E per Olmert, vale un discorso simile. E’ stato accusato, dopo la guerra in Libano, di non avere un programma sulla gestione del conflitto con i palestinesi. Domenica, davanti al Parlamento, ha detto d’essere pronto a trattare seriamente l’iniziativa saudita del 2002, che re Abdullah riproporrà al summit della Lega araba del 28 marzo a Riad. E già i giornali israeliani parlano di una nuova agenda per il premier. Lo sguardo palestinese intanto rimane rivolto all’interno: Ahmad Ghunaim è amico di Barghouti, suo compagno di lotte. E’ un ex membro di Tanzim (“organizzazione” in arabo, uno dei bracci armati di Fatah, prominente durante la seconda Intifada scoppiata nel 2000), è la nuova guardia, anche se a dire il vero è un signore di quasi cinquant’anni, che indossa improbabili cravatte colorate e oltre a fare l’ex militante è il capo di un’agenzia d’investimenti. Per lui, Fatah non ha fallito a causa della corruzione, ma per l’arresto del processo di pace. “Se il processo di pace avesse funzionato, nessuno avrebbe parlato di corruzione”. E’ d’accordo con Ashrawi. La speranza vacilla. Per entrambi, i palestinesi stanno viaggiando ad alta velocità verso il “suicidio politico”. E mentre il governo è in formazione, Ghunaim ammette che le elezioni anticipate rimangono una possibilità, ma che non sono la giusta opzione: “Nessuno le vede come un futuro prossimo. Esiste un processo di trasformazione di Fatah, ma è sotto la superficie e molto in profondità. A livello politico non è cambiato nulla e non abbiamo mai riconquistato il sostegno della popolazione”. Fatah cerca di ricostruire il movimento, spiega Ghunaim: “Per esempio, creando per la prima volta una leadership unificata per Gaza e Cisgiordania”. La trasformazione interna sembra però più mirata a una ridistribuzione del potere che a una soluzione del conflitto. Il rais Abu Mazen ha da poco annunciato la nascita di un comitato della base, per l’intera Cisgiordania. E sulla novità Fatah litiga, la giovane guardia in questo caso: Mohammed Dahlan, uomo forte del rais a Gaza ed ex capo della Sicurezza della Striscia, e Barghouti. Entrambi vorrebbero la guida della nuova istituzione. I ritardi sulla formazione del governo sarebbero anche legati a uno scontro generazionale in atto: la nuova guardia di Fatah chiede maggiore rappresentanza. Per Sari Nusseibeh, intellettuale palestinese, un tempo politico vicino a Fatah, la popolazione sta perdendo interesse. “Non interessa neppure più l’idea di uno stato palestinese”, dice al Foglio. Quello che i palestinesi vogliono è vivere bene. La politica, secondo Nusseibeh, e la formazione del nuovo governo interessano soltanto uno sparuto gruppo di attivisti: chi cerca una poltrona. Il resto della popolazione è stanca. “Non c’è un’idea che catturi. Abbiamo fallito negli ultimi dieci anni internamente, nel rendere le persone orgogliose di noi come leadership; abbiamo fallito politicamente nel raggiungere il nostro obiettivo: far ritirare Israele sui confini del 1967 e avere uno stato”. Hanan Ashrawi è la quintessenza dell’élite araba. Quando si parla di lei, si fa sempre riferimento al suo orologio di Cartier. Come può, è il vecchio ritornello del militante a ogni costo, con quei grossi anelli alle dita, capire la strada palestinese? “Il problema è che i leader di Fatah stanno al potere per sempre. Deve avvenire un processo di democratizzazione – dice lei, noncurante delle critiche – Per agire bene devono avere istituzioni di partito funzionanti, scusarsi, dire: ‘E’ qui che abbiamo sbagliato’. Invece, non hanno ammesso né rettificato i propri errori”. Il dramma, spiega con la sua voce roca, è che Fatah non è abituato a stare all’opposizione e Hamas non è abituato ad avere la maggioranza. La risoluzione del conflitto, ai tempi di Hamas, sembra essere uscita dal dibattito. Durante la prima Intifada, Dimitri Dilani, 33 anni, era un ragazzino che tirava le pietre ai tank israeliani. Oggi è presidente della Coalizione nazionale cristiana e membro del Comitato di Fatah a Gerusalemme. Ha studiato negli Stati Uniti ed è stato assistente di Nusseibeh. Di sé e dei suoi giovani compagni dice: “Siamo entrati nella vita politica al tempo della moderazione palestinese”. Dei dinosauri di Fatah racconta: "loro sono passati attraverso molti processi mentali per arrivare al punto cui noi eravamo quando avevamo 16 anni”. Una delle malattie di Fatah è l’età. Nel comitato centrale di Fatah il più giovane ha 70 anni. “La nuova generazione sa quello che vuole la strada. La vecchia parla una lingua straniera, la lingua della rivoluzione degli anni Sessanta. Noi giovani trattiamo meglio con Israele, ne capiamo di più le ragioni”. Sarà, ma la storia di Dimitri è lo scontro tra vecchio e nuovo. Alle primarie di Fatah, nel 2005, il giovane ha vinto. Il partito ha preferito però rimpiazzarlo con qualcuno più anziano. Alle elezioni di gennaio 2005 si è presentato come indipendente. “Abu Mazen ha provato a democratizzare Fatah internamente: ha fallito. Ha sbagliato: non è andato fino in fondo nonostante le sue intenzioni – dice al Foglio Dilani – Le forze all’interno del partito sono troppo forti”. Fatah è stata inoltre incapace di fare di Abu Mazen un leader carismatico. Dice Dimitri, seduto nella hall dell’American Colony, storico ed evocativo albergo di Gerusalemme est, stretto nel suo giubbotto di pelle da aviatore, che Abu Mazen “sembra un nonno. Sì, una persona sofisticata, ma non so quanto la popolazione apprezzi questo in opposizione a un tipo che alza la voce come Haniye”. Piace alla comunità internazionale. Ma come la mettiamo con la strada? Davanti al fallimento di Hamas, che brucia le istituzioni, fallisce nel campo economico, della sicurezza, Fatah è incapace di capitalizzare. “Basta ricoprire il ruolo del fratello maggiore – è il consiglio del giovane al suo partito – Fatah ha fallito nel suo ruolo d’opposizione e Hamas ha pagato un prezzo molto basso per i suoi errori”. Diane Buttu è delusa dal partito e da Abu Mazen, di cui era consigliere. Si è accorta che “non era il presidente che avremmo voluto. Volevamo un riformatore, qualcuno di credibile davanti alla comunità internazionale; ho realizzato che era debole e inutile”. E’ stata anche consigliere legale di Dahlan. Attrae chiacchiere il fatto di essere tra le rare, giovani e belle donne della politica palestinese. C’è anche chi mormora che, nonostante fosse tra i migliori professionisti dell’area Fatah, sia rimasta tagliata fuori per la sua giovane età e per il fatto di essere una donna. “Se fossi Abu Mazen, darei le dimissioni e li lascerei governare”, aveva detto pochi mesi fa al Foglio. Intendeva Hamas. “Le istituzioni sono già distrutte”, lei spera collassino completamente. Per poi ricostruirci sopra. Diane è diretta: “Nessuno in strada è interessato al riconoscimento d’Israele. Vogliono una strategia nazionale capace di mettere fine all’occupazione”. Hamas ha poco credibili progetti apocalittici. Fatah parla di democratizzazione interna, in mancanza di un piano per trattare con Israele. O per combattere con Israele. E’ un avvocato, Diane, nata e cresciuta in Canada. Per lei, “se Abu Mazen rimuovesse il governo senza spiegazioni” e chiamasse elezioni anticipate, si andrebbe verso la violenza. “Le sole elezioni che possiamo avere sono fra quattro anni”. Il voto anticipato aprirebbe lo scontro diretto con Hamas. Tuttavia, dice Diane, la strategia di Abu Mazen di non confrontarsi con Hamas “non è giusta per i palestinesi”. Il confronto è dire chiaramente chi è il presidente, e far capire “che il presidente ha più poteri del premier”. Nonostante tutto, nonostante militarmente negli scontri intestini dei mesi scorsi Fatah abbia avuto la peggio, e sia arrivato vinto ai colloqui della Mecca, nonostante l’intesa tra le fazioni non abbia piegato Hamas a concessioni e abbia dato ben poco al partito del rais, Abu Mazen rimane la sola alternativa della comunità internazionale e il suo movimento – vecchio, stanco, immobile – non lascia ancora a Hamas la completa libertà di gioco in campo: “Fatah – dice Dimitri – è ancora un attore forte per la stessa ragione per la quale Hamas ha vinto. Sopravviviamo a causa del fallimento di Hamas”. La pace con Israele resta dunque per ora forse soltanto il debole progetto di un isolato rais sotto pressione.

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