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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
12.03.2007 Esempi di reticenza
su Tariq Ramadan e sull'islam americano

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Tariq Ramadan - Cesare Martinetti - Andrea Elliott
Titolo: «Maometto,mi sono innamorato di Mariya - Tariq il guru delle banlieus - Neri e immigrati uniti dall´Islam la strana alleanza di New York»

In questo brano della sua biografia di Maometto, in uscita da Einaudi, Tariq Rmadan sostiene che l'arrivo della schiava Mariya fu un'occasione di elevazione morali per le mogli del Profeta, inclini ad abusare del legame con lui per comquistare prestigio e potere.
Un'interpretazione che sembra piuttosto alludere all'idea che alle donne debbano essere comunque negati prestigio e potere e che la loro condizione di subordinazione debba essere rimarcata umiliandole.

Ecco il testo, pubblicato dalla STAMPA:

La vita privata del Profeta esigeva una presenza e un’attenzione particolari, tanto le tensioni tra le sue spose o con le loro rispettive cerchie familiari potevano essere aspre e turbolente. Per parte sua, egli era di natura molto conciliante e detestava contrastare l’una o l’altra delle sue mogli. Aisha racconta che il Profeta in casa era molto partecipe e premuroso, aiutava nelle incombenze domestiche, «cuciva le sue vesti, riparava le sue calzature» e smetteva solo quando sentiva l’appello alla preghiera; a quel punto tralasciava ogni cosa e si recava alla moschea. In ogni circostanza, e anche durante il mese di Ramadan, era dolce, tenero e affettuoso. Numerosi episodi, soprattutto ricordati da Aisha, mettono in luce questo tratto del suo carattere che le mogli apprezzavano e lodavano molto.
L’insediamento a Medina, dove le donne erano ben più presenti e attive che non alla Mecca, e la situazione economica notevolmente migliorata produssero molti cambiamenti nel modo di condursi delle spose del Profeta. Umar se ne allarmò quando lui stesso, come abbiamo già visto, si trovò di fronte alle rimostranze della moglie, che non ebbe remore a rimbeccarlo contravvenendo al costume delle donne meccane. Ai rimproveri di Umar, la moglie osservò che la loro figlia Hafsa rispondeva in quel modo al Profeta suo marito, e che se Muhammad (Maometto) tollerava un simile comportamento, doveva tollerarlo pure lui. Umar, meravigliato, volle indagare presso la figlia su come stessero realmente le cose. Hafsa confermò che lei e le altre mogli del Profeta erano avvezze a esprimersi e a discutere con il loro sposo: gli rispondevano liberamente e la cosa non suscitava problemi. Umar si recò da Muhammad per invitarlo a rimettere immediatamente ordine nelle sue faccende domestiche. Il Profeta l’ascoltò e sorrise, ma non reagì.
Muhammad aveva abituato le mogli all’ascolto e al dialogo: egli prestava orecchio ai loro consigli e mantenne sempre con loro lo stesso atteggiamento rispettoso che aveva condiviso con Khadija. Le mogli distinguevano tra il suo statuto di Profeta e la sua qualità di marito e di comune essere umano.
Fu l’arrivo della schiava Mariya, offerta al Profeta da Muqawqis, a far precipitare gli eventi. Mariya era di bellezza eccezionale e Muhammad si recava spesso da lei. La gelosia si impadronì degli animi delle mogli, e Aisha e Hafsa si abbandonavano alle critiche nei confronti della schiava e del Profeta, quando parlavano tra di loro in sua assenza. Il Profeta dapprima fece spostare Mariya, che soffriva delle mormorazioni, in un’abitazione più lontana; ma poiché le cose continuavano a peggiorare, promise di separarsi da lei. Giunse, però, la Rivelazione, a contraddire la decisione che il Profeta si era imposta, facendo pendere una minaccia di ripudio su tutte le mogli. Questa situazione di crisi le allarmò, come allarmò numerosi compagni tra cui Umar: il Profeta si era isolato e rifiutò di vedere le sue spose per quasi un mese in attesa che decidessero, secondo il comandamento del Corano, se volevano restare al suo fianco e se desideravano divorziare. Tutte scelsero «Dio e il Suo inviato», secondo la formula utilizzata da Aisha quando il Profeta la interpellò, recitandole i versetti coranici che gli erano stati rivelati sulla sorte delle mogli.
La schiava Mariya era stata una prova e una Rivelazione per tutte le spose di Muhammad. Esse potevano certamente, nella vita privata, distinguere tra il suo statuto di Profeta e il suo rimanere, comunque, un essere umano che poteva essere consigliato e con il quale potevano discutere e perfino litigare; ma non potevano, poi, in modo contraddittorio cercare di avvalersi nella vita pubblica del suo ruolo di Profeta per ottenere diritti e trattamenti particolari quanto al possesso di beni o rispetto al comune sentire della collettività. La Rivelazione ricordava loro, per soprammercato, che non era sufficiente essere la moglie di un profeta, o di un uomo pio, per pensare di avere automaticamente acquisito le qualità della fede e considerarsi, di fatto, come delle elette: così, le mogli di Noè e di Lot furono perdute, mentre la moglie del faraone fu salvata per la sua pietà e, questo, anche se era vissuta a fianco di un negatore di Dio imbevuto di arroganza e di orgoglio. Anche in seno a una coppia, sono la responsabilità, le scelte e il comportamento individuali di ciascun membro a determinarne il destino. Sotto questo rispetto, le mogli del Profeta non potevano pretendere alcun privilegio, e l’umiltà si imponeva. A rendere più difficile la prova delle spose, Mariya sarebbe diventata la madre del solo maschio nato dopo Qasim e Abd Allah (entrambi dati alla luce da Khadija e morti molto piccoli). Il Profeta chiamerà il bambino Ibrahim dal nome del profeta Abramo, riconosciuto come padre del monoteismo anche dalla tradizione copta della sua concubina Mariya.

Non bastasse la pubblicazione senza commenti di questo eloquente brano, La STAMPA pubblica un reticente ritratto di Ramadan  firmato da Cesare Martinetti.
Ricordiamo che l'antisemitismo di Ramadan non è un'opinione di Finkilekraut o  di Henry Levy: è Ramadan che indicato questi ed altri intellettuali come ebrei che difendono Israele in quanto ebrei, rendendosi colpevoli di "tribalismo"
D'altro canto, la doppiezza di Ramadan non è un'ipotesi, perché è stata dimostrata con abbondanza di citazioni ed esempi dalla giornalista Caroline Fourest.

Ecco il testo:

Cosa cercano quelle ragazze velate che affollano compunte e silenziose i centri sociali delle banlieues francesi quando parla Tariq Ramadan? È il mistero indecrittabile e fuligginoso che fa di questo filosofo e islamologo ginevrino quarantacinquenne, uno degli intellettuali più controversi e temuti dell’Occidente nei tempi avvelenati del post 11 settembre. Il governo degli Stati Uniti non gli consente di entrare nel paese; il governo di sua maestà britannica, pur guidato dal leader politico più solidale con la politica di lotta al terrorismo di Washington, lo ha chiamato come consulente per il dialogo intercomunitario. La Francia, che lo aveva messo al bando nel 1995 perché sospetto di vicinanza ai terroristi del Gia algerino responsabili degli attentati al metrò di Parigi, scruta con sospetto i suoi movimenti nelle esplosive periferie urbane. Intellettuali come Alain Finkielkraut, André Gluksman e Bernard-Henri Lévy lo giudicano un antisemita; giornali come Le Monde passano al microscopio ogni sua parola prima di pubblicarla.
Nipote dell’egiziano Hassan al-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, considerata la consorteria che ha incubato i jihadisti più fanatici (lì s’è formato Ayman al-Zawahiri, il braccio destro di Osama Bin Laden) Tariq Ramadan s’è formato ed è cresciuto nella cerchia più cosmopolita e raffinata del movimento. Ha studiato in Europa e al Cairo, vive a Ginevra e insegna a Oxford, attraversa tutti i mondi musulmani europei come predicatore itinerante e guru riconosciuto. Provocatore al punto di definire solo come una «moratoria» la sospensione della lapidazione per le donne infedeli. Ma insieme progressista nell’immaginare che i giovani musulmani cresciuti e istruiti in occidente rappresentano la speranza di democratizzazione per il mondo arabo.
Insomma un ircocervo che in realtà nessuno sa bene come maneggiare. Non un «posatore di bombe, ma un posatore di idee nocive», ha scritto l’Express, attraverso l’uso di un «doppio linguaggio» che le ragazze velate di banlieue comprendono e noi no. Forse è un mito, forse no. Ma Tariq è certo un fenomeno.

Un articolo ripreso dal New York Times e pubblicato da REPUBBLICA ci informa sull'alleanza tra musulmani neri e immigrati in America.
Per difendere i "diritti civili" dei musulmani americani.
Diritti che sostanzialmente sono rispettati, ma che una comunità minoritaria si organizzi per prevenire attacchi è comprensibile e positivo.
Sempre che non si insinuiono altri elementi. Nell'islam afroamericano gioca un ruolo un'organizzazione antisemita come la Nation of Islam di Farrakhan, e tra i musulmani immigrati non mancano purtroppo i fondamentalisti.
Di  questi aspetti problematici, però, l'articolo, composto come un annuncio pubblicitario piuttosto che come un testo informatico, non fa cenno.

Ecco il testo: 



Solo 28 miglia separano la moschea dell´imam Talib, a Harlem, dal Centro islamico di Long Island. Le comunità a cui fanno capo - afroamericani nella moschea di Harlem e immigrati originari dei Paesi arabi e del subcontinente indiano a Long Island - rappresentano le due più grandi comunità islamiche negli Stati Uniti. Eppure sono divise da un abisso, un baratro scavato dalla razza e dalla classe sociale, dalla cultura e dalla storia.
Per molti afroamericani convertiti, l´islam è un´esperienza spirituale e politica al tempo stesso, un´espressione di potere in un Paese che loro percepiscono dominato da un´élite bianca. Per molti immigrati musulmani, l´islam è un´identità ereditata, e l´America un luogo di assimilazione e di prosperità. Per decenni, questi due mondi dell´islam americano sono rimasti lontani. Lo scorso autunno, però, l´imam Talib ha cercato di colmare questa distanza, con una battaglia che dall´11 settembre in poi, è diventata sempre più una battaglia comune. I musulmani neri hanno cominciato a dare una mano agli immigrati, insegnando loro come si fa per mettere in piedi una campagna per la difesa dei diritti civili. I musulmani immigrati offrono agli afroamericani ruoli dirigenziali in alcune delle loro organizzazioni più importanti. I due gruppi hanno unito le forze in politica, formando coalizioni e appoggiando gli stessi candidati.
E un´alleanza ancora incerta, per nulla facile, che sembra riguardare più i leader sul pulpito che la massa dei fedeli. Ma la cosa più importante, è l´opinione di un numero crescente di musulmani, è sopravvivere a una nuova era, un´era ostile. La divisione fra musulmani neri e musulmani immigrati è lo specchio di una difficoltà che accomuna tutte le tendenze dell´islam americano. In nessun altro Paese del mondo, forse, si possono trovare musulmani provenienti da background razziali, culturali e teologici tanto diversi, che si impegnano a cercare la via della coesistenza. Solo alla Mecca, durante lo hajj, il pellegrinaggio dei musulmani, si può vedere altrettanta diversità nella fede islamica, tra bianchi e neri, ricchi e poveri, sunniti e sciiti.
Prima dell´11 settembre, la moschea dell´imam Talib aveva solo contatti sporadici con il Centro islamico di Long Island.
L´imam Talib, 56 anni, è un roboante cappellano militare, e la sua moschea risale ai tempi di Malcolm X. E´ un musulmano di prima generazione. Il dottor Khan, 64 anni, del Centro islamico di Long Island, è uno pneumologo di buone maniere che colleziona antichità cinesi e che ha imparato a sciare sulle montagne del Vermont. E´ un americano di prima generazione. Ma nello scompiglio che ha seguito l´11 settembre, l´imam e il dottore si sono trovati inaspettatamente alleati. «Più siamo divisi, più saremo presi di mira», dice il dottor Khan. Ognuno dei due riconosce quello che ha da offrire l´altro. Gli afroamericani possiedono una padronanza della cultura e della storia americana che gli immigrati non hanno. Godono in America di una posizione inattaccabile da cui difendere la loro fede.
Per l´imam Talib, gli immigrati rappresentano un legame fondamentale con il mondo islamico e con la sua tradizione di studi religiosi, e con la sapienza che proviene da una «solida tradizione islamica».
Sui sei milioni di musulmani che si calcola vivano negli Stati Uniti, oggi, circa il 25 per cento sono afroamericani, il 34 per cento sono originari del subcontinente indiano e il 26 per cento sono arabi.
Per molti afroamericani, la conversione all´islam ha il significato di una rottura con la cultura dominante, mentre gli immigrati musulmani puntano all´assimilazione. I convertiti neri spesso prendono nomi arabi, solo per ritrovarsi con musulmani immigrati che si presentano come «Moe» invece che come «Mohammed».
Le tensioni sono anche di natura economica. Per decenni, gli afroamericani hanno guardato con frustrazione gli immigrati musulmani donare soldi a beneficio di cause di altri Paesi, ignorando in gran parte i problemi dei musulmani poveri negli Stati Uniti.
Al centro del conflitto c´è una questione di leadership. Molti immigrati, suscitando l´ira degli afroamericani, si considerano i leader di diritto della comunità islamica americana, in virtù della loro conoscenza dell´islam e della loro padronanza dell´arabo, la lingua in cui è stato scritto originariamente il Corano.
Ora, però, il dottor Khan ha cominciato a invitare più spesso i leader della comunità islamica afroamericana a parlare nella sua moschea, e ha ospitato l´imam Talib, lo scorso ottobre, per una serata di raccolta fondi per la sua organizzazione, la Muslim Alliance in North America. Dalla sua prima visita nel Centro islamico, l´imam Talib è tornato con promesse di donazioni per 10.000 dollari da parte dei fedeli di Long Island.
(Copyright New York Times-La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

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