Sul prossimo vertice tra Abu Mazen ed Ehud Olmert pubblichiamo due articoli.
Dal GIORNALE del 9 marzo 2007 la realistica analisi di Fiamma Nirenstein:
Domenica il premier israeliano Ehud Olmert incontrerà il presidente dell’Autonomia palestinese Abu Mazen; tra pochi giorni a Bagdad si terrà il summit in cui Condoleezza Rice parlerà direttamente con iraniani e siriani sulla sicurezza in Irak; fra tre settimane ci sarà il summit arabo di Riad in cui i sauditi dovrebbero rinfrescare la loro proposta di pace del 2002.
Prima di avventurarsi in previsioni e speranze di qualche passo avanti, però, sarà bene guardarsi intorno nel Medio Oriente per cercare di capire cosa succede tra Israele e i palestinesi. Anche il ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema dovrebbe cercare di farlo senza gli occhiali dell’ideologia: tra i leader europei è quello che più di ogni altro ha deciso che di fatto l’accordo della Mecca dell’8 febbraio fra Hamas e Fatah ha significato l’implicito riconoscimento dello Stato d’Israele; e che di conseguenza l’Europa, che insiste sulle condizioni del Quartetto (riconoscimento di Israele, fine del terrorismo, rispetto degli accordi già raggiunti), deve riaprire le strade diplomatiche e i cordoni della borsa. La strada palestinese racconta chiaramente lo stato delle cose: a Khan Yunis, all’ingresso del negozietto di musica di Mohammed al Shaer c’è un avviso: quelle vendite sono haram, proibite dall’Islam. Mohammed non ci ha fatto caso finché una bomba gli ha fatto saltare in aria il negozio. Intorno, decine di Internet café, negozi di musica e farmacie sono saltati in aria da ottobre. Volantini con le rivendicazioni di un gruppo, «La spada dell’islam», hanno fatto parlare della branca di Al Qaida installatasi a Gaza, ma la radicalizzazione religiosa in realtà ha origine dal grande potere di Hamas.
Anche i delitti d’onore hanno avuto un picco. E il ministero dell’Educazione ha ordinato di togliere dal mercato un’antologia di famose storie popolari narrate da donne palestinesi perché, dice il ministro Nasser Shaer, il libro «è pieno di espressioni sessuali». Il fatto che Hamas, che sta per formare un governo
Fatah, si impegni a consolidare nei Territori palestinesi un piccolo Iran sunnita, dimostra che ha acquistato una forza che lo guida nelle sue scelte anche di politica interna, che rispecchia la sua determinazione a riconquistare all’Islam tutta la Terra, «dal fiume al mare», come dicono. Hamas è sicuro che il suo messaggio egemonico integralista sia anche un «asset» strategico che dà coesione e rapporti internazionali utili, un vantaggio per la vittoria totale. Lo testimonia anche l’integralismo dei libri di testo delle scuole, mirati alla costruzione di una mente palestinese jihadista e alla sparizione di Israele. Il mondo palestinese non si aspetta la pace, né la richiede. Un ministro del precedente governo di Fatah, Abu Ali Shahini, ha risposto alle critiche di Al Zawahiri, il vice di Bin Laden, sui contatti di Abu Mazen con gli americani dicendo: «Fate a Bush quello che volete, vi auguriamo il successo... Noi combattiamo gli americani e li odiamo più di voi». Ma nuove voci sostengono che «Hamas è pronto a una tregua», e l’Occidente si mette in religioso ascolto, fino alla prossima decisa, indignata smentita.
Il leader supremo di Hamas, Khaled Mashaal, martedì scorso è stato chiarissimo: ha incontrato a Teheran il presidente Ahmadinejad, che gli ha rinnovato l’impegno dell’Iran come grande sostenitore e finanziatore, e che gli ha confermato che non deve temere nessun bando europeo, e che Israele scomparirà dal mondo. Se domenica Olmert e Abu Mazen si incontreranno, uscirà da parte di Olmert la stessa richiesta di un riconoscimento che non può arrivare, visto che lui ha solo il 30% nel Paese, e che il governo è controllato da Hamas. A Bagdad, poi, la Rice incontrerà un Iran convinto che sta mettendo in ginocchio il morale degli Usa e di Israele, che può contare su un nuovo tipo di deterrenza terroristica, su postazioni sempre più forti in Libano, dove gli Hezbollah sono pronti a distruggere il governo di Fuad Siniora e a lanciare un’altra guerra contro Israele.
A Riad, infine, il rilancio del piano di pace ha un ostacolo insuperabile: quello dei
profughi palestinesi, che i sauditi chiedono di riammettere in toto nei confini dello Stato ebraico. Israele, se vuole restare se stesso, con i suoi sei milioni abitanti compresi gli arabi israeliani, non può certo permettere l’ingresso di più di 5 milioni di discendenti dei profughi del ’48 e del ’67. I sauditi lo sanno, ma sanno anche che i Paesi arabi li vogliono cacciare, e temono la crescita del carisma iraniano.
Dal FOGLIO un articolo che sostanzialmente riflette le posizioni palestinesi. Cosa insolita per un giornale che normalmente riporta sì le posizioni palestinesi, ma identificandole chiaramente come tali:
Gerusalemme. Ehud Olmert e Abu Mazen s’incontreranno domenica. Il meeting tra il premier israeliano e il rais palestinese si terrà il giorno dopo la conferenza di Baghdad, dove si siederanno allo stesso tavolo i delegati di Stati Uniti, Iran, Siria e Arabia Saudita. Una prima assoluta. Riad, attenta agli sviluppi della situazione irachena, punta sul processo di pace mediorientale per arginare l’ascesa iraniana in tutta la regione. La sua mediazione sarà discussa con tutta probabilità da Olmert e Abu Mazen, anche se all’ordine del giorno ufficiale ci sono questioni umanitarie. Sari Nusseibeh, intellettuale palestinese, spera che nessuno si faccia scappare l’opportunità del 28 marzo, quando, al summit della Lega araba a Riad, la corte saudita potrebbe riproporre la sua iniziativa del 2002: il riconoscimento arabo d’Israele contro il ritiro sui confini del 1967. Re Abdullah – con Egitto, Giordania ed Emirati arabi, il cosidetto Quartetto arabo – opterebbe per la versione originale del piano: allora infatti i paesi arabi apportarono al documento emendamenti che resero il testo del tutto inaccettabile per Israele. Oggi molti incoraggiano questo attivismo saudita, come ricorda Nusseibeh, che è il rettore dell’università al Quds di Gerusalemme ed è stato in politica negli anni in cui era attivo il processo di pace, ha studiato a Harvard e Oxford ed è stato rappresentante dell’Anp a Gerusalemme. Al Foglio, nel suo ufficio di Beit Hanina, Nusseibeh spiega che, secondo lui, il testo di Riad non sarà nella sua forma originale, ma l’importanza della proposta araba rimane. Fa riferimento a un articolo del Jerusalem Post di Gershon Baskin. La stampa israeliana, da giorni, analizza l’iniziativa. C’è chi spinge affinché Olmert non si faccia sfuggire un’occasione per tornare a negoziare. Baskin, nota Nusseibeh, “sottolinea l’aspetto positivo prominente della proposta che dovrebbe essere sfruttata dai leader di Gerusalemme”. L’intellettuale pensa che “gli israeliani debbano accettare l’iniziativa come quadro per i negoziati, con l’appoggio dei governi arabi”. Per lui è “un’opportunità storica e unica per Israele, se desidera veramente vivere in pace” e trova “strano” che non sia stata “sfruttata prima”. In Israele il dibattito è aperto. Mesi fa il premier Olmert aveva dichiarato che c’erano alcuni elementi positivi nella proposta saudita. Tzipi Livni, ministro degli Esteri, ha detto che potrebbe esserci spazio per il negoziato. Il responsabile per l’Edilizia, Meir Sheetrit, come ha spiegato al Foglio, fa campagna a favore dell’iniziativa. Ma c’è anche il partito degli scettici: all’incontro alla Mecca di un mese fa, Hamas ha ottenuto un buon risultato perché, insieme col cessate il fuoco, ha rimandato per l’ennesima volta la questione del riconocimento di Israele. Neppure Nusseibeh sa dire se Riad avrà successo, sospira e butta la palla nel campo israeliano: “E’ difficile. Spero che il governo di Olmert faccia il passo necessario. E’ il momento: se lasciamo andare ancora, perderemo l’occasione”. La difficile gestazione di un governo palestinese non è un ostacolo all’opzione saudita: “Non sono pronto a spendere una singola parola positiva sulla nostra leadership né sull’esecutivo né su Abu Mazen – dice Nusseibeh – La situazione è complicata, ma non vedo una scintilla di speranza, da parte israeliana, tale da far alzare in piedi un palestinese a lamentarsi dell’attuale leadership”. “Se qualcosa non succede ora… E’ necessario un evento-terremoto, come quando Anwar el Sadat è venuto in Israele; magari nella direzione inversa, con Israele che rompe la barriera psicologica dicendo: ‘Sì siamo pronti a questo’”.
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